Crisi economica mondiale: a che punto è un anno dopo

(Rapporto alla riunione generale di dicembre 2020)

(«il comunista»; N° 168 ; Aprile / Maggio 2021)

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A quasi un anno dalla generalizzazione della pandemia e della crisi sanitaria da essa provocata, è necessario fare il punto della crisi economica mondiale, anche se ancora parziale. I dati delle organizzazioni internazionali che utilizziamo per l’anno 2020 sono ancora in generale provvisori. Prima di esaminarli, notiamo che, nonostante la gravità dello shock per l’economia internazionale, non c’è stato alcun collasso economico o collasso sociale del capitalismo; torneremo su questo, ma va notato che le misure senza precedenti per intensificare il controllo sociale con il pretesto della pandemia sono state molto efficaci a questo proposito: se non sono riuscite a trionfare sul Covid-19, hanno però permesso di escludere per il momento la minaccia del virus delle lotte proletarie e delle esplosioni sociali che si facevano molto preoccupanti nel 2019 in molti paesi.

Dalla fine del 2019, le principali istituzioni internazionali erano preoccupate per il rallentamento dell’economia globale, e alcuni economisti parlavano di una «recessione industriale globale»; l’OCSE ha previsto che la crescita globale raggiungerà il 2,9% nel 2020, «il livello più basso dal 2009» (cioè il massimo della grande recessione), mentre il FMI, costretto come sempre a produrre previsioni ottimistiche, ha annunciato un «rimbalzo» al 3,4 % pur avvertendo che questa ripresa rimarrebbe «precaria». Infatti, come abbiamo scritto in più occasioni, la recessione economica era già in atto in termini di produzione industriale, indubbiamente differenziata a seconda dei paesi e delle regioni del mondo, e la crisi sanitaria fu l’innesco di una crisi economica generalizzata senza precedenti dopo la seconda guerra mondiale.

Non c’è dubbio che le misure prese dalle varie borghesie di fronte alla pandemia in termini di interruzioni della produzione, restrizioni alla circolazione e chiusure delle frontiere hanno notevolmente aggravato la crisi, ma non c’è dubbio che questa crisi fosse già presente.

 

I DATI DELLE ORGANIZZAZIONI BORGHESI INTERNAZIONALI

 

Il PIL (Prodotto Interno Lordo) è un indice per stimare l’attività economica di un Paese sommando le «produzioni di ricchezza» degli «agenti economici» (famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni) presenti nel dato paese, indipendentemente dalle nazionalità dei proprietari (mentre il PNL - Prodotto nazionale lordo - o RNL - Reddito nazionale lordo - tiene conto degli afflussi e dei deflussi di capitali delle società «transfrontaliere»). Non solo non ha niente di marxista (non basandosi sull’evoluzione dei profitti ecc.), ma secondo gli stessi economisti borghesi, è un indice molto grossolano: ad esempio il PIL, mentre il dato paese è in recessione, può continuare a mostrare una progressione se uno dei principali settori economici è in crescita (per esempio la produzione di una materia prima della quale il paese è un forte esportatore); in generale, tende a non riflettere accuratamente le incertezze economiche e a ridurre la profondità delle crisi. In assenza di altri indici, viene comunque utilizzato in modo generale, perché fornisce ancora indicazioni sullo stato dell’economia capitalista, e vale la pena di considerarlo, tenendo conto di Stati che, in genere, vengono trascurati dai maggiori media europei.

Il FMI stima il calo del PIL mondiale per il 2020 al 3,5%, calo più pronunciato per i grandi paesi capitalisti (-4,9%) che per i paesi «emergenti» (-2,4%); questa differenza si spiega essenzialmente con la performance della Cina, paese che è ancora classificato in questa categoria dal FMI. Si tratta di un calo più che doppio rispetto alla grande recessione del 2008-2009 (-1,6% nel 2009, secondo la Banca Mondiale), l’unico periodo dagli anni ’30 in cui il PIL mondiale era diminuito.

