Resoconto scritto dei temi previsti per la Riunione Generale del 12-13 dicembre 2020. Il programma agrario delle organizzazioni operaie spagnole nella guerra civile (1936-1939)

(«il comunista»; N° 167 ; Gennaio / Marzo 2021)

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I resoconti dei rapporti precedenti, tenuti nelle diverse RG di partito, si possono leggere ne “il comunista” nr. 147: 1936-1939: la Guerra di Spagna. Una prima sintesi delle posizioni del partito sugli eventi di Spagna. I (RG, 17-18 dic. 2016); “El Programa Comunista”, nr. 53: 1936-1939. La Guerra de España; “Programme Communiste”, nr. 105: La Guerre d’Espagne. Une première synthèse des positions du parti (1); “il comunista” nr. 153: Sulla Guerra Civile di Spagna. II (RG, 13-14 gen. 2018);  “El programa Comunista”, nr. 54: La Guerra de España (2). La supuesta “izquierda” comunista española frente a su “revolución democrática”; “il comunista” nr. 157 (Riassunto sintetico della questione della terra nello sviluppo della lotta di classe del proletariato spagnolo. III (RG, 15-16 dic. 2018).

 

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Questa è la terza parte del lavoro sugli aspetti principali dello sviluppo della lotta di classe del proletariato spagnolo durante i tragici anni ’30 del secolo scorso.

Nelle due puntate precedenti abbiamo trattato, in generale, le tesi difese dalle correnti opportuniste (socialdemocratica, stalinista, anarchica e falsa sinistra comunista) in relazione a quel periodo (vedi El Programa Comunista n. 53, giugno 2018) e, più in dettaglio, una critica alla corrente comunista di “sinistra” enucleata attorno al Partido Obrero de Unificación Marxista (POUM) che di solito è presa come riferimento della singolarità degli avvenimenti del 1936-1939 dalle correnti della “nuova” sinistra (vedi El Programa Comunista n. 54, novembre 2020).

A causa della pandemia di Covid-19 la partecipazione dei compagni alla Riunione Generale è stata forzatamente annullata, ma i temi previsti (Livorno 1921: la formazione del Partito Comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista; Il programma agrario delle organizzazioni operaie nella Guerra Civile spagnola 1936-39; Corso dell'imperialismo mondiale) sono stati comunque oggetto di rapporti scritti che stiamo pubblicando.

Per il centesimo anniversario di Livorno 1921, nel mese di gennaio è uscito un Supplemento che contiene la traccia del rapporto che si doveva tenere alla RG e i materiali storici relativi.

Il rapporto sulla Guerra Civile spagnola, vede ora la sua traduzione in italiano (che con l'originale in spagnolo è stato pubblicato nel Bollettino Interno n. 1, gennaio 2021); mentre il rapporto scritto sul Corso dell'imperialismo mondiale vedrà la luce dal prossimo numero. 

 

PERCHÉ DEDICARE UN LAVORO SPECIFICO ALLA CRITICA DELLE POSIZIONI OPPORTUNISTE INTORNO ALLA QUESTIONE AGRARIA?

 

La questione agraria non è esclusiva della Guerra in Spagna, non è nemmeno diversa da quella che possiamo trovare in paesi come l’Italia o altri.

Ma è vero che per molti versi nella storia della Guerra Civile sono state prese come base le ideologie più diverse e la loro lettura parziale di ciò che è accaduto. Da un lato, per almeno una di queste correnti, l’anarchica, il fenomeno delle collettivizzazioni rurali durante il primo anno di guerra è uno dei fenomeni più importanti, il suo vessillo quando si tratta di difendere il ruolo che le loro organizzazioni e i loro militanti svilupparono in quei giorni. Dall’altro, l’immagine che stalinisti e socialdemocratici presentano della guerra civile come uno scontro tra grandi proprietari terrieri agrari sostenuti dall’esercito e un “popolo” che riunirebbe proletari, classi medie urbane, piccoli proprietari agricoli, “contadini” ecc., pone un accento particolare sull’evidenziazione della figura del proprietario terriero come fattore scatenante del conflitto e esempio delle “forze feudali” che avrebbero combattuto, armi alla mano, il regime repubblicano. Ma per noi l’importanza dello sviluppo dei rapporti tra classi rurali e, quindi, delle organizzazioni operaie che sono riuscite ad influenzare il proletariato rurale, non sta in nessuno di questi due temi: né consideriamo la Spagna un’eccezione nel corso della lotta di classe internazionale del proletariato, e quindi neghiamo che il progetto di “socialismo in un solo villaggio” che gli anarchici hanno sollevato abbia un valore più alto delle lezioni della grande tragedia mondiale del proletariato negli anni tra le due guerre, né vediamo nel caso spagnolo il primo di una serie di tentativi che si sono conclusi con la vittoria delle potenze alleate nella seconda Guerra Mondiale. Si tratta semplicemente di dare un contributo come partito al bilancio storico della grande sconfitta del proletariato spagnolo per mano delle forze unite della borghesia e dell’opportunismo di tutti i colori e di farlo concentrandosi sul terreno in cui questo proletariato si è mostrato maggiormente combattivo: nelle campagne.

