Alcuni punti sulla situazione storica che ha prodotto anche la guerra russo-ucraina

(«il comunista»; N° 172 ; Marzo 2022)

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1) Con la sconfitta della rivoluzione proletaria in Europa negli anni 1918-1923 e la degenerazione, negli anni successivi, del potere bolscevico in Russia nel più drammatico isolamento e alle prese con una profonda arretratezza della struttura economica e sociale in Russia, le misure indirizzate verso il socialismo che il potere bolscevico aveva iniziato a prendere venivano man mano abbandonate e sostituite con misure marcatamente mercantilistiche e borghesi. Quelle misure comprendevano necessariamente interventi politico-economici atti a sviluppare il più possibile il capitalismo di Stato, unico modo per indirizzare e controllare lo sviluppo del capitalismo in Russia durante la dittatura proletaria, e a sostenere, attraverso l’Internazionale Comunista, i movimenti comunisti nel mondo nella prospettiva della rivoluzione proletaria nei paesi capitalisti avanzati; rivoluzione che, in caso di vittoria anche in uno solo di questi paesi, ad esempio in Germania, avrebbe accelerato anche lo sviluppo dell’economia in Russia.

Il movimento comunista internazionale subì una sconfitta non solo “ideologica”, ma politica e sociale sintetizzata dalla teoria del “socialismo in un solo paese” (che aprirà le porte alla democrazia borghese, alle “vie nazionali al socialismo”, in sostanza al nazionalismo borghese tout court); da parte sua, il movimento proletario internazionale subì una tragica regressione sul terreno della lotta di classe e della sua stessa lotta di difesa immediata sul piano delle condizioni di esistenza e di lavoro, cosa che non impedì ai proletari di Berlino nel 1953 di sollevarsi contro il nuovo potere borghese, o ai proletari di Budapest nel 1956 e ai proletari di Praga nel 1968 di sollevarsi contro l’intervento armato del paese “fratello” russo con cui Mosca ribadiva il suo dominio imperialistico in Germania dell’Est, in Ungheria e in Cecoslovacchia.

Mentre, in una certa misura, i proletariati dei paesi capitalisti avanzati venivano in qualche modo protetti dal precipitare nella miseria più nera, attraverso l’applicazione della politica degli ammortizzatori sociali (ereditata direttamente dal fascismo) in cambio di una vincolante collaborazione fra le classi, i proletariati dei paesi della periferia dell’imperialismo subivano le più dure conseguenze dello sfruttamento intensivo da parte del capitalismo internazionale e dei capitalismi nazionali, le più dure repressioni colonialiste dei loro tentativi di ribellione, unitamente alle conseguenze più negative delle crisi economiche e sociali che ciclicamente hanno investito i paesi capitalisti avanzati.

 

2) Il mondo capitalista del secondo dopoguerra non è stato un “mondo di pace”. I contrasti interimperialistici sono scoppiati subito dopo la fine della guerra in una lotta per definire i confini delle zone di influenza da parte di ogni imperialismo che ha partecipato alla guerra, a detrimento dei paesi che la guerra l’hanno persa – Germania, Giappone, Italia e alleati – e fra di loro perché, per quanto vincitori nella guerra, come la Francia e la Gran Bretagna, dovevano registrare un inevitabile ridimensionamento della propria potenza a causa della evidente supremazia delle due “superpotenze”, Stati Uniti e Russia, le vere vincitrici della guerra.

Il terremoto politico-economico causato dalla guerra ha scardinato gli equilibri colonialisti precedenti, mettendo in moto le forze sociali – borghesie, contadiname e proletariato – che fino ad allora non si erano ancora espresse al massimo della loro potenzialità rivoluzionaria. Sono stati i casi, in particolare, dell’India  (1947) e della Cina (1949) che influenzarono, in modo diverso e apparentemente opposto ma sempre ben radicati nello sviluppo capitalista e borghese dei rispettivi Stati, col gandhismo (e il suo pacifismo, soprattutto i movimenti dei paesi occidentali) e col maoismo (e il suo guerriglierismo, soprattutto i movimenti indipendentisti orientali e africani) le successive lotte di liberazione nazionale in tutto l’Estremo Oriente asiatico e in Africa. In quegli stessi anni, la guerra di Corea scoppiata nel 1950 – e che minacciava di trasformarsi in una terza guerra mondiale a distanza di soli 5 anni dalla fine della seconda – aveva anticipato lo scontro della Russia con gli Stati Uniti effettuato attraverso le lotte di “liberazione nazionale” (in questo caso si trattava dell’unificazione delle due Coree dopo che il Giappone, colonizzatore della Corea e della Cina, era stato definitivamente vinto nella guerra mondiale); di fronte a quella minaccia il nostro partito lanciò la parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario sintetizzato in “Né con Truman, né con Stalin”, coerentemente con le posizioni assunte dalla Sinistra comunista d’Italia di fronte alla guerra italo-turca del 1911 e alla prima guerra mondiale del 1914-18, coincidenti perfettamente con quelle del partito bolscevico di Lenin di fronte alla guerra russo-giapponese del 1905 e alla prima guerra mondiale.

 

3) Il trentennio successivo alla seconda guerra imperialista mondiale, vantato come il periodo della grande espansione capitalista, oltre ad essere stato caratterizzato da una specie di “nuova giovinezza” del capitalismo, è stato il trentennio in cui, in molte parti del mondo, il vecchio colonialismo europeoè stato affondato dai movimenti nazionalrivoluzionari successivi a quelli indiano e cinese, come in Algeria, in Congo, in Indocina (Vietnam, Cambogia, Laos) ecc., mettendo alle corde le vecchie potenze colonialiste (Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio e, naturalmente, Germania e Giappone, mentre l’Italia aveva già perso le sue colonie africane durante la guerra), e infliggendo dure sconfitte anche alla nuova superpotenza, gli Stati Uniti d’America (Cuba, Vietnam).

