La Libia, come Iraq e Siria, terra di conquista degli imperialismi e delle fazioni borghesi regionali e locali assetati di profitto

(«il comunista»; N° 163 ; Marzo 2020)

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Il disordine mondiale che caratterizza in modo violento ormai gli ultimi trent’anni – datando l’inizio di questo periodo dal crollo dell’Urss nel 1989 (1) – tende a concentrare le sue più acute contraddizioni in alcune regioni del mondo che, nel tempo, hanno assunto lo status di zone strategiche di vitale importanza per le potenze imperialiste, vecchie e nuove. Oltre all’Asia centrale e all’Africa sub-sahariana, sono il Medio Oriente e il Nord Africa – quindi l’area del  Mediterraneo “allargato” – ad essere costantemente nel mirino sia delle potenze imperialistiche che dei regimi borghesi regionali i quali, approfittando del disordine mondiale e inseguendo l’obiettivo di allargare i propri interessi nelle aree circostanti – in particolare, da parte dell’Iran, della Turchia, dell’Arabia Saudita, dell’Egitto – intervengono diplomaticamente, finanziariamente, politicamente e militarmente a sostegno di fazioni locali nei diversi paesi (non importa se collegate alle varie organizzazioni dello jihadismo islamico o meno) attraverso le quali mettere le mani su un bottino che non è più riserva esclusiva delle tradizionali potenze imperialistiche.

Oggi la Libia, come ieri la Siria e l’altro ieri l’Iraq, è un teatro di primaria importanza in cui si acutizzano i contrasti tra i molteplici protagonisti di una guerra che vede sicuramente al centro degli interessi il controllo e il possesso del petrolio e delle riserve di gas di questo “scatolone di sabbia” (come veniva chiamato dall’Italia colonialista all’epoca della guerra italo-turca del 1912).

La Libia – scrivevamo nell’aprile scorso (2) – tra i vari paesi della fascia che va dal Nord Africa al Medio Oriente, non è mai stato un paese che poteva contare su una base nazionale unitaria. E’ sempre stato un coacervo di tribù, di clan che hanno continuato a vivere controllando pezzi di un territorio per lo più desertico che, per ragioni geografiche e storiche, è inserito come fosse una enorme enclave tra paesi molto più popolati. Gli anni in cui un capo militare come Gheddafi riuscì a destreggiarsi tra le varie tribù, assicurando loro una fetta dei proventi del petrolio e una parte di potere autonomo nei loro territori, sono passati per sempre, come è successo per l’Iraq di Saddam Hussein; capi militari, che riuscivano ancora a mantenere una certa autonomia nei confronti delle ex potenze coloniali, appoggiandosi di volta in volta ad uno o all’altro dei superimperialismi dominanti, Usa e Urss, nei diversi tentativi di una propria stabilizzazione statale. Per anni, avere in mano il petrolio e l’opportunità di dare concessioni di estrazione alle diverse compagnie internazionali, costituiva una forza e permetteva una certa “autonomia” statale basata sulle risorse finanziarie provenienti dalla vendita dell’oro nero in un clima di relativo equilibrio nei rapporti di forza mondiali tra i due massimi schieramenti imperialistici che facevano capo agli Usa e all’Urss.

 

RAPPORTI DI FORZA INTERNAZIONALI IN CONTINUO CAMBIAMENTO

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Ma i rapporti di forza internazionali sono cambiati a causa di una serie di fattori:

- il relativo declino delle vecchie potenze colonialiste Francia e Gran Bretagna;

- l’aumentato peso, sul mercato delle materie prime vitali per l’industria capitalistica, come il petrolio, di protagonisti di tutto rispetto come l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Iraq, la Libia, l’Algeria;

- l’emergere, sempre più consistente, di potenze economiche come la Germania in Europa e la Cina in estremo Oriente e la riduzione del dominio assoluto sul pianeta degli Stati Uniti nonostante il crollo dell’Urss e lo spezzettamento del suo vecchio “impero”;

- le ribellioni delle masse proletarie e diseredate in tutto il Medio Oriente e nei paesi del Nord Africa – non solo quindi delle masse palestinesi – provocando la caduta di reucci dispotici locali come il tunisino Ben Alì e l’egiziano Mubarak, ma anche l’intervento militare dei grandi imperialismi per contenere le conseguenze sociali delle cosiddette “primavere arabe”, in particolare in Iraq e in Siria, fino all’abbattimento di Gheddafi.