La storia della Guerra Civile (e del suo preambolo negli anni 1931-35 come uno scontro tra un blocco repubblicano-progressista, dietro il quale c’erano tutte le fazioni politiche operaie, e un blocco militare-reazionario) presenta la Spagna come un paese arretrato in termini di rapporti sociali prevalenti, come una nazione semifeudale dove erano assenti sia le forme sociali che le libertà che caratterizzavano il resto dei paesi circostanti e in cui, quindi, si combatté una battaglia per equipararsi con quei paesi. In questo resoconto dei fatti, che la Spagna fosse allora un paese prevalentemente agricolo si presenterebbe come prova definitiva dell’arretratezza secolare sofferta dalla popolazione nel suo complesso. In breve, questa è la tesi della rivoluzione democratica in sospeso che hanno sostenuto praticamente tutte le correnti politiche e sindacali che avevano predicato, e lo fanno tuttora, tra i proletari iberici di allora e di oggi. Nella prima parte di questo lavoro abbiamo mostrato quanto sia sbagliata questa tesi attraverso  una breve rassegna del periodo rivoluzionario della borghesia spagnola che, sebbene si fosse chiuso male, abbracciava praticamente tutto il XIX secolo e non era troppo lontano dal vissuto in paesi come l’Italia o la Francia. Per continuare, a titolo di introduzione, ripetiamo lo schema che abbiamo già presentato, esponendo un po’ più in dettaglio quel che si riferisce alla questione agraria.

 

1808-1833. Prima dell’invasione napoleonica della Spagna, questo è un paese eminentemente feudale (1) in cui l’azione riformatrice delle correnti illuministe non è riuscita a erodere la struttura politica ed economica. La bassa densità di popolazione, l’isolamento delle regioni l’una dall’altra  e dal potere centrale e il persistere di particolarismi locali che risalgono al Medioevo hanno dato forma ad un paese con differenze molto marcate in termini politici, economici e sociali tra le sue parti, ma in cui, nell’insieme, predominavano i rapporti di produzione feudale, il che, nella campagna, significa proprietà della terra da parte della nobiltà e dell’aristocrazia, limitazione degli spostamenti dei contadini o dei servi, persistenza delle rendite agrarie tipo decima ecc. L’invasione napoleonica e l’inizio della Guerra d’Indipendenza provocarono, in primo luogo, il passaggio di buona parte dell’aristocrazia e della nobiltà (i re per primi) dalla parte francese. La pressione di un popolo che rappresentava l’unica parte vivente della nazione (Marx) ha prodotto una situazione di caos generalizzato. La debolezza delle forze tipicamente borghesi, incapaci di organizzarsi in un partito nazionale o di mantenere la guerra contro l’invasore, non impedì ad alcuni dei loro rappresentanti più avanzati di iniziare l’opera di rovesciamento dell’ordine feudale. Le Cortes di Cadice (2), il miglior esempio di questo movimento, legiferavano a favore della soppressione delle signorie giurisdizionali (3), ma, a causa del loro carattere e formazione (con rivoluzionari e reazionari uniti nel comune interesse di espellere l’invasore) mantennero alcuni residui del mondo feudale e, principalmente, la proprietà terriera nelle mani della nobiltà. Il programma rivoluzionario borghese in campo agrario è vincolato da questa situazione per tutto il periodo successivo. Il governo del Triennio Liberale del 1820-23 ha cercato di promuovere ciò che è stato approvato a Cadice, ma che era stato fermato con l’ingresso di Fernando VII; ancora una volta la reazione ha prevalso. Solo con l’ingresso di Isabella II nel 1833 (vedi la Costituzione del 1837) le signorie vengono definitivamente abolite. La proprietà della terra rimaneva nelle mani della nobiltà nonostante la fine delle signorie e dei mayorazgos [maggiorascato, primogenitura]. I successivi movimenti “liberali”, guidati dalla bassa nobiltà urbana e dalla borghesia delle città commerciali e industriali alla periferia del paese, manterranno i termini fondamentali di queste rivendicazioni. Per il momento, l’assenza di un movimento popolare di tipo rivoluzionario tiene fuori gioco le esigenze caratteristiche del contadiname (distribuzione della terra, abolizione della proprietà feudale ecc.).

 

1833-1868. Dopo due decenni di reazione assolutista (durante i quali furono perseguitate e decimate le poche forze rivoluzionarie borghesi che cercavano di difendere i punti programmatici delle Cortes di Cadice), la lenta inclusione della Spagna nei circuiti economici e commerciali europei dopo la fine delle guerre napoleoniche, la perdita delle colonie latinoamericane ecc., comportano un lento sviluppo economico e la comparsa di una piccola borghesia rurale interessata alla soppressione dei diritti feudali sulla terra. Le guerre carliste (4) rappresentano il grande confronto tra le forze borghesi e piccolo borghesi che difendono l’ascesa al trono di Isabel de Borbón come garanzia di una serie di riforme che sarebbero state per loro vantaggiose in quanto avrebbero ridotto il potere della nobiltà feudale, annullando il peso di questa stessa nobiltà feudale e delle classi che sostenevano la reazione.

