Settembre 1920

Nell’anniversario dell’occupazione delle fabbriche: gli insegnamenti

(«il comunista»; N° 167 ; Gennaio / Marzo 2021)

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Nel 1918, l’Italia usciva dalla prima guerra mondiale con questo bilancio: 680.000 morti, 600.000 prigionieri, oltre 1 milione di feriti e quasi mezzo milione di mutilati, a cui vanno aggiunti i circa 600.000 morti per l’epidemia di influenza detta “spagnola”. Il proletariato italiano aveva dato prova di grande combattività nell’opporsi alla guerra e ciò si era riflettuto anche in moltissimi casi di diserzione sui fronti di guerra. Il 1919 si presentava perciò come un anno così denso di tensioni sociali da meritare, insieme al 1920, la definizione di “biennio rosso”. Dopo i moti spontanei contro il carovita dell’estate 1919 che avevano percorso l’intera penisola come una striscia di fuoco, dopo il famoso “sciopero delle lancette”(contro l'ora legale) nelle fabbriche del torinese dell’aprile 1920, dopo la rivolta dei bersaglieri di stanza ad Ancona, nel giugno 1920,  contro l’invio delle truppe in Albania, nel settembre 1920 gli operai delle principali fabbriche di Torino in risposta al rifiuto sistematico da parte degli industriali di discutere le rivendicazioni salariali, decidono di non uscire dagli stabilimenti e di occuparli, e tale movimento di occupazione delle fabbriche andrà avanti per tutto il mese di settembre. Vi saranno diversi altri episodi di occupazione delle fabbriche anche a Milano e in altre città, ma questo movimento sarà di fatto isolato e sabotato dalla CGL e dal Partito Socialista come ormai chiaramente documentato dagli storici.

Questo rappresenta in ogni caso un ulteriore episodio in cui il proletariato italiano dell’epoca  ha dimostrato una forte spinta alla lotta rivoluzionaria, una spinta che fu sistematicamente contrastata dall’opera opportunista sia della CGL sia del Partito Socialista che, col suo falso rivoluzionarismo parolaio, intralciò, purtroppo con successo, il cammino verso la rivoluzione.

Vogliamo qui ricordare, nel centesimo anniversario dell’occupazione delle fabbriche, la posizione del Partito Comunista d’Italia e gli insegnamenti che ne trasse, ripubblicando un articolo apparso nell’Ordine Nuovo, del 2 settembre 1921 e nel Soviet la settimana successiva, l'11 settembre 1921. Giustamente, in esso, si metteva in evidenza non solo la combattività eccezionale del proletariato, ma anche la sua capacità tecnica e organizzativa nel portare avanti la produzione in grandi stabilimenti, che per essere messa pienamente a frutto doveva essere diretta politicamente con una tattica orientata alla conquista del potere politico. Seguirà nel prossimo numero del giornale la ripubblicazione di un altro articolo, dal titolo Prendere la fabbrica o prendere il potere, del febbraio 1920, in cui si pose il vero problema della  rivoluzione  proletaria, quello appunto  che non poteva trovare una soluzione all’interno delle fabbriche, ma nella conquista del potere politico centrale.

 

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Al proletariato italiano!

 

Migliaia di operai e di contadini massacrati dalla polizia e dalla guardia bianca; centinaia e centinaia di Camere del Lavoro, di Case del popolo, di Cooperative, di sezioni del Partito Comunista e del Partito Socialista, saccheggiate e distrutte; decine di giornali comunisti, socialisti, repubblicani, popolari, incendiati; decine di migliaia di operai e di contadini bastonati a sangue, torturati, storpiati; intiere regioni, abitate da milioni e milioni di operai agricoli e di contadini poveri, l’Emilia, la Toscana, l’Umbria, il Polesine, la Lomellina, sottoposte permanentemente ad un regime barbarico di terrore bianco; migliaia di operai e di contadini banditi dalle loro case, costretti ad abbandonare nella disperazione e nella miseria i loro vecchi, le loro donne, i loro figli e a vagolare, mezzo impazziti dalle torture, nel territorio nazionale, senza asilo, senza risorse, senza garanzie di libertà e di sicurezza personale; le prigioni rigurgitanti dei migliori elementi della classe operaia, dei generosi che tutto avevano offerto alla causa dell’emancipazione popolare; mezzo milione di disoccupati per effetto dell’accelerato processo di decomposizione dell’economia capitalistica.