 

4) In assenza di un movimento proletario indipendente, distrutto in precedenza dalla controrivoluzione borghese che con lo stalinismo diede il colpo di grazia, negli anni Venti del secolo scorso, al movimento rivoluzionario in Europa e in Cina, i pur vigorosi movimenti anticolonialisti del trentennio 1945-1975 non potevano aprire la strada alla ripresa del movimento proletario rivoluzionario in Europa e nelle Americhe. Il capitalismo ebbe così la possibilità di rinnovare le classi dominanti e rafforzare il loro potere sia nei paesi imperialisti, sia nei paesi in cui il suo sviluppo nazionale era in forte ritardo, portando in auge nuove borghesie che si presero un doppio compito: accelerare lo sviluppo dei mercati interni, e relativa industrializzazione nazionale, sotto l’ombrello delle potenze imperialistiche, Stati Uniti in testa a tutte, e, nello stesso tempo, controllare dittatorialmente le proprie classi proletarie sia per massimizzare il loro sfruttamento al fine di accelerare lo sviluppo capitalistico nazionale, sia per impedire loro, solitamente con la repressione diretta, di lottare e organizzarsi come forze classiste indipendenti. Va sottolineato che, in tutta quest’opera, lo stravolgimento del comunismo marxista, dei suoi principi e delle sue finalità, la degenerazione dei partiti comunisti a partire da quello bolscevico e l’eliminazione fisica dei comunisti rivoluzionari in ogni parte del mondo, ebbero una funzione primaria. L’illusione che i movimenti borghesi nazional-rivoluzionari potessero portare, in quanto tali e in assenza della lotta di classe proletaria, alla vittoria del socialismo sul capitalismo, faceva parte di quello stravolgimento del marxismo che prese il nome di stalinismo e che fu, a sua volta, fonte di centinaia di varianti “nazionali” sia nei paesi a capitalismo avanzato che nei paesi arretrati (dal maoismo alla coesistenza pacifica, dal guevarismo all’ecosocialismo, dal socialismo autogestionario al socialismo cristiano e via di questo passo).

 

5) Con la crisi economica mondiale del 1975, il capitalismo internazionale, dopo un trentennio di “espansione economica” sulle macerie della seconda guerra imperialistica mondiale, mostrava indiscutibilmente la durissima realtà di una società che non aveva nulla di diverso da offrire ai proletariati e alle popolazioni di tutto il mondo se non un mondo di crisi e di guerre.

I contrasti interimperialistici che erano stati alla base dello scoppio della guerra mondiale nel 1939,  come nel 1914, si rinnovavano tra gli stessi alleati già alla fine della guerra, e si acutizzarono nel tempo con l’entrata in campo della rinnovata potenza economica di vecchi imperialismi (leggi, Giappone e Germania soprattutto) e di nuove potenze economiche, come la Cina. Il superamento della crisi mondiale del 1975 non aprì le porte ad un periodo di sviluppo pacifico, bensì ad un periodo in cui i contrasti interimperialistici erano destinati ad aumentare e a irradiare le proprie conseguenze distruttive in tutti i continenti, confermando quel che è stato previsto dal marxismo centosettantacinque anni fa: «Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse» (Manifesto del partito comunista, Marx-Engels, 1848).

Una serie interminabile di tensioni sociali si è intrecciata, così, con crisi di carattere politico-economico e militare, a fronte delle quali le diverse borghesie, da un lato, puntavano costantemente ad affinare la concorrenza tra di loro con ogni strumento politico, economico-finanziario e militare a disposizione, dall’altro, agivano politicamente e militarmente nel tentativo di reprimere ogni eventuale sollevazione sociale; tentativo che finora è riuscito anche quando le masse proletarie, dopo la crisi del 1975, hanno dato segni di grande combattività nel Vicino Oriente come in Europa: ad esempio le masse palestinesi, vessate, represse e massacrate da Israele quanto dai “fratelli” arabi in Giordania, in Siria, in Libano; il poderoso movimento di sciopero nei cantieri polacchi di Danzica; i grandi scioperi nella Ruhr tedesca, come gli scioperi alla Fiat o quelli dei ferrovieri francesi. La combattività di tutti questi movimenti proletari è stata intossicata, e perciò soffocata, dai miti della democrazia parlamentare, del nazionalismo e dei “cambiamenti” elettorali di regime; è successo anche ai movimenti più recenti della cosiddetta “primavera araba” nella quale i vecchi poteri rappresentati da generali, come Ben Alì (al potere dal 1987 al 2011) e Mubarak (al potere dal 1981 al 2011), sono stati sostituiti da rappresentanti della borghesia compradora moderna, in veste democratica (come l’attuale in Tunisia) o apertamente autoritaria (come in Egitto l’attuale regime del generale al-Sisi).

 