D’altra parte, la grande debolezza finanziaria dello Stato, intrappolato tra le pressioni della nascente borghesia che sosteneva lo sviluppo industriale del paese e la sua cronica carenza di risorse per realizzare questi progetti, spinse, allo scopo di riempire le casse pubbliche, a mettere in atto le cosiddette confische (1836, 1841 e 1854), consistenti nella vendita dei terreni che appartenevano allo Stato e ai Comuni, nonché una parte molto importante di quelli che appartenevano alla Chiesa. La convergenza di questi fattori si tradusse nel consolidamento definitivo di una classe sociale di piccoli e medi proprietari agricoli, che hanno potuto acquistare le terre confiscate e che si sono schierati nella lotta politica che fu la prima Guerra Carlista dalla parte isabelliana. In questo periodo, gran parte del paese inizia a vedere una struttura sociale tipicamente borghese nelle campagne, anche se mescolata con forme intermedie di proprietà, come la mezzadria, i contratti di enfiteusi (*) e via dicendo  Resta da spiegare il fenomeno più caratteristico del periodo: la comparsa di un proletariato rurale nella zona centro-meridionale (Ciudad Real, Cuenca, Guadalajara, Toledo) e nel sud-ovest del paese (Siviglia, Cadice, Córdoba) come conseguenza della fine delle signorie giurisdizionali. Migliaia di ex lavoratori che appartenevano alla terra del signore  vengono espropriati del proprio fazzoletto di terra. Decine di paesi in questa regione vedono i propri abitanti diventare braccianti senza terra, poiché le piccole fattorie erano praticamente inesistenti nella regione e le terre comunali sono state usurpate dai nobili. E’ quel che avviene in un fenomeno di junkerizzazione dello sviluppo del capitalismo nelle campagne. Mentre nel resto del paese la piccola proprietà, insieme alle forme intermedie feudali-capitaliste, è importante nella zona meridionale, i latifondi in cui la nobiltà impiega i proletari per mezzo di imprese (fattorie, haciendas ecc.), in cui c’è solo il rapporto tra padrone e salariato, sono la norma.

Non esisteva una servitù feudale pura in Castiglia, nel Medioevo, perché le forme giuridiche (stabilite nel XIV secolo) ne attenuarono l’applicazione, liberando molte braccia (che finirono per emigrare in America e in tante altre guerre). Nell’area aragonese-catalana, la servitù più ferrea si mantenne fino a ben oltre il XVI secolo. Ciò che esiste dal XV-XVI secolo in entrambi i regni è la signoria e mayorazgo (proprietà feudale) insieme ad una certa proprietà capitalistica della terra (già dal XVI secolo, modesta, ma in sviluppo soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento a partire dalle vaste proprietà promosse dalla corona per la coltivazione del tabacco ecc.). Lo sviluppo economico “interno” avviene molto lentamente nel XVIII secolo e accelera solo dopo la perdita delle colonie (dal 1821, in primo luogo, l’Argentina ecc ... e infine, nel 1898, Cuba). La Spagna, come metropoli, “poteva” non sviluppare le sue forze produttive perché attingeva a ciò che le colonie le fornivano, i suoi prodotti e i suoi schiavi... Nonostante queste forme rilassate di servitù, si dovrà attendere la Guerra d’Indipendenza perché si rompessero a poco a poco tutti gli ostacoli e le trappole feudali.

Il fenomeno più caratteristico del periodo è la comparsa del proletariato rurale nel sud (o di una classe di lavoratori a giornata assimilabile al proletariato).

Ciò non significa che prima del diciannovesimo secolo non ci fosse un proto-proletariato in altre regioni del paese, perché la proprietà privata della terra esisteva già nei termini caratteristici del capitalismo. Ma dal Cinquecento al Settecento parliamo di fenomeni marginali all’interno di un mondo di relazioni precapitalistiche. Per il tema che ci interessa, la liberazione di grandi masse di proletari nel sud del Paese è il fenomeno decisivo: da lì inizia la grande forza organizzativa del proletariato (ancora: non è che non esistesse prima, ma il fenomeno associativo e insurrezionale dell’ultimo quarto del XIX secolo è una conseguenza di questo sviluppo).

Un’altra cosa deve essere commentata qui: la borghesia rivoluzionaria spagnola si era già tirata indietro nel periodo 1830/1856 e divenne una borghesia “timorosa” come poche altre - si salva forse la borghesia catalana in una certa misura -; la fusione delle classi “feudali” con la grande borghesia in Spagna è stato un prodotto tipico di una borghesia codarda che ben presto ebbe paura e sebbene ci siano stati settori più avanzati (come i federalisti ecc. della rivoluzione successiva) i grandi proprietari e industriali sono sempre rimasti (già da Isabella II) in quella tipica mediocrità.

 

dal 1868 in poi. Il fallimento dell’ultimo tentativo da parte di alcuni settori borghesi di prendere il controllo dello Stato (Rivoluzione del 1868) ha una delle sue cause principali nella grande proprietà feudale e nella classe dei ricchi proprietari agricoli. Non a caso, dopo la Restaurazione borbonica del 1874, fu istituito il cosiddetto Regime della Restaurazione (Costituzione del 1876), in cui l’oligarchia fondiaria impose il suo dominio sulle borghesie industriali periferiche, sulla piccola borghesia urbana e sul nascente proletariato urbano e rurale, cedendo solo a concessioni marginali (come la libertà di culto). C’era un evidente predominio politico dell’oligarchia fondiaria (in quanto ad essa appartiene lo Stato) e non tanto un predominio economico, con il quale non si potrebbe spiegare la crisi della Restaurazione, o Maura o Cambó (5). Ma soprattutto c’è un dominio economico sulla piccola borghesia e sul proletariato, naturalmente. All’interno della borghesia spagnola si verificarono in questo periodo i primi allineamenti, “liberoscambisti” (Catalogna e Castiglia) contro “protezionisti” (Andalusia e Paesi Baschi). Questi allineamenti si romperanno solo sull’orlo della prima guerra mondiale. All’interno di questo allineamento, gli “agrari” si dividono su entrambi i blocchi: produttori di farina castigliani (base del capitale finanziario di Madrid), olivicoltori andalusi (il cui sviluppo necessita di ulteriori studi).