Ecco il triste bilancio di quest’anno trascorso dal giorno dell’occupazione delle fabbriche. Anche il più arretrato, anche il più ignorante operaio oggi è in grado di rispondere alla questione che allora si poneva ai capi ufficiali del movimento proletario: “Cosa bisogna fare? Quale soluzione è politicamente più utile alla classe operaia? Bisogna andare fino in fondo nell’azione iniziata, o conviene tentare di arginare gli avvenimenti, ricondurre la lotta nei termini d’una contesa sindacale, concluderla con un concordato tra imprenditori e mano d’opera?”.

I capi ufficiali del movimento proletario arretrarono dinanzi alla lotta. Essi paventavano un “macello”, essi paventavano una crisi nella produzione, essi paventavano il blocco straniero e la necessità di una guerra. Oggi anche il più arretrato, anche il più ignorante operaio è in grado di giudicare, è in grado di comprendere gli avvenimenti. La concezione politica dei riformisti si è chiaramente dimostrata inetta a dominare lo sviluppo degli avvenimenti, si è dimostrata assurda, si è dimostrata un pericolo, il pericolo più minaccioso per l’avvenire della classe operaia. Il “macello” non è stato evitato: a migliaia sono caduti i proletari in quest’anno maledetto.

La crisi nella produzione non è stata evitata: le serrate hanno seguito le serrate e mezzo milione di lavoratori sono disoccupati. Non c’è stato il blocco contro la nazione, ma le grandi masse popolari non si trovano lo stesso, per l’inasprita oppressione del capitalismo indigeno, in condizioni, di miseria e di disperazione, quali solo avrebbe potuto determinare un blocco straniero? Non c’è stata la guerra contro i reazionari degli altri paesi: ma quale peggiore guerra delle spedizioni punitive organizzate dalla guardia bianca contro Treviso, contro Sarzana, contro Roccastrada, contro Viterbo, contro Grosseto, contro centinaia e centinaia di villaggi inermi e indifesi?

Che cosa conveniva più alla classe operaia? Evitare la lotta suprema e lasciare che ogni giorno decine dei suoi migliori elementi fossero massacrati per le vie e per le piazze, evitare la battaglia frontale, ed essere poi sconfitta quotidianamente da un’implacabile guerriglia, ed esaurirsi in una penosa crisi di languore senza sbocco prevedibile; o affrontare audacemente il nemico, col rischio, sia pure, di essere sconfitti, ma anche con la probabilità, con molte probabilità, di riuscire vittoriosi, di conquistare il potere, di porsi in condizioni di dare un vigoroso colpo d’arresto alla decomposizione dell’economia nazionale, per iniziare il lavoro di organizzazione dell’economia comunista?

Oggi lo sviluppo degli avvenimenti ha fatto sì che anche il più arretrato operaio può rispondere a queste domande, può giudicare positivamente il valore e la portata politica della dottrina e della tattica dei riformisti: oggi è possibile giudicare e scegliere tra la concezione dei riformisti, che vollero evitare il “macello”, e la concezione dei comunisti, che avevano previsto le conseguenze atroci del non voler lottare, del credere che l’impunità sarebbe stata concessa dalla borghesia al proletariato che aveva manomesso la sacra proprietà privata, che aveva, nelle fabbriche dispotiche, attuato l’autonomia industriale dei produttori, che aveva organizzato, sia pure embrionalmente, un corpo di milizia operaia, che aveva organizzato dei tribunali rossi per giudicare e condannare al lavoro produttivo i sicari del capitalismo.

 

Compagni operai!

 

Anche i dolori e la miseria di quest’anno non saranno stati invano, se la classe operaia italiana sarà capace di trarre dall’esperienza del Settembre 1920 tutti gli insegnamenti e tutte le norme d’azione ch’essa ha offerto. Le giornate del Settembre 1920 non sono state vissute inutilmente.