6) L’imperialismo russo, per l’estensione territoriale della stessa Russia che copre un’ampia parte del continente euroasiatico, è costretto a difendere i suoi confini e le sue più prossime zone d’influenza sia ad ovest che ad est, tanto più con una potenza emergente come la Cina che ha essa stessa interesse ad ampliare la sua influenza in Asia, perciò verso occidente andando a scontrarsi inevitabilmente con la Russia. Lo scontro tra Cina e Russia iniziò subito dopo il XX congresso del Partito comunista russo in cui Kruscev presentò il famoso “rapporto segreto” su Stalin dando l'avvio alla cosiddetta “destalinizzazione”. La Cina di Mao, nello sforzo di industrializzazione capitalista del paese, sostenuto dalla Russia di Stalin, aveva bisogno di mascherare questo sforzo con gli argomenti che servirono a Stalin per falsificare il marxismo, facendo passare lo sviluppo del capitalismo in Russia, come in Cina, per “costruzione del socialismo”; perciò si scontrò con Kruscev e i suoi successori accusandoli (da che pulpito!)di “revisionismo”. Dalle parole ai fatti: nel 1969, lungo le sponde del fiume Ussuri,gli scontri militari di confine tra i due paesi "socialisti" giunsero a un passo dalla guerra guerreggiata (con tanto di minaccia di usare da entrambe le parti le bombe atomiche) alla quale non poteva essere estranea la Casa Bianca con cui la Cina intratteneva rapporti diplomatici e commerciali già da diversi  anni. Ci vollero più di vent'anni perché Cina e Russia normalizzassero i loro rapporti, smilitarizzando il reciproco confine. Nel frattempo, a conferma dell'alleanza, sebbene temporanea, tra Cina e Stati Uniti in funzione antirussa, il terreno di scontro si era allargato,tra il 1979 e il 1989, all’Afghanistan che l’URSS ha invaso con il pretesto di andare in aiuto al governo afghano pro-sovietico attaccato da varie tribù di mujaheddin, a loro volta sostenute e finanziate dagli Stati Uniti, dal Pakistan, dalla Cina, dall’Iran, dall’Arabia Saudita e dall’immancabile Regno Unito. Come si sa non è bastato un decennio all’Urss per piegare i talebani, e così se ne è dovuta andare con la coda tra le gambe. Il fatto è che la stessa cosa è capitata all’imperialismo americano che, col pretesto della “guerra al terrorismo” dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York nel settembre 2001 da parte di al-Qaida, invase a sua volta l’Afghanistan con l’obiettivo non solo di far fuori il capo di al-Qaida, Osama Bin Laden, ma di piantare le sue basi nel paese e in questo modo essere presente militarmente ai confini sia dell’Iran che della Russia, all’epoca dichiarati nemici degli Stati Uniti. Il gioco non riuscì nemmeno a Washington; così gli americani, e i suoi alleati della Nato, dopo ben 20 anni di guerra, di massacri (come a Shinwar e nel desrto di Dasht-e Leili) e di sistemi di tortura dei prigionieri tra i più tremendi (come il waterboarding), hanno dovuto andarsene dall’Afghanistan lasciando il paese nuovamente, come già fecero i russi, alle prese con una guerra civile senza fine tra fazioni e clan tribali.

 

7) In Europa, mentre nel 1989-1990 la Germania Ovest approfittava del terremoto che stava mandando all’aria il potere sovietico, annettendosi la Germania Est e con ciò riunificando la Germania dopo che le potenze imperialistiche vincitrici della seconda guerra imperialista l’avevano tagliata in due, il terremoto russo contagiava direttamente anche i Balcani. E’ la volta della Jugoslavia finita in pezzi: tra il 1991 e il 1999 è un succedersi di guerre tra le varie repubbliche federate, guerre sostenute da un lato dalla Russia (Serbia, Montenegro) e dall’altro dalla Nato (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo), che si sono massacrate reciprocamente non solo per ragioni nazionalistiche (croati contro serbi e bosniaci, serbi contro sloveni, croati, bosniaci, kosovari di etnia albanese, sloveni contro croati), ma anche religiose (tra musulmani e cattolici in particolare in Bosnia-Erzegovina), corredate da massacri come a Vukovar e Srebrenica, da parte dei Serbi, e a Belgrado, da parte dei bombardamenti Nato, oltre all’uso non episodico da parte delle forze della Nato dell’uranio impoverito. Simili bombardamenti gli anglo-americani li hanno fatti nel 2004 in Iraq, comprese le bombe al fosforo a Falluja.

Ormai non c’è angolo del mondo in cui la lunga mano delle potenze imperialiste, singolarmente o in alleanza con altre, non tenti di cambiare, con la pressione economica e finanziaria e con la guerra, la situazione a proprio vantaggio, e questi cambiamenti non sono altro che espressione dei contrasti fra Stati capitalisti e, al loro interno, di interessi che possono anche mostrarsi all’inizio soltanto “nazionali”, ma che di fatto si svolgono nel quadro della fase imperialista del capitalismo, quella fase che Lenin ha identificato come la fase in cui dominano il capitale finanziario e i monopoli, fase con cui il capitalismo termina storicamente la sua possibilità di sviluppo e oltre la quale c’è soltanto la rivoluzione proletaria e comunista a livello mondiale, una rivoluzione che ha il compito non di rinnovare sotto altre spoglie il modo di produzione capitalistico e i suoi rapporti di produzione e di proprietà, ma di distruggerlo completamente, liberando in questo modo le forze produttive che il capitalismo tende a distruggere continuamente dopo averle sviluppate, al solo scopo di mantenersi in vita.

 

8) Nel frattempo, che cosa successe ai paesi che un tempo facevano parte dell’Urss e dell’Europa dell’Est sottomessa a Mosca?

La gran parte di questi paesi, che già commerciavano da anni con i paesi dell’Europa occidentale, si piegarono rapidamente sotto la protezione economica dell’Unione Europea e militare della Nato. Tra il 1999 e il 2004, infatti, diventarono membri della Nato: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, nel 2009 si aggiunsero Croazia e Albania, nel 2017 il Montenegro e nel 2020 la Macedonia del Nord. E’ noto che l’Ucraina ha chiesto non soltanto di entrare come Stato membro nell’Unione Europea, ma anche nella Nato. Era evidente che l’imperialismo russo non poteva starsene tranquillo quando i missili Nato venivano a bussare alla sua porta. Gli stati dell’Europa dell’Est che un tempo erano stati inquadrati come la “cortina di ferro” che proteggeva Madre Russia, nel giro di vent’anni sono diventati una cintura di sicurezza degli imperialisti occidentali, approntata per essere costretta a svolgere un ruolo non tanto di contenimento dell’eventuale avanzata russa verso l’Europa occidentale, quanto di trampolino di lancio per l’avanzata delle forze Nato verso Mosca. In effetti, i paesi del vecchio Patto di Varsavia che la Russia organizzò nel 1955 per fronteggiare anche militarmente gli imperialisti occidentali organizzati nell’Alleanza Atlantica, e cioè, oltre alla Russia, Polonia, Germania Est, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania e Bulgaria, sono stati usati più per operazioni di repressione interna all’impero russo – come dimostrato dai carriarmati a Budapest e a Praga – che per attaccare uno qualsiasi dei paesi europei “oltre-cortina”.