Fra le caratteristiche più importanti della crisi attuale, e fattori della sua gravità, sono la sua quasi simultaneità su scala globale e la sua estensione a tutti i paesi. Durante la crisi economica del 1974-75, avevamo sottolineato che, per la prima volta dalla fine della guerra mondiale, le principali economie si sono trovate in fase nel precipitare della crisi, cosa che ha impedito che alcune di esse potessero fungere da «locomotive» per riavviare l’economia internazionale o almeno per attutire la crisi. Tuttavia, questa crisi era rimasta geograficamente limitata a una parte del mondo (conosciuta come «occidentale», includendo il Giappone), il cosiddetto blocco «socialista» notoriamente rimasto ai margini (sebbene ne subisse gli effetti), mentre un certo numero dei cosiddetti paesi del «Terzo Mondo» è stato poco o per niente colpiti. Lo stesso valeva per la crisi del 1980-82, anche se i paesi dell’America Latina furono colpiti da una grave crisi del debito in seguito alla recessione globale.

La grande recessione del 2008-2009 si è diffusa a livello internazionale molto più di ogni crisi precedente. Resta il fatto che paesi molto grandi, soprattutto asiatici, sono stati molto meno colpiti: la Cina (secondo statistiche ancora discutibili in questo paese), dopo aver subito un calo della produzione tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, ha finalmente registrato un aumento del suo PIL per quell’anno dell’8,3%, appena inferiore a quelli del 2008 e del 2010. Stesso discorso per l’India con un aumento del PIL stimato al 6,1%, mentre in Indonesia il rallentamento è stato un po’ più marcato con un aumento del 4,5% (contro il 6,1% del 2008). Dall’altra parte del pianeta, anche il Brasile non ha registrato un calo del PIL nel 2009, ma una semplice stagnazione: crescita dello 0%, mentre in Europa la Polonia è riuscita ad evitare una recessione con un aumento, debole ma innegabile, del suo PIL nel 2009: + 1,4%...

Il quadro è diverso per la crisi attuale: tra le principali economie, da sola o quasi, si prevede che la Cina, dopo un calo storico all’inizio dello scorso anno, registrerà in definitiva una crescita del PIL nel 2020, intorno al 2%. In dieci anni i legami economici tra i vari paesi del mondo hanno continuato a rafforzarsi, facilitando così non solo la diffusione dei virus ma anche quella delle crisi economiche. Il commercio mondiale, che aveva iniziato a diminuire leggermente nel 2018, dovrebbe essere diminuito di quasi il 10% in volume nel 2020, una cifra inferiore a quanto si temeva la scorsa primavera quando il commercio mondiale era crollato del 20%; si tratta di dati paragonabili a quelli del 2009 (-19% nel primo trimestre 2009, 12% nell’anno), anno della sua più forte flessione dalla fine dell’ultima guerra mondiale. Per la cronaca, durante la crisi economica del 1974-75, il commercio mondiale era diminuito del 5% in volume (un po’ più che nel 1957-58: -4%), pur continuando a crescere in valore; durante la grave recessione del 1981-82 era diminuito di oltre il 6% in volume (-2% in valore).

 

Rivediamo quindi i dati di PIL presentati per i principali paesi da FMI e OCSE, CEPAL e Banca Mondiale (ci sono alcune piccole differenze tra i dati delle diverse istituzioni).

 

Cominciamo con gli Stati Uniti; hanno registrato un calo relativamente moderato del PIL: -3,5% circa. Gli economisti attribuiscono questa - relativa! - resistenza alla minore apertura degli Stati Uniti al mercato mondiale rispetto, ad esempio, ai paesi europei. 