La situazione successiva agli interventi militari degli imperialismi è sotto gli occhi di tutti:

-in paesi in cui, successivamente alle “primavere arabe” e alla cosiddetta “lotta contro il terrorismo internazionale” condotta dagli imperialismi occidentali, il dominio politico è ricaduto nelle mani di dispotici dittatori locali, come Al-Sisi in Egitto, sostenuto dagli Stati Uniti, la situazione sociale è ancora sotto il ferreo controllo borghese col suo corredo di repressione sistematica di ogni voce d’opposizione;

-in Siria, il dominio politico del regime di al-Assad è garantito dal forte sostegno e dalla presenza militare dell’imperialismo russo e dal sostegno “esterno” dell’Iran, peraltro non in tutto il territorio dei vecchi confini siriani ereditati dalla spartizione avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale tra Regno Unito e Francia;

-in Iraq, dopo aver fatto fuori Saddam Hussein, la situazione non si è più “stabilizzata” e tanto meno “democratizzata”, com’era negli obiettivi degli imperialisti occidentali che gli han fatto la guerra;

-in Libano, la situazione politica e sociale è costantemente sull’orlo della guerra civile;

-in Palestina, e in particolare nella striscia di Gaza, esiste soltanto la repressione da parte israeliana, col beneplacito degli Stati Uniti, della civilissima Europa, della Lega Araba e di un Egitto che ha scoperto recentemente la convenienza di fare buoni affari con Israele soprattutto nella prospettiva di diventare l’hub del suo gas naturale estratto dai giacimenti Leviathan e Tamar (concessioni ottenute da Cipro-Nicosia nella propria zona di mare esclusiva);

-in Giordania, unico paese in cui la situazione politica resta piuttosto stabile; ciò è dovuto al fatto che il paese non è un importante produttore di petrolio o di gas naturale e che rappresenta per l’Europa, in particolare, e per gli Stati Uniti, uno Stato cuscinetto in grado di stemperare un po’ le tensioni che si accumulano nella regione.  La Ue, dal 2002, ha un rapporto molto stretto con la Giordania tanto da averle concesso più volte dei prestiti agevolati di centinaia di milioni di euro (l’ultimo, di fine dicembre 2019, è di 500 milioni) per sostenere la sua economia; inoltre la Giordania si è caricata da decenni dell’accoglienza dei profughi palestinesi, che sono circa 3 milioni, e negli ultimi anni, anche dei profughi siriani che ammontano a circa 1,3 milioni, di cui 655mila riconosciuti come rifugiati ufficiali, cosa che la equipara in un certo senso alla Turchia, ma con un peso economico, politico e militare estremamente più modesto.

 

La Libia, a differenza dell’Iraq e della Siria, non è ancora uscita nemmeno parzialmente dalla situazione disastrata in cui è precipitata conseguentemente alla caduta di Gheddafi. Qui le potenze imperialiste, al di là degli interessi strategici rappresentati da un paese al centro del Mediterraneo, e al di là delle riserve petrolifere e di gas naturale che il suo sottosuolo e i suoi fondali marini custodiscono, sembra che usino la Libia anche come un terrritorio in cui saggiare la forza politica, diplomatica, militare di ognuna di loro, grandi o medie che siano, in un quadro di contrasti interimperialistici evidenti e che vedono protagonisti non solo le fazioni borghesi libiche, ma tutti i paesi che direttamente o indirettamente sono coinvolti, o intendono coivolgersi, nel teatro libico avanzando ognuno per sé i propri interessi  e le proprie pretese.

In Libia nulla è scontato, come d’altra parte non lo è nemmeno in Siria o in Iraq, e forse per la prima volta si è reso straordinariamente evidente il fatto che i trattati e gli accordi presi tra le parti in conflitto, con tutte le firme dei potenti della terra, non valgono un’acca! D’altra parte, un esempio lo dà lo stesso Israele che, delle risoluzioni dell’Onu, delle proclamazioni ufficiali relative allo Stato di Palestina a fianco dello Stato di Israele e di tutti gli innumerevoli accordi di pace con i palestinesi siglati nelle più prestigiose cancellerie occidentali, se ne è bellamente infischiato, continuando la sua guerra di conquista e di rapina dei territori palestinesi e di repressione della popolazione palestinese.

 