 

9) La potenza economica euro-occidentale sommata a quella statunitense e a quella dei suoi alleati più stretti come il Regno Unito, il Canada, l’Australia, è irraggiungibile da parte della Russia che, per ragioni storiche da cui non può svincolarsi, è destinata a funzionare soprattutto come una potente forza militare reazionaria in appoggio alla potenza o alle potenze capitaliste dominanti e in grado di assicurare l’ordine capitalista e imperialista mondiale: lo fu al tempo degli Zar, in funzione antirivoluzionaria borghese in Europa e nel mondo, stranamente in combutta con la borghesissima Inghilterra in funzione antifrancese e antitedesca; lo è stata al tempo di Stalin, nella distruzione del movimento bolscevico e comunista internazionale che ha permesso lo sviluppo del capitalismo nazionale russo e il colpo mortale al movimento proletario comunista e rivoluzionario; lo è stata nel periodo della cosiddetta “destalinizzazione”, “democratico-popolare”, della “coesistenza pacifica”  fino a Gorbaciov, in funzione espressamente antiproletaria, sia verso l’interno del suo stesso impero che all’esterno, e non soltanto dal punto di vista ideologico; e lo è ancor oggi, sotto Putin, che, nella brama imperialista di conquistare – come ogni imperialismo dopo aver subito crisi economiche di grande rilevanza – nuovi territori economici persi dal crollo dell’Urss, cerca di strapparli alle grinfie degli imperialisti dell’occidente europeo e d’America, come appunto nel caso dell’Ucraina. Con la perdita delle sue colonie europee, l’imperialismo russo lanciava le sue mire nel perimetro più a sud e più a est e, in un certo senso, meno difficile da penetrare, come alcuni paesi del Medio Oriente (Siria innanzitutto) e, naturalmente, i paesi del Caucaso, contando sul fatto che dalle ex repubbliche dell’Asia centrale appartenenti alla vecchia Urss, perlomeno fino a quando non verranno ingolosite da offerte di relazioni economiche e politiche più vantaggiose da parte, ad esempio, della Cina con il suo progetto della nuova “via della seta”..., grandi pericoli non dovrebbero arrivare.

 

10) La Russia di oggi, è stretta in una tenaglia – ad ovest Germania, che si sta riarmando in modo consistente, e Unione Europea, difese dalla Nato a direzione statunitense, ad est Cina, Giappone e un’India che intende concorrere anch’essa ad una spartizione mondiale tra le grandi potenze – dalla quale è in difficoltà ad uscire, non solo per la sua posizione geopolitica, ma anche a causa di un condizionamento importante per il suo capitalisno finanziario, quello legato direttamente alle materie prime (petrolio, gas naturale, carbone, cereali, legname, armi, metalli preziosi, fertilizzanti, macchinari nucleari ecc.), ma poggiante su un’industria in generale obsoleta, ma non quella spaziale e nucleare, cosa che la pone come un pericoloso rivale rispetto a tutte le altre potenze nucleari, Stati Uniti in testa.

 

11) La Russia è ancora una forte importatrice di prodotti lavorati, soprattutto ad alta tecnologia che non produce internamente. Il suo partner più importante è la Cina, che rappresentava, nel 2019 il 13% e nel 2020 il 14,8% delle sue esportazioni; mentre nel 2019 rappresentava  il 22% e nel 2020 il 22,9% delle sue importazioni. La Cina, insieme alla Bielorussia (quarto paese per le importazioni, quinto per le esportazioni), non partecipano alle sanzioni unilaterali. Ma le sanzioni varate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti colpiscono in modo serio il commercio russo e alcuni beni detenuti all’estero dagli oligarchi che fanno parte del “cerchio magico” di Putin, ed anche alcune banche, escludendole dal sistema Swift che serve per i pagamenti internazionali, escludendo però dalle sanzioni il commercio del petrolio e del gas russo dai quali l’Europa dipende in maniera molto forte, soprattutto la Germania e l’Italia, ma anche l’Olanda e la Polonia, che andrebbero in crisi immediata se di colpo si interrompesse questa fornitura.

12) Il cosiddetto periodo di condominio politico-militare russo-americano sul mondo, periodo di guerra fredda in cui vigeva l’equilibrio del terrore (il terrore di una guerra nucleare), è terminato, in linea di massima, con il crollo dell’Urss e della sua colonizzazione dei paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia centrale; ciò ha sancito un allargamento del disordine mondiale che fino ad allora riguardava soltanto alcune”zone delle tempeste”,  ma non l’Europa. Le guerre jugoslave hanno scosso l’Europa, aggiungendovi le due guerre del Golfo, la guerra nello Yemen, in Afghanistan, in Africa (nella Repubblica democratica del Congo, nel Sudan, in Nigeria, nella Repubblica Centrafricana), in Libia, in Siria e nel Kurdistan, e la guerra mai terminata in Palestina. Mentre i media di tutto il mondo parlavano di guerra fredda tra America e Russia, il capitalismo massacrava lontano dalle metropoli imperialiste. Da trent’anni si stanno accumulando i fattori di crisi di guerra nell’opulenta Europa; le guerre jugoslave prima, la guerra nel Mediterraneo per eliminare Gheddafi e strapparsi di mano pezzi di Libia gli uni con gli altri poi, la guerra russo-ucraina ora, stanno circondando con un cerchio di fuoco la pacifica, cristiana, umanitaria Europa.

 

13) Contro la guerra borghese, che sia scatenata da interessi inizialmente nazionali o da interessi imperialistici, non c’è diplomazia che possa pacificare i belligeranti: i briganti trattano dopo essersi colpiti con più forza possibile, e le trattative vengono condotte dai più forti, quando i più deboli hanno ceduto e sono pronti alla resa. Fino a quel momento, la guerra borghese non si ferma; fino a quando le sorti del conflitto non fanno intravvedere quali belligeranti vinceranno, la forza d’inerzia con cui le parti in conflitto si stanno combattendo le obbliga a proseguire il macello finché la parte che ha già militarmente vinto la guerra non ha piegato definitivamente la parte avversa. E’ successo nella prima guerra imperialista mondiale, di nuovo nella seconda e da allora in ogni guerra. Come l’idra della mitologia greca, la borghesia vinta in una guerra può rinascere, svilupparsi nuovamente e nuovamente entrare in concorrenza con le altre: ciò che la fa rinascere sono il modo di produzione capitalistico e i rapporti di produzione e di proprietà borghesi generati dal capitalismo. Per vincere definitivamente l’idra-capitalismo c’è soltanto una via da percorrere: non è il negoziato tra briganti imperialisti, non è il richiamo ad un umanitarismo che ci si illude sia al di sopra dei conflitti sociali e dei conflitti tra Stati, non è l’eroismo nazionalista portato all’estremo sacrificio. E’ la lotta di classe, la trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe che il proletariato è chiamato storicamente a sferrare prima di tutto contro la propria borghesia, nella prospettiva della rivoluzione mondiale.

