Beirut

L’assassino è il capitalismo: è lui che va combattuto e rovesciato!

(«il comunista»; N° 165 ; Luglio-Ottobre 2020)

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Presa di posizione del partito in data 2 agosto 2020

 

Nel momento in cui scriviamo, una settimana dopo le esplosioni che, il 4 agosto, hanno devastato il porto di Beirut e buona parte della capitale libanese, il bilancio ufficiale delle vittime è di quasi 170 morti, 30 dispersi e 15.000 feriti oltre a migliaia di senzatetto; le case di oltre 300.000 persone sono state più o meno gravemente danneggiate. Il porto di Beirut, attraverso il quale transita l’80% del traffico marittimo libanese, è fuori servizio per un periodo indefinito, mentre la distruzione dei silos avrebbe fatto perdere l’85% delle riserve di grano del Paese, lasciando incombere sul paese a breve termine la minaccia della penuria alimentare. Secondo le stime ufficiali del 7 agosto, i danni causati dal disastro potrebbero raggiungere i 15 miliardi di dollari, ovvero un terzo del PIL!

Anche se alcuni leader libanesi hanno ipotizzato un attacco aereo (i caccia israeliani hanno ripetutamente violato lo spazio aereo libanese negli ultimi giorni) o l’esplosione di un deposito di armi, sembra che il disastro sia dovuto a dei lavori che hanno provocato una prima esplosione in un hangar contenente fuochi d’artificio che a sua volta ha fatto esplodere, nei capannoni vicini, un deposito di fertilizzante - lo stesso prodotto la cui esplosione, nello stabilimento AZF di Tolosa, aveva causato 31 morti e centinaia di feriti nel 2001. Ma a Beirut la quantità di prodotto era 9 volte superiore a quella di Tolosa: 2.700 tonnellate, contro 300/400 tonnellate.

Le autorità hanno riconosciuto che non erano state prese misure di sicurezza adeguate per lo stoccaggio di questo fertilizzante, immagazzinato per 7 anni dopo essere stato scaricato da una nave da carico in difficoltà il cui proprietario si è rifiutato di pagare i costi di riparazione e manutenzione. Secondo quanto riferito, i servizi doganali avrebbero avvertito in diverse occasioni del pericolo rappresentato da questo deposito, chiedendo anche una decisione giudiziaria per costringere l’amministrazione portuale a evacuare questo prodotto. Ma non sembra che siano arrivati  †al punto di mettere in guardia il pubblico e i lavoratori portuali...

Si tratta quindi di un crimine annunciato: la catastrofe doveva accadere un giorno o l’altro! Gli abitanti di Beirut, ben consapevoli della responsabilità penale delle autorità, hanno lasciato esplodere la loro rabbia: si sono svolte a Beirut manifestazioni di protesta per diversi giorni contro i leader politici, durante le quali le effigi di funzionari governativi sono state impiccate e per poco tempo i ministeri sono stati occupati, nonostante la massiccia presenza di polizia che sparava proiettili di gomma. Gli scontri hanno causato diverse centinaia di feriti.

 

LE DEVASTAZIONI DELLA CRISI ECONOMICA

 

La rabbia dei manifestanti è resa ancora più acuta dal fatto che il disastro portuale si aggiunge al disastro economico in atto da mesi; i proletari e le masse povere sono le prime vittime di questa crisi economica senza precedenti e che è stata ulteriormente aggravata dalle misure prese contro la pandemia Covid. L’inflazione galoppa: 90% a un tasso annuo (ma per i prodotti di base l’aumento dei prezzi ha raggiunto il 169% da settembre), mentre il tasso di povertà è ufficialmente del 46% della popolazione (potrebbe toccare il 60% a fine anno). La disoccupazione colpisce il 35% nel settore formale e giunge fino al 45% nel settore informale. Un libanese su cinque è costretto a saltare un pasto per risparmiare denaro, e questo tasso raggiunge uno su tre per i rifugiati siriani (pari a 1,5 milioni su una popolazione libanese di circa 6 milioni). A fine luglio, l’ONG «Save the Children» ha stimato che quasi un milione di abitanti della grande Beirut, metà dei quali bambini, non disponeva di risorse sufficienti per coprire i bisogni vitali di base (cibo compreso). Il 50% dei libanesi, il 63% dei palestinesi (la comunità palestinese, che è composta da diverse centinaia di migliaia di persone - la cifra esatta non è nota - è principalmente costretta a piccoli lavori saltuari mal pagati del nel settore informale) e il 73% dei siriani temono di non essere in grado di procurarsi di che mangiare nel prossimo periodo (1)...