UNA GUERRA CIVILE PER BANDE FORAGGIATA DALLE POTENZE REGIONALI E IMPERIALISTICHE

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In Libia, dal 2011 al 2014, una volta fatto fuori Gheddafi, si è scatenata una guerra civile che ha visto coinvolte tutte le 140 tribù libiche e tutte le milizie formatesi nel frattempo (ad oggi sembra che siano in tutto 240), tra le quali parecchie islamiste con legami con l’Isis e Al-Qaeda. Naturalmente l'Onu e le potenze imperialistiche dichiaravano costantemente di cercare una soluzione pacificatrice grazie alla quale riprendere l’estrazione di petrolio e la sua vendita e di favorire le immancabili elezioni per dare al paese una sembianza democratica. Nel frattempo si sono costituiti due parlamenti, uno a Tripoli e uno a Tobruk che l’Onu ha cercato di mettere d’accordo (senza riuscirvi): nel dicembre 2015, una rappresentanza cospicua dei due parlamenti ha firmato un accordo di pace tra le varie fazioni , formando, sotto l’egida dell’Onu e con un riconoscimento internazionale, il cosiddetto Governo di Accordo Nazionale (GNA), insediatosi poi a Tripoli. Fayez al-Sarraj venne incaricato di formare questo governo che gli Stati Uniti e l’Unione Europea riconobbero immediatamente come “l’unico governo legittimo in Libia”. Lo scarso valore di questo riconoscimento lo si deduce dal fatto che la guerra civile non si è mai fermata e che il generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, pur sostenuto e sospinto dall’Egitto perché entrasse nel Governo, si è arroccato nella Cirenaica dedicandosi ad organizzare un suo esercito (l’Esercito Nazionale Libico) per prepararsi prima o poi a conquistare Tripoli, a compiere azioni militari per impossessarsi dei pozzi petroliferi  della Cirenaica e dei porti di Sidra, Ras Lanuf, Brega e Zuetina da cui partono le petroliere. Nel 2016, forte del controllo della Cirenaica e del suo petrolio, Haftar stringe un accordo con la National Oil Corporation di Tripoli (NOC, unico ente riconosciuto dai paesi importatori di petrolio libico), che non dipende direttamente dal GNA, per riprendere l’esportazione del petrolio e sostenere finanziariamente il proprio potere. 

 Fayez al-Sarraj, a sua volta, si appoggia su di un certo numero di tribù ed è sostenuto da alcune milizie tripoline, di Misurata e di Zitan; ma il suo è un “governo nazionale” non riconosciuto da molte altre fazioni libiche, e non solo quelle che sostengono Haftar, con le quali di volta in volta al-Sarraj deve negoziare l’alleanza, il sostegno al proprio governo e la difesa armata di Tripoli. In realtà, non poche milizie operanti a Tripoli, a Bengasi, a Misurata, a Sirte, per citare le città più importanti, appoggiano l’Isis e contro di loro si lanciano sia le milizie fedeli ad Haftar che le milizie fedeli al GNA; ma queste “fedeltà” vacillano continuamente, cambiando fronte e “nemico” a seconda delle convenienze del momento. Oltretutto diverse di queste milizie gestiscono e controllano i campi di concentramento in cui vengono internati, sfruttati, derubati, torturati e massacrati, i migranti che dai paesi del Sahel, dell’Africa centrale, del Corno d’Africa o dal Medio Oriente tentano di venire in Europa. Nello stesso tempo, nel Fezzan, che è la regione desertica a sud della Tripolitania, confinante con il Ciad, operano milizie legate ai gruppi terroristi ciadiani che controllano alcuni pozzi petroliferi e, soprattutto, il traffico di armi, droga ed esseri umani; milizie con le quali ora al-Sarraj, ora Haftar, hanno tentato e tentano di volta in volta di prendere degli accordi per sostenere i relativi interessi.

Se Haftar controlla una parte importante di pozzi petroliferi, quindi l’estrazione e la vendita di petrolio, Fayez al-Sarraj controlla la Banca centrale che amministra tutti i pagamenti del petrolio venduto: e questo è uno dei motivi di fondo per i quali Haftar vuole conquistare Tripoli e detronizzare al-Sarraj. Ma, al di là delle storielle che entrambi raccontano sull’orgoglio “nazionale”, sulla lotta contro il terrorismo islamico – di cui si vanta in particolare Haftar grazie ai suoi vittoriosi attacchi militari per “liberare” Bengasi –, sulla volontà di pacificare il paese, resta il fatto che il conflitto tra queste due decisive fazioni libiche è in realtà un conflitto internazionale.

E’ noto che il generale Haftar è sostenuto apertamente con armi e denaro dall’Egitto, dalla Russia (a fianco di Haftar operano centinaia di contractor russi), dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Arabia Saudita, meno apertamente dalla Francia e, ultimamente, anche dagli Stati Uniti che fino a ieri dichiaravano di stare dalla parte del governo legittimo di Sarraj, sebbene attualmente sembrano spariti dallo scenario libico. E nessuno di loro ha fatto nulla di concreto per fermare l’avanzata dell’esercito di Haftar alla conquista di Tripoli; la Francia è anche intervenuta con la propria aviazione, nel Fezzan, a bombardare le milizie legate ai gruppi islamisti ciadiani per facilitare l’avanzata, da sud, dell’esercito di Haftar verso Tripoli.