 

14) La lotta di classe ha già dato degli esempi formidabili nella storia del movimento proletario. Con la Comune di Parigi del 1871, la lotta di classe diretta spontaneamente dagli strati più combattivi e coscienti del proletariato ha dimostrato che è questa la strada da percorrere se si vuole lottare contro la guerra borghese e, nel contempo, rivoluzionare la società. Primo esempio storico di dittatura proletaria contrapposta alla dittatura borghese, conferma della prospettiva materiale e storica delineata dalla teoria marxista. Esempio di un primo livello di maturità del movimento proletario e comunista, non seguito da nessun altro proletariato europeo o nordamericano,  e non diretto dal partito di classe, dal partito comunista rivoluzionario, e perciò destinato ad essere sconfitto. Con la Rivoluzione d’Ottobre 1917, la lotta di classe del proletariato è stata organizzata e diretta dal partito di classe, dal partito comunista rivoluzionario che all’epoca si chiamava partito bolscevico. Sulla base delle lezioni tratte dalle lotte operaie in Europa dal 1848 in poi, dalla Comune di Parigi e dai suoi limiti ed errori, dalla rivoluzione russa del 1905, il partito di Lenin lesse con grande precisione il momento storico generato dalla prima guerra imperialista mondiale e, nonostante il tragico fallimento della Seconda Internazionale di fronte alla guerra, intuì che la situazione storica in cui si trovava lo zarismo russo, sebbene intervenuto nella guerra imperialista al fianco delle potenze capitaliste democratiche e da queste sostenuto, stava decretando la fine della sua corsa: la stessa guerra aveva messo in movimento le forze sociali russe, borghesi, contadine e proletarie facendo loro imboccare la via della rivoluzione borghese antizarista.

Ebbene, la grande prospettiva storica che il marxismo aveva letto nelle rivoluzioni del 1848 e 1849 – all’ordine del giorno, in Germania, in Italia, in Spagna, c’era la rivoluzione borghese che aveva già vinto in Francia e, prima ancora, in Inghilterra – cioè la possibilità concreta del proletariato, attraverso la sua partecipazione alle rivoluzioni borghesi, di farle trascrescere in rivoluzioni proletarie se guidate dal partito proletario di classe (il partito comunista, vedi il Manifesto del 1848), era perfettamente valida per l’arretrata Russia; arretrata, ma già aggredita dal modo di produzione capitalistico che dall’Europa dilagava, con la grande industria, anche in Russia e in Asia.

Da qui l’indicazione perentoria di Lenin: trasformare la guerra imperialista in guerra civile, in guerra di classe; parola d’ordine che valeva per ogni paese europeo e per la Russia stessa, dove, nei fatti, in piena guerra imperialista scoppiò la rivoluzione che nel febbraio 1917 fu capeggiata dalla borghesia e che nell’ottobre 1917 fu trasformata in rivoluzione proletaria, dunque antiborghese, antimperialista e, quindi, fondamentalmente anticapitalista. La dittatura di classe del proletariato che, nella Comune di Parigi, si delineò più come una necessità immediata per difendere Parigi dalle truppe prussiane, e successivamente per difendersi dalla controrivoluzione borghese dei versagliesi capitanati da Thiers, a Pietroburgo fu instaurata consapevolmente, sapendo precisamente quali erano i suoi compiti immediati e nazionali e quali i suoi compiti internazionali per i quali il proletariato era stato preparato nel quindicennio precedente dal partito marxista russo, il partito bolscevico di Lenin.

 

15) Il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario ha, infatti, il compito di preparare il proletariato alla sua rivoluzione, di prepararlo alla lotta contro lo Stato borghese sulla base delle esperienze che fa spontaneamente nelle lotte di difesa economica immediata e sulla base dei bilanci delle rivoluzioni e, soprattutto, delle controrivoluzioni. Il partito di classe rappresenta la coscienza di classe, le finalità storiche della lotta di classe che il proletariato è spinto a ingaggiare contro la borghesia dominante per abbattere il suo potere politico e la sua dittatura, instaurando la propria dittatura di classe perché è l’unico mezzo politico col quale è possibile togliere alla borghesia il controllo dell’economia e, quindi, della società.

Il partito di classe, d’altra parte, non si crea al momento, non è una forma politica germinata all’interno del proletariato; esso è il risultato organico di tutta la storia delle lotte fra le classi, in particolare della lotta del proletariato contro la borghesia dominante, e di tutto ciò che la civiltà moderna ha prodotto di positivo per lo sviluppo delle forze produttive, base materiale ed essenziale dell’economia di ogni società divisa in classi, tanto più della società senza classi che il marxismo ha chiamato comunismo. Il partito di classe, col marxismo, esiste sul piano storico fin dal 1848, esiste come teoria della rivoluzione comunista, come guida del proletariato rivoluzionario a livello mondiale; sul piano formale, dovendo agire nelle situazioni concrete, talvolta favorevoli ma spesso sfavorevoli alla lotta di classe, il partito può anche essere ridotto a due suoi rappresentanti, come furono Marx ed Engels per molti anni, o come fu lo sparuto gruppo intorno a Lenin nel 1914-1916, o addirittura sparire, come successe a causa della controrivoluzione staliniana negli anni dal 1927 al 1945.