A questo punto, la proprietà feudale non è più predominante nel paese. Ciò non significa che non ci siano stati particolari regimi di dipendenza verso la nobiltà o il clero, o che vi sia stata una distribuzione di terre libere tra i contadini..., ma la terra, in generale, ha ora un carattere tipicamente capitalista in ciò che si riferisce alla sua proprietà (è alienabile, soggetta a tassazione ecc.) e anche alle relazioni sociali che la circondano (le rendite sono in genere di natura commerciale, è diffuso il lavoro salariato ecc.). Questo non implicava che la classe borghese rurale fosse quella predominante: la vecchia nobiltà alleata con i ricchi grandi proprietari terrieri durante la prima metà del secolo e la Chiesa componevano una oligarchia che estende i suoi domini al mondo finanziario incipiente e che dominerà per quasi cinquant’anni un regime politico con il quale ha cercato di mantenere il potere di fronte alle più dinamiche borghesie industriali, concentrate soprattutto in Catalogna e nei Paesi Baschi.

L’idea di uno sviluppo centralizzato di tipo francese era estranea al paese anche in questo momento (dopo la rivoluzione detta “cantonale”), la discussione sullo sviluppo della campagna e delle regioni focalizzava il dibattito politico fra liberoscambisti e protezionisti, mentre, nella maggior parte della campagna spagnola, entrambi i “partiti”, appoggiandosi sul caratteristico localismo sviluppavano il sistema del “cacicchismo” (**) a grande scala. Il correlato di questa situazione è stato la crescita di una classe sociale di braccianti senza terra praticamente assimilati ai proletari, sfruttati nelle fattorie, con salari da fame ecc. Sarà da questa classe che crescerà l’associazionismo proletario della prima ora sia nel sud del paese, sia tra gli emigranti che popolarono la Catalogna, Valencia e i Paesi Baschi. E saranno loro i protagonisti delle lotte di classe più dure anche nel periodo repubblicano del 1931-1936 quando il progressivo sviluppo del modo di produzione capitalistico nelle campagne portava a raggiungere un livello di tensione irrisolvibile in altro modo.

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LA CRISI ECONOMICA E SOCIALE DELLA CAMPAGNA SPAGNOLA NEL 1931-1936

 

La questione delle posizioni delle correnti operaie e dei partiti sul problema delle campagne spagnole è delimitata dalle fortissime convulsioni che subì durante il periodo precedente la guerra civile. Al di là del mito, di cui abbiamo cercato di mostrare la falsità in lavori precedenti sul confronto tra forze “progressiste” e “reazionarie” negli anni della Seconda Repubblica, il problema agrario spagnolo è al centro, dall’inizio alla fine, del tortuoso percorso che hanno rappresentato gli anni ’30 del secolo scorso. Non per niente, alcune correnti della storiografia contemporanea collocano gli scontri sociali nelle campagne come l’innesco della Guerra Civile, affermando addirittura che lo stesso corso dello scontro militare ha seguito le linee del conflitto agrario dell’epoca. Nel 1931, anno della proclamazione della Seconda Repubblica, l’economia spagnola era fondamentalmente un’economia agricola: il 45% della popolazione attiva era impiegata nelle campagne che, a loro volta, erano la fonte del 40% del Prodotto Interno Lordo spagnolo. Ma non si trattava di un’agricoltura arretrata, nei termini in cui intendeva la propaganda del Partito socialista o comunista del tempo, nel tentativo di mostrare il carattere “feudale” del paese. Il settore agricolo, infatti, ha mostrato, almeno in alcune regioni del Paese, un dinamismo maggiore rispetto a quello dell’industria stessa.

Dal 1900 la produzione agricola considerata ad alto rendimento, come vigneti, oliveti, ortofrutticoli o mandorli, stava guadagnando spazio sulla produzione di cereali e legumi, guadagnando, dove avveniva questo cambiamento, in produzione per ettaro e produttività per addetto nel settore. Inoltre, queste colture avevano una funzione nell'esportazione sempre più marcata, arrivando al punto che il settore primario divenne il principale agente del surplus commerciale spagnolo e, quindi, la via per ottenere valuta estera che potesse rafforzare l’investimento industriale e finanziario del paese.

Con tutto ciò, la struttura produttiva nelle campagne era lungi dal dare da sé tutto ciò che poteva: la distribuzione della proprietà, il basso investimento in mezzi tecnici e fertilizzanti e il sistema protezionistico, che innalzava artificialmente i prezzi interni ed esteri, soprattutto del cerealicolo, erano segni di uno sviluppo ancora in divenire. Ma di questi tre elementi, nessuno si può dire che caratterizzasse la campagna spagnola come un mondo precapitalista nel senso che si è cercato di dare: il predominio delle piccole fattorie nella metà settentrionale del paese insieme all’ampia estensione dei sistemi di affitto e la mezzadria, che hanno frammentato le grandi aree agricole, non è una caratteristica dell’agricoltura feudale ma, piuttosto, dell’emergere di un contadino o semiproprietario di piccole fattorie che sta “rubando” sempre più spazio alla vecchia oligarchia dei proprietari terrieri e, quindi, rafforzandosi socialmente, economicamente e politicamente. D’altra parte, la scarsa meccanizzazione dell’agricoltura e l’uso ancora molto diffuso dei sistemi a maggese in tutte le sue varianti, dicono solo della bassa produttività reale rispetto alle potenzialità dell’azienda agricola, ma non si può mettere in dubbio che si tratti propriamente di una impresa nel senso capitalistico del termine. Inoltre, è proprio nell’area delle grandi aziende agricole che i rapporti di lavoro tipicamente capitalistici sono più diffusi e dove compaiono meno frequentemente forme intermedie di generazione e distribuzione della rendita agraria. Infine, le misure protezionistiche, prese da tutti i governi a partire dalla depressione agricola mondiale del 1880, rispondevano alle richieste del partito agrario, in particolare quelle con sede nel sud e nel centro della Spagna e incentrate sulla produzione di cereali, ma anche alle richieste dei produttori industriali catalani, costituendo la base di un patto di convivenza tra i due che ha caratterizzato lo sviluppo politico del paese, in termini prettamente borghesi, dall’inizio del XX secolo.