Fayez al-Sarraj è ancora riconosciuto capo del governo legittimo dall’Onu, dall’Italia, dal Qatar e, negli ultimi tempi, dalla Turchia. Dall’Italia ha ricevuto le motovedette della guardia costiera con il pretesto di reprimere il traffico illegale di migranti verso le sponde italiane (ma è ampiamente risaputo che la guardia costiera libica, ripresi i migranti in mare, li riporta nei campi da cui erano fuggiti a causa delle sevizie e delle torture subite); dal Qatar riceve finanziamenti e armi, ma è soprattutto dalla Turchia che ha ricevuto il sostegno più importante e decisivo. E questo fatto ha, in buona parte, cambiato i rapporti di forza interni alla Libia, poiché, nostante il dichiarato embargo sulle armi e il cessate-il-fuoco richiesto alla Conferenza di Berlino dello scorso 19 gennaio – un cessate-il-fuoco non sottoscritto né da Haftar né da al-Sarraj – e nonostante i ripetuti richiami al “dialogo tra le parti” e la serie di incontri degli ultimi anni a Parigi, a Mosca, a Palermo, a Berlino con le potenze imperialiste, non sono le parole che dialogano, ma le armi. Su questo piano, sebbene Turchia e Russia sostengano le opposte fazioni libiche che si fanno la guerra, esse comunque hanno un obiettivo comune: quello di controllare il petrolio e il gas libico creando in questo modo un ulteriore ostacolo ai paesi europei nelle forniture energetiche. Sia i russi che i turchi hanno interesse a fornire l’Europa attraverso il NordStream che arriva in Germania, e il TurkishStream che sbucherà nella Turchia europea dal Mar Nero nei Balcani (3); controllando l’afflusso di gas e di petrolio libico – non va dimenticato che la Libia è il paese con le maggiori riserve di petrolio e gas di tutta l’Africa – sia Russia che Turchia stringerebbero i paesi europei in una morsa da cui trarre notevoli profitti e, grazie alla quale, aumentare il proprio peso politico e diplomatico nei loro confronti. Da parte sua Haftar, per rafforzare il proprio potere ricattatorio verso la fazione di al-Sarraj e verso le potenze europee che lo sostengono o che tentano la via della conciliazione diplomatica (Italia e Germania in particolare), continua a bombardare i quartieri sud di Tripoli, ha messo sotto assedio la città di Misurata e ha bloccato, prima della Conferenza di Berlino, i terminali petroliferi della Sirte, bloccando di fatto la produzione giornaliera di petrolio di 800mila barili al giorno che, finanziariamente, significano circa 55 milioni di dollari al giorno; un blocco, d’altra parte, che è continuato anche dopo la Conferenza di Berlino, e che, al 25 gennaio scorso, aveva prodotto un danno di circa 260 milioni di dollari in sei giorni (4).

 

LA TURCHIA, ORA, IN PRIMO PIANO

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L’intervento della Turchia, con i cooptati mercenari siriani (ai 600 già presenti a Tripoli, se ne sono aggiunti altri 3000 arrivati negli ultimi giorni di gennaio) e con le navi piene d’armi e di carri armati, è stato giustificato da Erdogan come azione necessaria per difendere il “governo legittimo” in Libia, per far decollare un processo di “pace” che non è mai partito, ma, soprattutto – sentite, sentite! – per evitare che «le organizzazioni terroristiche come Isis e Al Qaeda che hanno subito una sconfitta militare in Siria e in Iraq, trovino un terreno fertile in Libia per rimettersi in piedi. Tra l’altro – insiste Erdogan – alcuni gruppi che condividono pienamente l’ideologia di queste organizzazioni terroristiche, tra cui Madkhali-Salafis, combattono al fianco di Haftar. Se il conflitto aumenta, la violenza e l’instabilità alimenteranno anche l’immigrazione irregolare verso l’Europa» (5).