 

16) La guerra russo-ucraina di oggi non è che la prosecuzione – su entrambi i fronti – della politica borghese applicata con mezzi militari. Non è questione di chi è l’aggressore o l’aggredito. La borghesia di un paese è sempre in lotta contro le borghesie straniere, perciò l’aggressione è reciproca, fa parte della lotta di concorrenza che dai mercati di sbocco delle merci e dei capitali si trasferisce nel campo militare. Il proletariato non ha nulla da condividere con la propria borghesia o con la borghesia straniera perché, qualunque sia la borghesia che vincerà la guerra, il suo destino sostanzialmente non cambierà: resterà sempre uno schiavo salariato, sarò sempre la classe dei lavoratori dal cui sfruttamento i borghesi estorcono il plusvalore; sarà sempre la classe lavoratrice che produrrà la ricchezza di ogni paese, una ricchezza che la borghesia si appropria interamente constringendo i lavoratori, i proletari a comprare al mercato ciò di cui hanno bisogno per vivere; sarà sempre la classe che è costretta a vendere la propria forza lavoro ai capitalisti e a subire direttamente e in modo pesante ogni oscillazione di mercato, ogni crisi economica e finanziaria, ogni crisi di guerra.

Il capitalista non è mai disoccupato: la sua “occupazione” consiste nello sfruttare il lavoro salariato, pagare il meno possibile la forza lavoro, risparmiare il più possibile su ogni costo di produzione e del lavoro, accumulare soldi, investire i capitali in proprietà immobiliari, nell’industria, nel commercio e speculare in Borsa. Il proletario, il senza riserve, non possiede nulla e la sua “occupazione” per la vita è di trovare un posto di lavoro in cui farsi sfruttare e per il quale ricevere un salario; se il posto di lavoro non c’è, il proletario fa la fame, vive nella miseria più nera.

 

17) I proletari, in tempo di pace, per sopravvivere sono costretti a vendersi ai capitalisti; irreggimentati nelle fabbriche e nelle aziende più diverse, ma sempre immersi nell’insicurezza perché, alla minima oscillazione del mercato o al minimo cambio di interessi dei capitalisti, fioccano i licenziamenti, si abbattono i salari, si finisce sul lastrico. In tempo di guerra, si viene irreggimentati nell’esercito e nelle produzioni di guerra; si viene trasformati in carne da macello, sia che si faccia parte delle forze armate sia che si rimanga nelle retrovie come lavoratori. La guerra in epoca imperialista non si svolge più nello scontro tra eserciti, nella guerra di trincea. La guerra coinvolge sempre di più la popolazione civile; sono previsti bombardamenti a tappeto, massacri, uso dei gas e di bombe chimiche e batteriologiche o nucleari, come ad Hiroshima e Nagasaki. Quel che i colonialisti europei facevano lontano dalle proprie metropoli, in Africa, in Asia, in Medio Oriente, in America Latina, distruggendo interi villaggi e massacrando interi popoli, nella guerra moderna l’imperialismo l’ha trasferito nelle metropoli; si massacrano i civili... per demoralizzare e indebolire i soldati al fronte. E così si è usata la bomba atomica americana per piegare il Giappone e costringerlo alla resa; bombardando nel 1945 Dresda e radendola al suolo si inducevano i tedeschi ad arrendersi, mentre la distruzione di Varsavia nel 1944 da parte dei tedeschi, per sedare la rivolta polacca contro di loro, veniva osservata, senza intervenire, da poca distanza dalla truppe sovietiche in attesa che i tedeschi finissero il lavoro sporco per poi occupare Varsavia con molta minore resistenza da parte polacca. Esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a bizzeffe, ma già soltanto questi mostrano come nella guerra imperialista niente del vantato “onore militare” dei generali e degli strateghi dell’Ottocento è salvo.

 

18) La propaganda di guerra che la borghesia diffonde ha sempre per obiettivo di piegare il proprio proletariato all’unione nazionale. In Russia, prima di invadere l’Ucraina, si continuava a dipingere il governo di Kiev come un governo “nazista” che voleva eliminare la popolazione russofona che abitava da sempre in Crimea e nel Donbass; cosa di fronte alla quale la Russia non poteva restare a guardare. Infatti nel 2014 la Russia occupa miltarmente la Crimea e sostiene i gruppi filorussi del Donbass nel costituire delle repubbliche popolari autonome nelle province di Luhans’k e di Donec’k. In questi 8 anni è continuata quella che i media hanno chiamato una “guerra a bassa intensità” con cui l’esercito ucraino tendeva a riprendersi il territorio delle due province del Donbass che si erano autoproclamate repubbliche popolari, mentre le milizie armate di queste due repubbliche filorusse respingevano gli attacchi. Nello stesso periodo una parte della popolazione russofona rimasta nella parte del Dobass controllata dall’esercito ucraino era costretta a ripararsi in Russia per sfuggire alla repressione. Nello stesso tempo, dopo la cacciata del presidente filorusso Janukovyč in seguito alle manifestazioni violente dell’Euromaidan, alla presidenza viene eletto Porošenko, oligarca ucraino, ex ministro del commercio e dello sviluppo economico sotto la presidenza di  Janukovyč ed ex dirigente del consiglio della Banca Nazionale Ucraina. Lascia al successore Zelens’kyi un’impronta fortemente nazionalista; il suo motto è stato “armiia, mova, vira” (esercito, lingua, fede), perché ha usato l’esercito per far arretrare  i filorussi del Donbass in un territorio più a est nelle due province autonome, perché ha privilegiato la lingua ucraina contro la lingua russa e perché ha incentivato la separazione della chiesa ortodossa ucraina dalla chiesa ortodossa russa. Si è fatto promotore dell’associazione dell’Ucraina all’Unione Europea, mentre promulgava leggi contro la propaganda russa e comunista, prevedendo un riconoscimento a chiunque avesse combattuto per l’indipendenza dell’Ucraina durante il secolo XX, compreso l’Esercito Insurrezionale Ucraino che ha preso parte allo sterminio degli ebrei in Ucraina e al massacro di migliaia di polacchi durante la seconda guerra mondiale. Non fa specie, quindi, che nell’entourage anche di Zelens’kyi vi siano delle guardie del corpo ex naziste.