Non si tratta, quindi, di un problema strettamente economico. L’arretratezza della produttività, i bassi redditi ecc. non furono la causa della tensione sociale che sconvolse i rapporti tra signori e lavoratori a giornata o tra fittavoli e proprietari terrieri, perché erano caratteristici delle campagne spagnole già prima dell’inizio del XX secolo e, infatti, durante il primo quarto di questo, la loro acutezza si è attenuata. Si tratta, quindi, di respingere la falsa idea, propagandata dalle tribune del PSOE, PCE, CNT e perfino del POUM, che il problema, nella campagna spagnola, si poneva in termini di rivoluzione borghese, come quella del 1789. In effetti, le basi dello sviluppo che avrebbero dovuto dare origine a una rivoluzione di questo tipo stavano già fermentando molto prima del 1931. Le relazioni sociali capitaliste prevalevano nella maggior parte del paese e, in particolare, nel mondo rurale, ed è stato il conflitto essenziale che ne deriva, quello tra la borghesia e il proletariato, al centro del problema sociale delle campagne durante il periodo studiato.

Questo significa che nelle campagne spagnole, nel 1931, non c’era spazio per le riforme democratiche borghesi e che l’unico dilemma che si presentava era quello del trionfo o della sconfitta di una rivoluzione puramente proletaria e comunista? Ovviamente no.

Lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici procede molto più lentamente nelle campagne e nell’agricoltura che nelle città e nell’industria per ovvi motivi, tra cui il maggior ritorno in termini di profitto che si ottiene in campo industriale, la maggiore capacità di sviluppare il lavoro associato in quest’ultimo ecc. Ecco perché, sebbene in termini fondamentali, la base per una rivoluzione borghese-democratica poteva essere scomparsa, come è il caso che stiamo studiando, e una buona parte degli effetti collaterali che questa avrebbe prodotto potevano rimanere in sospeso ed essere necessari e persino desiderabili per buona parte della popolazione agraria. Infatti, il “programma massimo” della rivoluzione borghese nelle campagne – cioè la nazionalizzazione della terra e l’eliminazione della figura del grande proprietario rentier, che solo il modo di produzione capitalistico generalizza definitivamente nelle campagne, senza nemmeno toccare le sue fondamenta – è stato molto lontano dai termini in cui si è sviluppata la rivoluzione borghese, probabilmente tranne che in Russia... dove è stata la classe proletaria e il suo partito a realizzarla. Pertanto, misure intermedie come la distribuzione della terra, la liquidazione degli affitti abusivi e, naturalmente, la fine di ogni residuo più tipicamente feudale, come gli obblighi verso i signori o la Chiesa, avevano un significato nel 1931, ma solo come passaggio intermedio come le rivendicazioni democratiche possono avere in ambiti come la libertà di espressione, di culto ecc.

Lo dimostrano le lotte tra le diverse classi sociali nelle campagne, ancor prima del periodo repubblicano. In un primo momento, nel periodo che Marx definisce come il risveglio della “questione sociale in termini moderni” (6) (già nel 1856, ma soprattutto dal 1868), l’associazionismo proletario sotto la bandiera della Prima Internazionale si diffuse sia in città industriali e commerciali sia nelle campagne, nelle quali si formarono alcune delle sezioni più importanti dell’Internazionale che riuscirono a rimanere in vita, anche dopo la sconfitta del movimento cantonalista (7). Durante questo periodo, specialmente in Andalusia, che è la regione per la quale questa “questione sociale” è meglio documentata, ogni “anno cattivo”, cioè un anno di cattivi raccolti e quindi di fame, era seguito da rivolte di braccianti e piccoli proprietari. Questo movimento “misto”, in cui vi partecipavano differenti classi sociali, tutte caratterizzate dalla sofferenze per l’estrema povertà nei periodi di carestia, aveva inizialmente un’impronta repubblicana ed era caratterizzato dalla partecipazione di leader sindacali con orientamento libertario che trascinò grandi masse di contadini ad azioni come la presa di Jerez nel 1892 da parte dei contadini della regione, poggiante su un rapido e ardito colpo di Stato che, però, ha subito un'altrettanto rapida sconfitta per mano dell’esercito. In questi movimenti, i proletari rurali giocarono sempre un ruolo decisivo, sebbene politicamente e organizzativamente rimasero indietro rispetto alle forze tipicamente piccolo-borghesi delle principali città agricole: imposero l’occupazione delle terre, ma cedettero il terreno della rivendicazione politica ai rappresentanti dei partiti repubblicani e federalisti.

Lentamente l’evoluzione economica nelle campagne, in cui gli “anni cattivi” stanvano finendo almeno nei duri termini dell’Ottocento, generava un movimento di braccianti a giornata e semi-giornalieri organizzati per la lotta immediata e non solo per l’insurrezione di un giorno. I principali cicli di lotta, che coincisero con quelli del proletariato industriale della città, furono quello del 1903-1905, causati dalla grande agitazione nazionale dovuta alla perdita di Cuba da parte della Spagna, l’ultima colonia americana del paese, quello del 1909-1911, in conseguenza della leva forzata di soldati per la Guerra del Rif (nel Marocco), e quello del 1918-1920, noto come il “triennio bolscevico”.