Ma, al di là delle solite parole dell’ipocrisia pacifista tipica di ogni borghesia, l’interesse della Turchia per la Libia ha ragioni economiche molto concrete. La Turchia, già con Gheddafi, aveva concordato dei progetti miliardari per le proprie imprese di costruzione stimati intorno ai 20 miliardi di dollari, progetti che intende non perdere; inoltre, l’intesa siglata nel dicembre scorso con il GNA di Tripoli,  oltre a prevedere il sostegno turco al GNA in termini politici e militari, ha concesso alla Turchia un’ampia parte della sua zona di mare esclusiva per le perforazioni alla ricerca di gas e petrolio di cui i fondali libici abbondano. Questo significherebbe, per la Turchia, avanzare nel progetto di un’autonomia energetica (la Turchia è povera di petrolio e di gas) rispetto alla forte dipendenza attuale; ed è anche in questa prospettiva che la Turchia si è lanciata, con navi militari, rischiando incidenti diplomatici con diversi paesi, ad interferire nelle concessioni fatte dalla Repubblica di Cipro all’Eni, alla Total, alla coreana Ekogas, alla Shell e alle americane Noble Energy e, soprattutto, all'Exxon Mobil per i giacimenti detti del Levante nelle proprie acque del Mediterraneo orientale. Si spiega, dunque, l’aggressività turca che, negli ultimi anni, sta approfittando dell’aumentata debolezza dell’Unione Europea, inevitabilmente sempre più divisa dai contrastanti interessi nazionali, e di una Nato, di cui tra l’altro fa parte, sempre meno attiva visto il defilarsi degli Stati Uniti dal ginepraio mediorientale. L’attivismo turco verso la Siria e verso la Libia fa parte, in realtà, di un’operazione politico-economica di accordi bilaterali con alcuni paesi del Sahel e del Corno d’Africa che va avanti da una decina d’anni, in particolare con il Senegal, il Gambia, la Repubblica del Congo e la Somalia, con cui Erdogan ha firmato accordi relativi alle loro risorse minerarie e ad una serie di progetti di infrastrutture per centinaia di milioni di dollari (6) e con i quali paesi mira ad avere un’alleanza politica da contrapporre ai suoi avversari, europei, africani o mediorientali che siano.

Lo si è visto chiaramente nei confronti della Siria e dell’Iraq, per citare gli esempi più recenti, dove la Turchia di Erdogan ha trovato una sponda nella Russia di Putin, altrettanto attiva in Medio Oriente e interessata ad occupare lo spazio che le potenze europee e gli Stati Uniti stanno lasciando nel Mediterraneo orientale.

 

CONTANO LE ARMI, NON LE PAROLE

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Di fatto, l’attuale guerra libica non è che il prolungamento dello scontro di interessi a livello internazionale in essere già a i tempi di Gheddafi, a cui, oltre alle vecchie potenze europee ex coloniali (Italia compresa), si sono aggiunti una serie di Stati che avanzano interessi non di poco conto: lo stesso quadro degli Stati sostenitori delle due fazioni libiche più importanti attualmente, evidenzia come il Mediterraneo stia ridiventando il teatro di uno scontro tra Stati pronti a farsi la guerra per accaparrarsi risorse minerarie vitali per le rispettive economie e per aumentare le rispettive influenze a carattere politico-strategico. Oltretutto, l’intervento militare diretto della Turchia in Libia riapre gli aspri contenziosi emersi sulla “questione Cipro”, rimettendola in dura concorrenza con Grecia, Israele ed Egitto che stanno sviluppando un progetto congiunto al fine di realizzare un gasdotto sottomarino EastMed col quale trasportare il gas da Israele ed Egitto verso l’Europa, escludendo la Turchia; una concorrenza che, seppure in secondo piano, vede coinvolta anche la Russia.

La caratteristica dell’ampia regione che comprende il Nord Africa e il Medio Oriente, come abbiamo sempre sostenuto e dimostrato, è l’instabilità permanente; una regione costantemente terremotata e terremotabile, nella quale oggi la Turchia si è messa di traverso nel gioco delle parti che vedeva finora come protagonisti principali l’Arabia Saudita e l’Iran, e come recente comprimario la Russia. La Turchia intende ritagliarsi una fetta di potere nell’ampio quadro regionale, uscendo dalla marginalizzazione in cui è stata costretta finora, e per farlo, senza attendere i tempi degli incontri diplomatici e dei negoziati con decine di capitali diverse, ha scelto la classica scorciatoia militare. Di fronte alle navi da guerra i “diritti internazionali” e gli accordi di pace affondano.

Il fallimento dell’ennesima Conferenza di pace tenutasi a Berlino, grazie all’iniziativa diplomatica della Germania, paese non direttamente coinvolto nel sostegno di una delle due fazioni libiche, era in realtà già annunciato non solo dai fallimenti delle conferenze precedenti, ma anche dall’iniziativa del generale Haftar che, se da un lato non diceva di no ad un “cessate-il-fuoco” e all’ascolto delle proposte che intorno a quel tavolo sarebbero state avanzate, in pratica continuava la sua azione militare contro Tripoli, sapendo oltretutto di andare contro la pressione di Russia ed Egitto che lo invitavano a calmarsi e ad aprire i negoziati con Sarraj sotto l’ombrello che la Germania stava offrendo. Nulla di fatto, questo è il risultato; tant'è che Haftar si è dovuto subire una dura reprimenda da parte di al-Sisi proprio perché non ha ascoltato i consigli egiziano-russi, mentre dava seguito alla pressione esercitata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti perché continuasse ad attaccare Tripoli; pressione che si spiega col fatto che entrambi questi Stati hanno interessi completamente opposti a quelli turchi.