 

19) Facili dunque i pretesti per la Russia per intervenire militarmente in Ucraina. Cosa che avviene già nel 2014 in Crimea, a difesa del referendum che ha dato il 90%  dei voti per la sua annessione alla Russia, e che avviene, dopo aver riconosciuto ufficialmente le due repubbliche popolari di Luhans’k e di Donec’k, dal 24 febbraio di quest’anno con la preparata invasione sia da est, sia dalla Crimea e quindi anche dal Mar Nero, e sia dal nord protetta dalla Bielorussa, stretta alleata di Mosca. Altro pretesto: i governi di Kiev non hanno mai applicato gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015, controfirmati dai delegati ucraini e russi, inseriti nelle risoluzioni dell’ONU e alla presenza dei delegati dell’OSCE. In realtà, è un’ulteriore dimostrazione dell’inefficacia delle risoluzioni dell’ONU: non sono che carta straccia.

Che cosa vuole ottenere l’imperialismo russo da questa operazione militare? Certamente non l’annessione dell’Ucraina alla Russia, ma un governo, se non proprio filorusso come quello bielorusso di Lukašenka, per lo meno non membro della Nato e possibilmente non membro dell’Unione Europea. Alla fine di un’operazione militare speciale – come l’ha chiamata Putin – in realtà una guerra vera e propria che potrebbe durare ancora qualche mese, visto il sostegno che l’attuale presidenza ucraina ha ottenuto dagli Stati Uniti e dall’Europa. E’ stato ribadito molte volte che né Washington, né Londra, né Parigi, né Berlino, né Roma e nessun altro paese dell’Unione Europea intendono “morire per l’Ucraina”, mentre la Cina sta a guardare. Ciò che interessa a tutte le cancellerie, da Mosca a Washington e a tutte le altre, è la preparazione del proprio proletariato a situazioni di guerra guerreggiata in cui la compattezza nazionale diventa un punto discriminante. Più la guerra mostra le atrocità che ogni belligerante applica per offendere e per difendersi, e più ogni potere borghese ha bisogno di coesione nazionale. Oggi in Russia, la coesione nazionale è stata cercata utilizzando la propaganda “antinazista” nei confronti del governo di Kiev e del pericolo di invasione della Nato in territorio russo. In Ucraina, la coesione nazionale è stata cercata con la classica propaganda del paese aggredito, della difesa della patria e dell’integrità territoriale, mobilitando non solo il solito nazionalismo, ma soprattutto l’eroismo di un popolo costretto a far fuggire le proprie donne e i propri figli dagli incessanti bombardamenti e a trasformare ogni città, ogni villaggio, in una trincea, in una barricata contro un nemico piombato all’improviso alle porte di casa.

Ma la stessa cosa succede in tutti i paesi d’Europa nei quali i vari governi stanno usando gli orrori della guerra in Ucraina, filmando con insistenza ogni cratere provocato da un missile, ogni palazzo colpito dall’artiglieria, ogni scantinato in cui la gente corre a ripararsi, per far vivere in diretta la paura della guerra. Come fino ad oggi hanno fatto rispetto al Covid-19, con bollettini di guerra sui contagi, sui ricoveri, sui decessi, così fanno con l’attuale guerra in Ucraina, come se fosse l’unica guerra degna di essere documentata, ripresa, descritta, commentata. Si cerca in questo modo di sollecitare nelle menti dei proletari un sentimento di rivalsa contro un nemico visibile, riconoscibile, in questo caso russo, la cui brutalità nel bombardare le città deve far dimenticare le brutalità quotidiane di una società in cui si muore tutti i giorni sui posti di lavoro, si viene licenziati dalla sera alla mattina, si subiscono soprusi, vessazioni, violenze continuamente in perfetto tempo di pace, in piena democrazia e “libertà”.  La devastazione di Mariupol deve far dimenticare la devastazione permanente dell’ambiente in cui viviamo, deve far dimenticare le bombe a grappolo che i paesi super democratici hanno sganciato in Kosovo contro i serbi e le bombe al fosforo usate a Falluja. Come se le brutalità e i massacri, che il capitalismo si porta appresso con sempre maggior violenza da più di centosettant’anni non fossero avvenuti.

 

20) Tutta questa propaganda di guerra è preparatoria ad una guerra mondiale a cui le potenze imperialistiche vanno inesorabilmente incontro. I grandi mezzi che la borghesia usa per questa propaganda confondono e annebbiano le menti; i proletari sono disorientati, paralizzati, si fanno iniettare enormi dosi di patriottismo, di nazionalismo, di collaborazionismo senza accennare ad una lotta minimanente difensiva; sono senza gli anticorpi che solo la lotta di classe può generare. Come un enorme gregge viene condotto di volta in volta, incosciente, ad accettare di brucare dove e quanto il padrone-pastore vuole. Ma la borghesia imperialista è più esigente di quel che si pensa: vuole che il proletariato partecipi, militi nelle file di una democrazia guerrafondaia convinto di lottare per la “libertà”, per un “futuro migliore”, per una società “più giusta”, per la pace! E questa esigenza la può soddisfare alla condizione che il proletariato, perlomeno la sua grande maggioranza, collabori, metta il suo lavoro, la sua mente, le sue braccia, la sua vita al servzio della patria; il proletariato che la storia stessa ha dimostrato essere senza patria, deve trasformarsi in un accanito patriota... E se per ottenere questo risultato la borghesia deve mostrarsi umanitaria, ecco che prontamente – dacché respingeva dai propri confini gli immigrati dall’Africa o dall’Oriente, alzava muri e reticolati, con guardie pronte a sparare e a lasciarli morire di fame e di freddo in montagna o di sete e di caldo nei deserti, o ad annegare in mari che da vie di salvezza si trasformavano in freddi e profondi cimiteri – apre le porte ai profughi ucraini, trova le risorse per accoglierli, dar loro da mangiare, documenti utili per andare in qualsiasi paese vogliano, un tetto per dormire, un ospedale dove curarsi, una scuola dove mandare i propri figli e un campo dove giocare.