 

Europa: il calo della zona euro è intorno al 7%, facendo dell’Europa una delle regioni più colpite al mondo; ma questa media nasconde il fatto che non tutti i paesi hanno subito lo stesso calo: la Germania registra «solo» un calo del 5,3%, mentre quello della Francia è dell’8,2%, quello dell’Italia dell’8,9% e quello della Spagna dell’11%. Il Portogallo ha registrato un calo del 7,6% «il più forte dal 1936», quello della Grecia, dove il turismo è il settore economico ancora più importante, è invece dell’8,2%. Da parte sua, il Belgio avrebbe vissuto un crollo virtuale del 13,9%. Al di fuori della zona euro, il calo in Gran Bretagna, che ha subito anche le ricadute negative della Brexit, è appena meno pronunciato di quello della Spagna: -10%. La Svizzera registrerebbe solo un calo dal 3 al 3,5%. Per i piccoli paesi nordici abbiamo le seguenti stime: Danimarca: -4,5%, Finlandia -3,3%, Svezia: -2,9% Norvegia: -2,8% Il PIL della Russia dovrebbe diminuire del 3,6% nel 2020, quello dell’Ucraina del 5% e quello della Polonia del 3%. I paesi europei più potenti sono stati quindi duramente colpiti anche se la differenza di potere economico tra questi grandi Stati è dimostrata dalla crisi.

 

Asia: abbiamo visto che la crescita del PIL cinese nel 2020 è stimata intorno al 2%. L’India, dove il FMI prevedeva un aumento del PIL in primavera, ha invece registrato un forte calo, dall’8% al 10% secondo le stime. Il Giappone avrebbe dovuto registrare un calo di oltre il 5%, mentre quello della Corea del Sud sarebbe stato in definitiva solo dell’1%. L’Indonesia registrerebbe un calo di oltre il 2%, il Pakistan solo dello 0,5%; la Thailandia, duramente colpita dalla cessazione del turismo e dal calo delle esportazioni, avrebbe visto il suo PIL scendere del 6,5%, mentre, per contro, Vietnam e Bangladesh registrerebbero una crescita, sebbene quest’ultimo paese sia stato pesantemente impattato dalla virtuale cessazione delle sue esportazioni in Europa, il suo mercato principale.

 

Medio Oriente e Africa: per la Turchia FMI e OCSE stimano una crescita del PIL dell’1,8%, mentre ad ottobre la Banca Mondiale prevedeva un calo del 3,8%: il quarto trimestre sarebbe stato caratterizzato da una forte crescita del mercato interno che avrebbe compensato il calo precedente. Allo stesso modo, FMI e OCSE stimano che il PIL egiziano abbia continuato a crescere nel 2020 (+ 2,8%) nonostante il calo delle entrate dal turismo (-70%) e delle rimesse da parte dei lavoratori emigrati. Per l’Arabia Saudita il calo del PIL è stimato al 4%, mentre in Libano, già in forte crisi l’anno precedente, si tratta di un vero e proprio crollo: -20% o più. La situazione è meno catastrofica nel Maghreb dove abbiamo le seguenti stime: Marocco, dove la crisi è stata aggravata da una grave siccità, il calo va dal 6 al 7%; Algeria: -5%; Tunisia: -8,6%. Nell’Africa nera, la Nigeria, il paese più popoloso del continente, ha vissuto la sua più grave recessione in più di 30 anni, anche se il calo del PIL per il 2020 sarebbe solo del 2%; il Sudafrica, il paese africano più industrializzato, ha registrato un calo molto maggiore: -7%.

 

America Latina: era già in recessione nel 2019 e quindi la situazione è solo peggiorata; la CEPAL prevede un calo del PIL del 7,7% per l’intera America Latina compresi i Caraibi nel loro complesso, decretandolo come «la crisi più grave degli ultimi 120 anni». Fornisce le seguenti stime per i diversi paesi: il Venezuela continua a precipitare con una previsione del -30%; segue il Perù con il -12,9%, che supera Argentina, che registra il -10,5%, Messico con il -9%, Colombia con il -7% e Cile con il -6%. Anche se Bolsonaro ha detto che il paese è «in bancarotta», in Brasile un calo «limitato» del -5,3% sembra quasi buono! Si noti che a Cuba viene attribuito un calo del -8,5%: lo pseudo socialismo cubano non ha protetto l’isola dalla crisi ...