Più la parola passa alle armi, meno valgono gli inviti al dialogo e alla pacificazione attraverso i negoziati prospettati dall’Onu, dall’Italia e dalla Germania. L’”Europa”, rappresentata dall’asse italo-tedesco non ha avuto alcuna rilevanza concreta, visto che i fattori decisivi stanno nei rapporti bilaterali, ma militari, tra le avverse fazioni libiche e gli Stati che le sostengono. E’ anche per questa ragione che l’Italia, che vantava i trascorsi di buoni rapporti con Gheddafi e con la Libia, grazie alla presenza nel paese più che cinquantennale dell’Eni, ma che, a differenza della Francia, non intendeva e non intende scendere sul terreno dell’appoggio militare ad una delle due fazioni, si ritrova ai margini di vicende su cui non ha alcuna possibilità di incidere. «Povera Italia – scrivevamo nell’aprile scorso – rimasta col cerino in mano. La sua “forza contrattuale”, non solo e non tanto con la Libia – o meglio, con la parte di Libia ancora controllata da Sarraj – quanto con gli altri ben più potenti paesi coinvolti, nel giro di qualche anno è andata assottigliandosi a tal punto da essere vicina allo zero» (7).

 

LA CINA ALL’ORIZZONTE

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Ma c’è un altro competitor che appare silenziosamente all’orizzonte: la Cina. Questo è un paese dal capitalismo particolarmente aggressivo, che ha spinto la propria industrializzazione a tappe forzate e che sta velocemente tagliando una dopo l’altra le tappe della concorrenza mondiale, tanto da essere diventato, a seconda di come i vari istituti internazionali di statistica leggono i dati, la seconda o la terza economia mondiale. La sete di ogni genere di materie prime, e naturalmente di petrolio e di gas, spinge la Cina ad investire ingenti capitali in tutti i paesi che abbondano di materie prime ed a stringere accordi e rapporti con i paesi che riesce a coinvolgere per la realizzazione della cosidetta nuova “Via della seta” (versione italiana della Belt and Road Initiative, BRI), riguardo a cui la Cina rilascia in genere pochissime notizie. Dei 6 corridoi della “Via della seta”, ce n’è uno in particolare che interessa Atene, Trieste (o Venezia) e Rotterdam, quindi Grecia, Italia e Paesi Bassi, punti d’attracco della via che da Fuzhou, passa attraverso Jakarta, Colombo, Kolkata, Nairobi, e che, attraversando il Mar Rosso e il Canale di Suez, sbocca nel Mediterrano orientale per dirigersi verso Atene e proseguire, come detto, fino a Rotterdam. Non per nulla i cinesi si sono comprati il Pireo, il porto di Atene, e stanno mettendo le mani anche sul porto di Trieste. Nello stesso tempo, la Cina ha preso contatto con ben 50 capi di paesi africani, con un occhio particolare per i paesi del Nord Africa (11 dei quali hanno già firmato accordi con Pechino), ai quali lo scorso anno Xi Jinping ha concesso ben 60 miliardi di dollari a fondo perduto o a tassi superagevolati (8). D’altra parte, si capisce perché Pechino sia così interessata al Medio Oriente e al Nord Africa: l’ultimo dato che abbiamo a disposizione rivela che nel 2017, sebbene la Cina sia stata il settimo produttore mondiale di petrolio, è comunque stato il primo paese importatore di petrolio al mondo, importando circa il 30% del petrolio esportato a livello internazionale. E dato che anche l’industrializzazione in India richiede una grande quantità di petrolio (l’India è seconda solo alla Cina per importazione di petrolio), Cina e India stanno creando assieme un cartello d’acquisto per abbattere il prezzo medio a barile.

In pratica, l’area del Mediterraneo e del Medio Oriente torna ad essere prepotentemente una zona delle tempeste in cui i contrasti interimperialistici e interstatali fra le potenze regionali sono destinati ad acutizzarsi sempre più: le guerre di concorrenza sul mercato mondiale non possono che sfociare, prima o poi, in guerre guerreggiate generali. E nelle guerre sono soprattutto le masse di proletari e di diseredati a lasciarci la pelle!