Non si può cancellare dall’animo del proletariato il ricordo ch’esso è stato allora il padrone della produzione industriale. La classe operaia, la classe che, nella storia degli uomini, è sempre stata il concime della civiltà, che non ha mai avuto funzioni di comando e poteri d’iniziativa, che è sempre stata un mezzo e non un fine, che costituisce, nella caserma, nella fabbrica, nella nazione, la passiva massa che altre classi manovrano e utilizzano ai loro fini; la classe operaia nel Settembre 1920 ha diretto sé stessa, per la prima volta, nella produzione dei beni economici, ha dimostrato d’essere capace di governarsi da sé, ha organizzato una sua disciplina. È questa un’esperienza che non può essere dimenticata, e il ricordo della quale non può non mantenere vivi i fermenti della speranza e della volontà di operare e di nuovamente lottare.

La situazione generale non è mutata in quest’anno, non è migliorata a favore del capitalismo. Se l’esercito rosso dei Soviety non avanza più verso occidente, come allora, contro l’imperialismo mondiale, non perciò l’imperialismo mondiale è tranquillo: nel Marocco, in Egitto, nelle Indie, nell’Asia Minore i popoli coloniali violentemente insorgono contro i loro oppressori, e sempre più difficile diventa per il capitalismo lo sfruttamento a buon mercato delle sorgenti di materie prime. In Italia la situazione dell’economia nazionale si è sempre più precisata attraverso l’incessante dissociazione delle classi tradizionali: il capitale finanziario, alimentato dalla rendita dei grandi proprietari terrieri, rifugge dall’industria; gli agrari, che non possono più realizzare, attraverso la banca, i superprofitti di guerra, organizzano la reazione fascista contro le città “oziose e improduttive”, ma devono più crudelmente opprimere le grandi masse dei contadini, e così determinano l’unità rivoluzionaria della grandissima maggioranza della popolazione.

La situazione è obbiettivamente più rivoluzionaria oggi di quanto non fosse un anno fa. Che cosa manca? L’organizzazione, l’indirizzo rivoluzionario. A questi fini lavora il Partito Comunista, che si è costituito sciogliendosi dal Partito Socialista sulla base delle esperienze del Settembre 1920, che ha in questi mesi, dal Congresso di Livorno ad oggi, faticosamente, ma tenacemente, nonostante la reazione e le difficoltà, organizzato i suoi quadri, contato i suoi militanti devoti e leali, centralizzato ferreamente la sua compagine.

Con la proposta fatta dal suo Comitato Sindacale a tutte le organizzazioni operaie, il Partito Comunista ha iniziato il suo lavoro positivo per diventare il partito delle grandi masse dei lavoratori italiani.

Alla tattica demagogica dei riformisti, che consiste nel servirsi delle sommosse e della violenza rivoluzionaria per ottenere “migliori” patti di lavoro e progetti parlamentari di legge; a questa tattica, la cui bancarotta fraudolenta ha piombato il popolo italiano in una spaventosa crisi di ferocia reazionaria e di miseria economica, il Partito Comunista contrappone la sua tattica: servirsi del terreno sindacale per mobilizzare le grandi masse lavoratrici e condurle alla risoluzione del fondamentale problema dell’attuale periodo storico: la fondazione dello Stato operaio, che solo può legalizzare e garantire le conquiste effettive, materiali e morali, del popolo lavoratore.

 

Compagni proletari d’avanguardia!

 

L’anniversario dell’occupazione delle fabbriche ed il ricordo, che rinasce pungente e amaro nei cuori di tutti gli operai onesti e leali, di quei giorni di lavoro pieno di gioia, di libertà, di forza, dev’essere da voi commemorato intensificando il lavoro perché la dottrina e la tattica del Partito Comunista siano conosciute dalle più grandi masse, perché sia avvicinato il giorno della riscossa e della vittoria definitiva.  

 

Abbasso i riformisti, che hanno assassinato il popolo italiano!

Evviva il giovane Partito Comunista, che vuole la lotta e la rivincita del Settembre 1920!

Evviva l’Internazionale Comunista, che ha scacciato dal suo seno i traditori del proletariato!

Evviva la libertà e l’autonomia industriale degli operai!

 

Il Comitato Centrale del P. C. d’Italia

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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