 

 

 

Produzione industriale di alcuni dei paesi più importanti:

 

Produzione industriale degli Stati Uniti d'America

 

Produzione industriale della Germania

 

Produzione industriale della Francia

 

Produzione industriale dell'Italia

 

Produzione industriale della Spagna

 

Produzione industriale del Brasile

 

 I dati della produzione industriale sono ormai difficili da trovare nelle pubblicazioni delle istituzioni internazionali che abbiamo utilizzato, anche se questi dati danno una luce più precisa della situazione economica (senza dimenticare, tuttavia, che la creazione del profitto, che è l’anima del capitalismo, è realizzata anche al di fuori dell’industria). Forniamo delle tabelle pubblicate in particolare dalla Federal Reserve Bank of Philadelphia (FED) il cui lavoro è autorevole per la produzione industriale degli Stati Uniti, del Brasile e dei maggiori paesi europei; possiamo vedere che la ripresa della produzione industriale dopo la crisi del 2008-2009 è stata modesta, o addirittura non ha avuto luogo! Abbiamo pubblicato anche le serie statistiche della produzione industriale negli USA dalla fine della prima guerra mondiale. Si può vedere che in passato le variazioni percentuali erano molto maggiori, ma  le quantità di merci prodotte erano in effetti molto inferiori.

Le colonne in grigio indicano le recessioni e consentono di visualizzare i cicli economici.

 

CICLI ECONOMICI E CAPITALISMO DROGATO

 

Tutte queste cifre dipingono il quadro di una crisi senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale, se non di più. Ma le organizzazioni di cui abbiamo citato i dati statistici forniscono previsioni molto ottimistiche per il 2021, che dovrebbe conoscere un forte rimbalzo economico. È inevitabile che si verifichi una ripresa; ma anche se venisse confermata così forte, cosa più che

ipotetica, la crisi attuale avrà conseguenze durevoli e di vasta portata. Non è un «incidente di percorso» dovuto alla comparsa inaspettata di un virus, ma è in definitiva il risultato del meccanismo ciclico dell’economia capitalista. Marx aveva stabilito che questa attraversava periodi di espansione che sboccavano inevitabilmente in crisi, in cicli che duravano, alla sua epoca, all’incirca 10 anni. Durante il periodo di espansione economica successivo alla seconda guerra mondiale, questi cicli sembravano svanire, e ciò era uno degli argomenti avanzati da alcuni «opinionisti» per parlare di un «neocapitalismo» capace di superare almeno in parte le sue contraddizioni e di «regolarsi» grazie all’azione dello Stato. La grande crisi del 1974-75 fece sparire queste teorie e si osservò anche che la durata dei cicli si stava accorciando. Ma quest’ultimo fenomeno non è stato confermato: se consideriamo i cicli economici esaminando il caso degli Stati Uniti, prima potenza capitalista mondiale dove le cose sono più chiare e meglio documentate che altrove, vediamo che l’intervallo con la precedente crisi economica internazionale (2008-2009) è superiore a 10 anni (146 mesi): è il ciclo di espansione economica più lungo registrato dal 1857 (data delle prime statistiche pubblicate dal NBER, il servizio ufficiale americano incaricato di stabilire i cicli economici); il precedente è stato quello che ha portato alla crisi del 2001 (128 mesi).

Questo allungamento del ciclo è fondamentalmente spiegato dalle cosiddette misure «non convenzionali» di «allentamento monetario»: le quantità di denaro versate dagli Stati e dalle banche centrali nei circuiti economici per riavviare la macchina economica.