Durante il primo, dal 1903 al 1905, la forza organizzata in senso prettamente proletario era ancora molto debole: la serie di scioperi che si verificarono in tutta la regione andalusa aveva più il carattere di una rivolta vecchio stile, in cui le rivendicazioni salariali e relative alle condizioni di lavoro avevano un peso secondario rispetto all’azione spontanea, popolare e semi-insurrezionale. Ma già nel secondo periodo, e soprattutto nel terzo, la lotta di classe nelle campagne assumeva un carattere proletario molto più marcato. I centri operai, organizzati soprattutto dalle correnti libertarie prima e dalla CNT poi, riunivano praticamente tutti i contadini di alcuni paesi (intendendo per questi i braccianti e i semigiornalieri), e che integravano con un salario il reddito che dava loro il fazzoletto di terra di proprietà. Da lì partirono i grandi scioperi del 1918 dove le rivendicazioni salariali, cioè i bisogni della parte puramente proletaria dei contadini, ebbero un peso decisivo. E anche in essi si operò la prima grande delimitazione del terreno di lotta tra braccianti puri a giornata e piccoli proprietari. I primi avevano interessi di tipo salariale, riduzione dell’orario di lavoro, occupazione per i disoccupati, abolizione del lavoro a cottimo ecc., e usavano lo sciopero come un’arma di combattimento specificamente economica e non come un modo per ottenere il controllo del comune. I secondi non solo avevano interesse a mantenere bassi i salari in quanto acquirenti di manodopera, ma rifiutavano che gli scioperi divenissero azioni di astensione dal lavoro perché li danneggiavano direttamente non permettendo loro di sfruttare le loro proprietà. Da questo momento, che coincide con la crisi politica del 1917-1919, l’ascesa del sindacalismo a Barcellona,  Saragozza e in altre città, e nelle campagne spagnole, soprattutto nel sud, apparvee come un movimento di tipo proletario, organizzato in sindacati di classe (CNT prima, poi UGT) e con richieste specifiche di classe. In un magma sociale apparentemente rimasto indifferenziato, sebbene continuamente spronato alla lotta per le condizioni di estrema miseria in cui vivevano i lavoratori a giornata e i piccoli proprietari terrieri, si delimitava il terreno che corrispondeva a ciascuna classe sociale. Il mito del lavoratore a giornata “affamato di terra”, che risponde proprio a una rivendicazione di quel magma interclassista come espressione della lotta di classe nelle campagne, si scontra con la realtà di una classe proletaria fortemente organizzata, in Andalusia soprattutto, ma anche in vaste zone della Castiglia, nell’interno di Valencia e, infine, in tutti i luoghi in cui si era verificata un’analoga evoluzione basata sulla formazione di un proletariato senza terra e di una borghesia e piccola borghesia possidenti.

Con questo quadro dell’evoluzione economica della campagna spagnola e dei rapporti tra le diverse classi sociali, intendiamo mostrare, in modo molto schematico, che lo sviluppo delle contraddizioni sociali caratteristiche del modo di produzione capitalistico era presente, anche se in uno stadio embrionale e localizzato solo in alcune regioni, all’epoca della cosiddetta “rivoluzione borghese” del 1931. La crisi del 1929, che ebbe un impatto particolarmente duro sulle campagne spagnole, chiudendo buona parte dei circuiti del commercio estero e provocando un gravissimo abbattimento dei prezzi nel mercato interno ecc., aggravò le condizioni di esistenza di tutte le classi sociali subalterne nelle campagne: dal proletario al piccolo proprietario, dal mezzadro allo yuntero (***)... e di tutte le classi sociali delle città agricole che vivevano a stretto contatto con il campo e che dipendevano dalla campagna e dai suoi prodotti. Come è noto, l’arrivo del regime repubblicano nel 1931 implicava l’imposizione di un regime democratico nella speranza che potesse fermare l’escalation delle lotte proletarie che cominciavano a crescere e che minacciavano di porre fine non solo alla monarchia, ma anche alla stabilità più profonda della società borghese. E la Repubblica ha portato, in primo luogo, dal momento in cui si sono formate le Cortes Costituenti, una Riforma Agraria che ha cercato di calmare i disordini nelle campagne. Nel contesto di una forte crisi agricola, che ha comportato principalmente un calo della rendita fondiaria, la fine dello sfruttamento di migliaia di ettari, l’espulsione degli affittuari dai terreni in cui avevano lavorato per decenni ecc., questa Riforma Agraria cercava di mitigare le conseguenze di questa crisi attraverso due tipi di leggi:

- le prime, quelle riferite alla proprietà terriera. Si basavano, da un lato, sui progetti di esproprio del grande latifondo, in cui una buona parte della terra rimaneva incolta, per darla a braccianti e piccoli proprietari. E, dall’altro, nella messa in “lavorazione forzata” di terre non sfruttate. A ciò si aggiungeva la definitiva liquidazione degli oneri signorili su alcuni terreni, la revisione dei contratti di locazione ecc.

- le seconde, le misure di natura lavorativa. La principale di queste misure era la fissazione di un salario minimo giornaliero. Dopo di ciò, la “legge sui confini comunali” che impediva ai proprietari agricoli di un comune di assumere lavoratori a giornata da un altro comune se, nel proprio comune, c’erano lavoratori disoccupati. Infine, un intero sistema di “giurie miste” (8) e altri meccanismi di mediazione volti a risolvere le “contestazioni” tra padroni e lavoratori.