 

MOVIMENTO OPERAIO: IN LIBIA, COME IN OGNI ALTRO PAESE, INTOSSICATO DALLA COLLABORAZIONE INTERCLASSISTA

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Finito il secondo macello mondiale imperialistico, dopo che la Libia era stata occupata dalle truppe Alleate chiudendo in questo modo la fase storica della sua colonizzazione da parte dell’Italia, e dopo un breve periodo di amministrazione congiunta del paese tra Gran Bretagna e Francia, la Libia, nel dicembre 1951, dichiara l’indipendenza come Regno Unito di Libia, con il re Idris I. E’ tra il 1947 e il 1951 che vennero fondate le prime organizzazioni, sindacali e politiche (ed anche il clandestino partito comunista libico di stampo stalinista), tra cui il Movimento Operaio Libico e l’Unione Sindacale dei Lavoratori Libici che, radicata tra i lavoratori portuali, condusse nel luglio del 1950 diversi scioperi per i diritti immediati, normativi e salariali (9). Ma, prima sotto la monarchia di re Idris I e poi sotto Gheddafi, una sistematica repressione ha distrutto completamente quelle organizzazioni operaie; sotto Gheddafi sono state sostituite da organizzazioni corporativiste sulla traccia di quelle fasciste, integrandole nelle istituzioni statali, applicando perciò una politica puramente collaborazionista ereditata dall’odierna Unione sindacale dei lavoratori. Una dimostrazione della dedizione patriottica di questo sindacato l’ha data il capo del sindacato più importante del paese, quello del settore petrolifero, Saad Dinar al Fakhri, che, arrestato alla fine di aprile 2019 dalle autorità di sicurezza della Cirenaica e rilasciato ad inizio giugno dello stesso anno, ha dichiarato che il suo arresto non è stato altro che “un regolare interrogatorio che ha richiesto una custodia cautelare”, aggiungendo che bisognava comprendere “l’imposizione di tali misure date le condizioni in cui versa il paese e la guerra condotta dai Fratelli musulmani contro l’Esercito nazionale libico” (ossia contro le milizie armate di Haftar); ma, quel che è più importante è il suo appello rivolto ai lavoratori: «Ho un messaggio importante per tutti i lavoratori del settore petrolifero sul territorio nazionale: bisogna mantenersi coesi e uniti, restando al fianco della patria così come fatto negli ultimi anni» (10). Più chiaro di così!

Oggi, gli unici proletari che potrebbero opporsi a queste operazioni di guerra e che sono più direttamente coinvolti nel sostenere l’imperialismo del proprio paese sono i proletari dei paesi imperialisti, soprattutto italiani, francesi, tedeschi e russi, e i proletari delle potenze regionali emergenti, egiziani, turchi e israeliani, irreggimentati da poteri politici particolarmente duri che usano la religione e la  repressione a piene mani per ottenere una “coesione nazionale” senza la quale non avrebbero la stessa forza per andare a sfruttare e massacrare altri popoli.

Ma il proletariato di questi paesi è stato abituato da decenni a collaborare con la propria borghesia nazionale per difendere sia un preteso privilegio economico, se raffrontato con le condizioni di miseria e di sfruttamento dei proletari in paesi come la Libia, sia un supposto privilegio di nazionalità “superiore”, ammantato di tradizioni storiche e di civiltà antiche. Che i capitalisti e i loro governanti si riferiscano ad Allah, Yahveh o a Cristo, o che sventolino la bandiera della “democrazia” e della “sovranità popolare” o che urlino al mondo la grandezza della propria storia antica, rispettano in realtà una sola cosa: il capitale, che se ne fotte di qualsiasi dio, di qualsiasi civiltà e storia antiche; il loro unico dio è il denaro e per difenderne la proprietà e i mezzi per accumularne sempre più non hanno alcuno scrupolo a uccidere, massacrare, affamare, gettare nella miseria interi popoli. I capitalisti e i loro governanti hanno fatto, fanno e faranno qualsiasi cosa per i loro interessi di classe, contro i popoli e i proletari stranieri e contro lo stesso proprio proletariato se non si piega alle loro esigenze; le blandizie di oggi si possono trasformare rapidamente in brutali repressioni, le briciole economiche concesse oggi possono essere eliminate improvvisamente per “ragioni superiori di Stato”, la tuta da lavoro con cui si entra in fabbrica può essere trasformata di colpo in uniforme militare per essere mandati al fronte di guerra. E tutto questo per la “nazione”, per la “patria”, per gli interessi nazionali da difendere non solo in patria, ma anche in paesi lontani combattendo un “terrorismo” che è sempre “straniero” quando invece il primo terrorismo che i proletari devono affrontare è nel proprio paese, è il terrorismo della propria borghesia dominante che, a difesa dei suoi interessi di classe, decide vita e morte di milioni di proletari.