Tutto quel che è stato negato per decenni ai migranti, che scappavano anch’essi da guerre devastanti, dalla miseria e dalla fame, provocate dallo stesso capitalismo, oggi viene offerto “umanitariamente” ai nuovi migranti provenienti dall’Ucraina. Sarà perché quelli avevano la pelle scura o gialla e questi invece la pelle bianca? Sarà perché quelli si portavano, e si portano, appresso un temperamento bellicoso, trasmesso da una generazione all’altra, grazie al quale sono sopravvissuti per decenni alla fame, alla miseria e alle guerre, mentre gli ucraini di oggi non hanno fatto in tempo a conoscere la brutalità del capitalismo allo stesso modo in cui l’hanno conosciuta in Africa, nel Medio Oriente o in Asia? Sarà perché alcuni milioni di braccia di giovani donne e di ragazzi, in condizioni di dover accettare qualsiasi lavoro pur di sopravvivere, sono utili a rimpiazzare una forza lavoro autoctona non così duttile? Sarà perché in questo modo i proletari autoctoni si convincono meglio a distinguersi da quelli che stanno peggio di loro perché hanno perso tutto e, quindi, a forme di collaborazione con la borghesia tipiche dell’aristocrazia operaia, rafforzando così il legame sociale e politico che li incatenano alle sorti del capitalismo nazionale? Probabilmente sono tutte queste cose messe insieme; il che non presenta un quadro edificante del proletariato europeo che potrebbe vantare trascorsi di lotta rivoluzionaria che ha fatto tremare il mondo, mentre oggi è il mondo borghese che fa tremare il proletariato...

 

(21) Nonostante una situazione così deprimente, e così sfavorevole per il proletariato, noi comunisti rivoluzionari siamo certi che la classe proletaria si risveglierà dal lungo sonno in cui è piombata. E si risveglierà perché sarà la crisi di guerra che si avvicina a terremotarle lo stomaco, le viscere, spingendola, sebbene inconsciamente, sulla strada della lotta classista perché sarà praticamente, concretamente, materialmente l’unica strada nella quale si riconoscerà viva, si riconoscerà capace di lottare per i propri interessi di classe e di solidarizzare coi proletari di ogni altra categoria, settore, genere, nazione in una lotta che, oggi più che mai, si presenta come una lotta senza confini, una lotta senza patrie, una lotta internazionale.

Allora le classiche parole comuniste del disfattismo rivoluzionario, cioè della lotta innanzitutto contro la propria borghesia, della fraternizzazione con i proletari-soldati dei paesi nemici, della solidarietà di classe, auumeranno il giusto significato: saranno parole che camminano sul terreno della lotta classista, lotta che farà capire ai proletari che la loro forza non sta nella scheda elettorale, non sta nella delega ai politicanti  borghesi e ai parlamentari perché si occupino della vita dei proletari, non sta nelle pratiche di una democrazia ormai putrefatta e che serve soltanto per intossicare il proletariato; lotta che non sta nella richiesta di pace a coloro che preparano la guerra imperialista e i massacri che la guerra imperialista comporta, ma nelle mani e nei cuori di una classe che col suo lavoro produce la vera ricchezza sociale, i beni che servono davvero ai bisogni della vita umana e non alle esigenze dei mercati.

Su questa strada i proletari non solo faranno la necessaria esperienza per affinare e sviluppare la propria lotta, ma incontreranno il partito di classe, lo riconosceranno come il loro partito, come la loro guida, come la loro arma perché la lotta che ingaggeranno con le forze della conservazione sociale non disperda preziose energie e colpisca il nemico di classe là dove i colpi fanno più male – nei profitti, nel controllo sociale, nella collaborazione di classe, per poi, in un crescendo dialettico, attaccare i grandi bastioni della difesa borghese: lo Stato, le istituzioni politiche, economiche, finanziarie, amministrative, militari.

La pace, ossia la fine delle operazioni belliche che caratterizzano lo scontro fra le potenze imperialistiche, la si può ottenere solo a rivoluzione proletaria vittoriosamente installata al potere politico, anche a costo di sacrifici economici e territoriali – come avvenne, subito dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, a Brest-Litovsk nel 1918, dimostrando che il proletariato vuole realmente la pace, ma deve prepararsi a condurre una guerra di difesa del potere conquistato perché la borghesia appena abbattuta in un paese riorganizza le sue forze con l’aiuto delle borghesie degli altri Stati nel tentativo di restaurazione. Perciò la grande parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe, in guerra civile, non prevede la sospensione della battaglia appena conquistato il potere, ma la conduzione di un’altra battaglia, quella della difesa della rivoluzione vittoriosa e dell’aiuto non solo politico e economico, ma anche militare, ai proletari degli altri paesi per la rivoluzione contro le loro borghesie nazionali.

I proletari comunisti non si illudono, e non illudono le grandi masse che, a insurrezione rivoluzionaria vittoriosa corrisponderà la conquista della pace duratura. E’ la classe borghese che, una volta battuta, non si dà mai per vinta perché è anch’essa una classe internazionale ed ogni borghesia nazionale, in caso di rivoluzione proletaria, può contare sull’aiuto e il sostegno politico, economico e militare di tutte le altre borghesie. E’ successo con la Comune di Parigi, con la rivoluzione proletaria in Russia, succederà anche domani a fronte di qualsiasi potere proletario conquistato.

Dopo aver abbattuto il potere politico borghese, la cui difficoltà è proporzionale alla forza economica della borghesia con cui ci si scontra, il compito della rivoluzione proletaria non è terminato, è appena cominciato, perché il vero fine della rivoluzione proletaria non è solo di avvenire a livello internazionale, ma è di seppellire il modo di produzione capitalistico, i suoi rapporti di produzione e di proprietà e di trasformare l’economia, non di un solo paese, ma di tutti i paesi, dall’economia capitalista all’economia socialista e, da qui, all’economia comunista. E’ un percorso storico che non si conclude nel giro di qualche mese o di qualche anno come pensano gli anarchici, sebbene lo sviluppo tecnico e industriale dell’economia accelererà oggettivamente il suo svolgimento. E’ un percorso di lotta, con avanzate e rinculi, con successi e insuccessi, con distruzioni e ricostruzioni; ma è un percorso segnato dallo stesso sviluppo storico del capitalismo nel quale le crisi economiche e di guerra mettono inesorabilmente la classe proletaria internazionale di fronte al dilemma: guerra o rivoluzione.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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