Questa politica del denaro facile (prestato a tassi molto bassi o addirittura negativi) e della creazione di denaro, questa economia del credito simile alla droga che l’amministrazione Trump ha esteso e accentuato, ha indubbiamente permesso di estendere il ciclo di crescita, sebbene questa crescita sia stata anemica. I governi hanno risposto alla crisi attuale aumentando le dosi di denaro facile - e finora sono riusciti di nuovo a evitare un collasso economico che nella primavera scorsa sembrava incombere. Ma poiché la saturazione dei mercati a causa della sovrapproduzione, causa di tutte le crisi, non è stata realmente superata, questo afflusso di liquidità ha faticato a trovare rendimenti sufficienti nella produzione di merci; gran parte è andata ai mercati azionari che hanno stabilito dei record nonostante la crisi economica e la speculazione finanziaria in generale, creando «bolle» che rischiano di scoppiare da un momento all’altro. Un esempio di questa speculazione è dato dall’impennata del corso delle «criptovalute»; questa frenesia speculativa è incoraggiata dagli annunci di «piani di rilancio» strabilianti assicurando che la politica del denaro facile (per banche e istituzioni finanziarie!) non verrà fermata: i governi hanno troppa paura che se sospendessero la somministrazione della loro droga il capitalismo malato cadrebbe in convulsioni; in altre parole, che si innescasse una crisi economica e finanziaria di portata ancora maggiore!

 

ECONOMIA DEL CREDITO

 

Marx ha spiegato che l’economia del credito accelera la crescita delle forze produttive abbattendo la barriera alla produzione causata dal carattere contraddittorio del capitalismo che tende a svilupparsi indipendentemente dai limiti del mercato: il credito tende ad aumentare il mercato, ma questo accrescimento risulta essere, alla fin fine, artificiale.

Di conseguenza: «Nello stesso tempo il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione» (Il Capitale, Libro terzo, cap. 27, «Il ruolo del credito nella produzione capitalistica», Utet, Torino 1987, p. 558).  

A livello internazionale, gli economisti parlano di «ondate di debito» e ne hanno contate 4 negli ultimi 50 anni; la terza ha portato alla crisi globale del 2008-2009, innescata dall’incapacità degli Stati Uniti di rimborsare i crediti anticipati; una quarta, «senza precedenti per la sua ampiezza, la sua velocità e il suo carattere generalizzato» (banquemondiale.org, gennaio 2020) ha accompagnato la ripresa economica che ne è seguita, anzi alimentandola; poi ha subito un’accelerazione negli ultimi anni (soprattutto in seguito alle azioni dell’amministrazione Trump), fornendo carburante per il proseguimento del ciclo di espansione.

Secondo l’IIF (Institute of International Finance) alla fine del 2020, il debito pubblico e privato, gonfiato in modo sproporzionato dalle misure governative a sostegno dell’economia adottate soprattutto dagli Stati più grandi, doveva raggiungere un livello record, molto superiore a quello che ha preceduto la crisi del 2008-2009 (l’aumento dell’indebitamento è stato maggiore in paesi come Cina, Turchia, Corea del Sud e Stati Uniti). Il debito globale non ha mai raggiunto un livello simile dall’ultima guerra mondiale.

 

 

 Questo gigantesco indebitamento che sarà ulteriormente rafforzato dai piani di rilancio (come quello faraonico deciso ultimamente negli Stati Uniti) è necessario per far avanzare l’economia mondiale allo stremo: ma il rimedio non durerà per sempre. Finché le forze produttive in eccesso non saranno distrutte (inclusa la massiccia distruzione causata da una guerra generalizzata che sarebbe un vero bagno di giovinezza per il capitalismo), non ci sarà una ripresa reale e duratura.

La crisi del 2020 non è stata superata; i capitalisti hanno guadagnato tempo solo occupandosi delle situazioni più urgenti e sono sempre di più coloro che lanciano avvertimenti sul prolungamento dell’attuale crisi in crisi finanziaria a causa dello scoppio di bolle nate dal credito.

 

Il Manifesto del Partito Comunista lo diceva già nel 1848:

Il capitalismo supera le sue crisi solo ponendo le basi per crisi successive, ancora più gravi.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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