Come si può vedere, queste misure andavano in due direzioni. Da un lato, si cercava di creare uno strato di proprietari e fittavoli contadini consolidato, che permettesse di formare un cuscino tra i grandi proprietari terrieri e i puri proletari delle campagne. Ovviamente, ciò è stato fatto senza l’intenzione di ledere affatto gli interessi dei grandi proprietari terrieri, stabilendo un sistema di compensazione ecc., prima dell’insediamento dei nuovi proprietari che, per la sua deliberata lentezza, implicava che la distribuzione degli appezzamenti di terra avrebbe impiegato più di cento anni per essere completata. In ogni caso, tale provvedimento basato sulle distribuzioni e sulla liquidazione degli ultimi residui della proprietà feudale, nonché sulla regolarizzazione di tutte le tipologie intermedie di contratti di locazione, ha sempre avuto l’approvazione anche dei grandi proprietari. Avrebbe costituito, se fosse stato attuato, un buon modo per neutralizzare gli impulsi della lotta proletaria, non tanto perché i proletari si erano trasformati in proprietari, ma perché si sarebbe ottenuto l’appoggio alla Repubblica dei contadini di quelle regioni del paese, un paese dove questa distribuzione aveva un senso, data la struttura delle aziende agricole; con questa distribuzione delle terre sarebbe stata neutralizzata la forza che il proletariato bracciantile aveva come catalizzatore della lotta di classe nelle campagne di tutto il paese. È’ necessario ricordare che, con l’arrivo della destra al governo nel 1933 (9), la Riforma Agraria – promossa nel biennio precedente dal PSOE e dai partiti repubblicani – si interruppe, ma la distribuzione delle terre continuò, anche a ritmi molto più grandi di quelli dei due anni precedenti, a dimostrazione che in difesa dei propri interessi di classe più generali la borghesia è capace di guardare ben oltre il conflitto immediato.

D’altra parte, questa stessa lotta ha costretto la borghesia a fare molte concessioni sul piano strettamente lavorativo: salari, condizioni di lavoro e fine della repressione contro il movimento proletario organizzato. In questo caso, l’obiettivo era semplicemente quello di evitare il fallimento del nuovo regime. La disperazione e la fame che si diffuse tra i braccianti e i contadini poveri diedero origine a una serie di movimenti più o meno spontanei che, dal 1931 al 1934, misero le campagne sul sentiero di guerra. La reazione della borghesia è stata quella di sacrificare gli interessi più immediati delle classi proprietarie delle campagne per cercare di fermare l’escalation verso la guerra tra le classi. Con ciò si ottennero due cose: 1) la legislazione non raggiunse la grande proprietà, dove era concentrata la maggior parte dei proletari. Durante i primi tre anni del regime repubblicano ci furono scioperi che chiedevano che i proprietari rispettassero le nuove leggi. Il governo repubblicano-socialista, interessato a tenere a bada i proletari rurali, consentiva ai proprietari di esercitare pressioni per annullare in un modo o nell’altro l’applicazione pratica della legislazione; 2) i movimenti di sciopero che si susseguirono vennero repressi con la solita ferocia.

Il secondo risultato di queste misure di tipo lavorativo è stato quello di gettare i piccoli proprietari tra le braccia della reazione agraria: mentre il grande proprietario terriero ignorava la legge repubblicana, il piccolo proprietario che assumeva sporadicamente salariati per completare i lavori sulla sua proprietà vedeva come i salari diventavano più costosi, le organizzazioni dei lavoratori crescevano... e il loro già basso reddito se ne stava andando in fumo. Si formò così un movimento antiproletario tra gli strati inferiori dei proprietari agricoli che si allineava ai postulati della grande borghesia, alimentando le organizzazioni cattoliche e falangiste nelle città agricole.

 (1 - Continua)

 


 

(*) Enfiteusi: diritto reale su un fondo altrui, in base al quale il titolare (enfiteuta) gode del dominio utile sul fondo stesso, obbligandosi però a migliorarlo e a pagare al proprietario un canone annuo in denaro oppure in derrate.

(**) Cacique (cacicco), nel dizionario della Real Academia viene definito così: «una persona che in un pueblo o in una regione eserciti una influenza eccessiva nelle questioni politiche ed amministrative». Il termine, importato dall’America, viene già usato dal Cervantes (famoso per il romanzo Don Chisciotte della Mancia) per indicare un grosso papavero locale. «Il termine cacicco fu una di quelle rare “scoperte” terminologiche che condannano un intero regime: esso faceva convergere la critica su uno dei più bassi meccanismi della politica, la deformazione del suffragio, e sul sistema di influenze che rendeva possibile tale deformazione. (...) Il cacicchismo non era un sistema parlamentare con qualche abuso, gli abusi costituivano il sistema stesso. (...) Il potere del “gran cacicco” si fondava sui servizi in genere che egli prestava a favore del suo “paese” e sugli interessi che vi aveva. (...) Si può affermare che il cacicchismo divenne un male intollerabile quando i legami locali su cui si fondava si dissolsero ed il sistema poté mantenersi in vita soltanto con la violenza» (dalla Storia della Spagna, II, 1808-1939, Raymond Carr, La Nuova Italia, 1978).

(***) Yuntero: proprietario di buoi che li affitta, a coppie (yunta) ad altri contadini per arare la terra.