 

IL GOVERNO SI DIMETTE PER PROTEGGERE IL SISTEMA CAPITALISTA

 

A seguito delle proteste e del diffuso discredito, il governo ha scelto di dimettersi lunedì 10 agosto, dopo aver cercato di soffocare la rabbia parlando di elezioni anticipate; nel suo discorso di dimissioni il Primo Ministro ha avuto persino il coraggio di denunciare la «corruzione endemica all’interno dello Stato»! I manifestanti hanno risposto che le dimissioni del governo non erano sufficienti e che l’intera classe politica doveva andarsene.

Ma in realtà il problema fondamentale non è la presenza di politici ladri o di istituzioni deboli, ma il capitalismo stesso: sono il modo di produzione capitalista e la legge del valore, che trascurano misure di protezione, che sarebbero eccessivamente costose, e che condannano a morte le popolazioni, a Beirut come a Tolosa. È il modo di produzione capitalista che genera la corruzione, corruzione che è tanto più evidente e intollerabile quando il paese è in difficoltà economiche.

È il modo di produzione capitalistico che fa precipitare i proletari e le masse nella miseria e nella fame per salvare i profitti e che strangola gli Stati più deboli per mantenere la salute degli Stati più potenti.

L’imperialismo francese, per bocca di Macron, ha voluto presentarsi come salvatore del Libano e dei libanesi; ma ha insistito affinché le autorità accettassero le misure di austerità del FMI prima di sbloccare qualsiasi «aiuto» verso il paese, che ne ha urgentemente bisogno per evitare il fallimento (2). Inoltre, i proletari libanesi non possono aver dimenticato le azioni criminali dell’imperialismo francese durante la colonizzazione (l’era del «Mandato») e il suo ruolo fatale nella confessionalizzazione della vita politica che ancora oggi grava pesantemente sul Libano. 

La crisi economica non colpisce solo i proletari, ma tocca anche le classi medie, minacciate di proletarizzazione. Esse partecipano al movimento di rivolta, portandovi inevitabilmente le loro illusioni democratiche e di riforma dello Stato. Ma tutte le prospettive, anche le più radicali, anche le più «rivoluzionarie», di riforma delle istituzioni, sono solo vicoli ciechi; non possono portare a un miglioramento della situazione dei proletari e delle masse povere. Le dimissioni o l’allontanamento del governo e degli attuali deputati servono solo a tutelare il funzionamento del sistema capitalista: il vero colpevole è il capitalismo, è lui che deve «togliersi di mezzo» grazie alla rivoluzione proletaria; lo Stato borghese è il suo baluardo, e perciò deve essere abbattuto, per fondare sulle sue rovine il potere dittatoriale del proletariato, essenziale per espropriare politicamente ed economicamente la borghesia e cominciare a sradicare il capitalismo.

Tutti gli appelli a «vendicare» le vittime, tutte le prospettive di «rivoluzione» che voltano le spalle alla lotta di classe rivoluzionaria contro il capitalismo e lo Stato borghese, non possono portare a nulla - come dimostrato dalla pretesa «rivoluzione d’ottobre» che lo scorso anno ha già portato alle dimissioni del governo. 

I proletari d’avanguardia dovranno tirare la lezione da quello che è già accaduto e impegnarsi, in collaborazione con i proletari di tutti gli altri paesi, nella ricostituzione degli organi essenziali per guidare questa lotta proletaria, e in primo luogo il partito di classe, internazionalista e internazionale. È un compito che non può essere svolto dall’oggi al domani, ma deve essere intrapreso senza indugio per poter porre fine per sempre a questo modo di produzione criminale.

 


 

(1) cfr. «Save the Children», comunicato stampa 30/7/2020.

(2) Il governo libanese aveva richiesto una linea di credito di 10 miliardi di dollari al FMI. Il ministro degli Esteri francese, l’ex «socialista» Le Drian, è andato a Beirut l’8 luglio scorso per dire che non sarebbe stato sborsato un soldo finché non fossero state avviate le «riforme». Quando la borghesia parla di «riforme» intende dire attacchi antiproletari!

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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