 

LA PROSPETTIVA DI VITA È SOLO NELLA LOTTA DI CLASSE, SOPRATTUTTO NEI PAESI IMPERIALISTI

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Per fermarli c’è soltanto una via, la più semplice e diretta, ma la più ardua e difficile: la via della lotta di classe. Semplice e diretta perché riconosce il nemico principale nella borghesia di casa propria, e quindi anche nelle borghesie straniere, alleate o meno alla propria borghesia; semplice e diretta perché si basa su interessi materiali in cui tutti i proletari, in quanto lavoratori salariati, si riconoscono, unendo le proprie forze ed organizzandosi per lottare in un fronte di classe, al di fuori di ogni collaborazione interclassista e di pretesi e inesistenti interessi “nazionali” comuni con la propria borghesia. Ma ardua e difficile, perché le forze di conservazione sociale ed opportuniste che collaborano sistematicamente, da decenni, con la borghesia e le sue più diverse fazioni, hanno distrutto la tradizione classista del proletariato dei paesi di più vecchio capitalismo, mentre hanno impedito al proletariato dei paesi di più giovane capitalismo di attingere a quella tradizione; ardua e difficile perché sia i proletari dei paesi imperialisti che i proletari dei paesi oppressi sono nelle condizioni di dover ricostruire di sana pianta un’esperienza e una tradizione di lotta classista senza le quali non avranno mai la forza di porsi sulla via dell’emancipazione dal capitalismo. Ardua e difficile, perché le illusioni e i pregiudizi che la borghesia, e soprattutto la piccola borghesia, diffondono a piene mani in tema di democrazia, di collaborazione di classe, di diritti costituzionali, di parlamentarismo, di nazionalismo, di supremazia religiosa o di razza, non si combattono con altre illusioni e altri pregiudizi in tema di cultura, di bontà umanitaria, di redistribuzione della ricchezza e cose simili. Illusioni e pregiudizi che si eliminano soltanto attraverso la lotta classista, nello scontro sociale reale in cui le classi nemiche si riconoscono come tali e si combattono sapendo che l’emancipazione della classe proletaria la si ottiene solo vincendo contro il dominio sociale e politico della classe borghese, abbattendone la dittatura per instaurare la propria dittatura di classe, avviando in questo modo un processo rivoluzionario che dalla rivoluzione politica evolve in rivoluzione sociale ed economica.

Ciò che manca ancora al proletariato di ogni paese non sono soltanto la lotta di classe e la prospettiva che la lotta di classe apre verso l’emancipazione dal capitalismo e dal dominio della classe borghese; manca lo spostamento dei proletari dal terreno del completo asservimento alle proprie borghesie e della collaborazione di classe al terreno dell’aperto scontro di interessi classisti, al terreno del riconoscimento materiale da parte del proletariato che la borghesia e tutte le forze di conservazione sociale sono i loro nemici giurati che non potranno mai trasformarsi in amici ed alleati. Nello scenario sociale di ogni paese – che sia in guerra o in temporanea pace – questo spostamento del proletariato dal terreno borghese al terreno dell’aperto scontro con la classe borghese può avvenire soltanto in conseguenza della rottura verticale e drastica dei legami sociali, politici, economici e militari con i quali ogni borghesia nazionale tiene avvinto a sé il proletariato che sistematicamente schiaccia, sfrutta e uccide in nome dei propri esclusivi interessi di potere e di profitto.

 

31 gennaio 2020  

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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Articoli sulla Libia da «il comunista»

  • Il pretesto del Golfo della Sirte e del «terrorismo internazionale»: Pax americana e Mediterraneo  (N. 1, Genn/Mar 1986).

  • Bengasi, Derna, Al Bayda, Tobruk, Zintan, Tripoli: Le sommosse che hanno sconvolto Tunisia ed Egitto si estendono in Libia, dove Gheddafi tenta di soffocarle in un bagno di sangue  (Suppl. al N. 119, Apr. 2011).

  • Libia: è strage! Il cannibalismo del governo di Tripoli mostra il vero volto del potere capitalistico libico, sostenuto, protetto, adulato e riverito per decenni dai governi italiani di qualsiasi colore! (Suppl. al N. 119, Apr. 2011).

  • In Libia, alla repressione dei rivoltosi da parte di Gheddafi e dei suoi sostenitori si aggiunge ora l’intervento militare dei paesi imperialisti più interessati alla colonizzazione del Nord Africa e del Medio Oriente (Suppl. al N. 119, Apr. 2011).

  • No all’intervento militare imperialista in Libia! (Suppl. al N. 119, Apr. 2011).

  • Qualche dato economico sulla Libia (Suppl. al  N. 119, Apr. 2011).

  • Libia: eliminato Gheddafi, le potenze imperialistiche si scontreranno per dividersi il bottino petrolifero e per ampliare le proprie zone d’influenza in Medio Oriente (N. 122, Ott. 2011).

  •  Migranti in fuga da guerre e miserie: dopo violenze, torture, stupri, gambe e braccia spezzate e uccisioni nei campi di internamento in Libia o in qualsiasi altro paese di transito, la fuga dei migranti africani e mediorientali continua a rischiare di finire nel cimitero chiamato Mediterraneo (N. 155, Sett. 2018).

  • Libia: ghiotto boccone petrolifero su cui continuano a gettarsi i briganti imperialisti  (N. 159, Mag. 2019).