 

(1)   Si deve comprendere che il “dispotismo asiatico” di cui parla Marx nei suoi scritti su questo periodo è solo una similitudine che non cerca di far passare come un’eccezione spagnola al mondo feudale che all’epoca dominava praticamente su tutta l’Europa. Le caratteristiche specifiche che compaiono in Spagna dopo l’ “atto fallito”, che fu la monarchia assoluta dei monarchi cattolici nel XV secolo (la prima monarchia di questo tipo in tutto il mondo), qualificano le relazioni politiche prevalentemente feudali del paese, specialmente in ciò che si riferisce all’esistenza di uno Stato completo ma incapace di farsi carico dell’intero Paese, smembrato in questo modo tra l’influenza delle diverse autorità locali. Ma in nessun caso questo può essere inteso nel senso che la Spagna non era un paese feudale secondo il modello classico.

(2)   Le Cortes Generales, riunite in assenza del re Ferdinando VII (che fu “imprigionato” dai francesi), avviano una sorta di programma parlamentare antifeudale in tutto il paese, sebbene con poca forza pratica per imporlo.

(3)   Le signorie giurisdizionali erano la forma giuridica attraverso la quale la nobiltà governava la popolazione, limitandone i movimenti, applicando leggi locali che avevano il nobile come unico garante ecc.

(4)   Le tre guerre carliste, di cui la più importante è la prima (1833-1840), sono una serie di scontri combattuti tra i sostenitori dell’Infanta Isabel (erede al trono di suo padre, Ferdinando VII, grazie al modifica della legge che impediva l’eredità alle donne) e il pretendente Carlos de Borbón. Sullo sfondo di queste guerre c’è lo scontro tra la borghesia progressista alleata con le classi popolari delle campagne, interessata alla fine delle restrizioni feudali sulla proprietà privata, e i sostenitori di un ritorno all’assolutismo feudale classico, alleato a sua volta coi piccoli proprietari agricoli basco-navarresi che cercavano il mantenimento del regime particolare concesso dai Fueros locali che consentiva loro la proprietà di piccoli appezzamenti di terreno e l’uso di terreni comunali.

[I Fueros locali erano gli statuti giuridici che nel Medioevo raccoglievano i privilegi attribuiti dai re ai vassalli, a determinate categorie  sociali o a popolazioni di un particolare territorio. Un’importanza particolare hanno avuto i fueros della Navarra, poiché la loro quasi completa abrogazione alla fine del XIX secolo, a seguito della terza guerra carlista, è all’origine del nazionalismo basco].

(5) Il binomio Maura-Cambó è un po’ come il paradigma della tensione politica in Spagna all’inizio del XX secolo: una volta esaurito il cosiddetto “Regime di Restaurazione”, con cui si imponeva la successione dei partiti al governo (conservatori e moderati prima, conservatori e progressisti più tardi), l’apparizione sulla scena di una borghesia locale, catalana e basca, con una forza economica molto maggiore di quella dell’oligarchia fondiaria (rappresentata proprio da quel sistema di turni imposto con la Restaurazione) ha dato luogo a una lotta tra i vecchi partiti, eredi della legittimità monarchica e rappresentati da Antonio Maura, e le nuove correnti effettivamente modernizzanti, rappresentate da Cambó. La frase significa: se ci fosse stato un predominio economico dell’oligarchia fondiaria, che deteneva effettivamente il potere ma non aveva il vigore sociale necessario per mantenerlo, il “Regime della Restaurazione” non sarebbe scomparso durante il primo trimestre del XX secolo, così come non ci sarebbe stata competizione per il potere tra i sostenitori di Maura e quelli di Cambó. Come aneddoto, le manifestazioni popolari dell’epoca erano convocate sotto lo slogan (in catalano, ovviamente) “Morí Maura, visca Cambó” [“Muoia Maura, viva Cambó”].

(6) Cfr. K. Marx, La rivoluzione in Spagna, Guaraldi Editore, 1976.

(7) Il movimento cantonalista, che segnò la fine della Prima Repubblica spagnola (1873-1874), consistette in una serie di rivolte repubblicane e federaliste in molte delle città commerciali del paese (Cartagena, Alcoy, Valencia...) e in alcuni comuni agricoli dell’Andalusia occidentale. Fu schiacciata militarmente dallo Stato dopo di che fu imposto il regime di restaurazione borbonica. Il testo classico di Engels, I Bakuninisti al lavoro. Memorandum sull’insurrezione spagnola dell’estate 1873, (in Marx-Engels, “Critica dell’anarchismo”, Einaudi Editore, 1972) descrive il corso degli eventi e la posizione dei Bakuninisti in esso.

(8) Le giurie miste erano un organo di arbitrato tra padroni e lavoratori in caso di controversie di lavoro sponsorizzato dal governo. Si trattava di un progetto lanciato durante la dittatura di Primo de Rivera da Pablo Iglesias (consigliere del Ministero del Lavoro) per creare, ovviamente, una struttura minima di collaborazione tra le classi sul terreno più immediato con cui disattivare il sindacalismo di classe. Nella pratica più immediata, sia durante la dittatura di Primo de Rivera che durante la Repubblica, si cercava di travasare lavoratori dalla CNT, che respingeva sempre queste giurie miste, all’UGT che, accettandole, poteva ottenere maggiori vantaggi per i suoi membri.

(9) Le elezioni del 1933 furono vinte dalla Confederazione Spagnola dei Diritti Autonomi, un conglomerato di monarchici, regionalisti e carlisti che fece della lotta contro la Riforma Agraria una delle sue bandiere.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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