Che giornata della donna è l'8 marzo 2022 ?

Contro la guerra economica e sociale che la borghesia di ogni paese conduce contro il proletariato emminile e maschile, e contro la guerra guerreggiata che l’imperialismo non è in grado di fermare

(«il comunista»; N° 172 ; Marzo 2022)

 Ritorne indice

 

 

L’oppressione contro le donne, con lo sviluppo del capitalismo, aumenta e si approfondisce. E’ un’oppressione che si estende su tutti gli aspetti della vita. La vita che si svolge fra le quattro mura domestiche è il mondo tipico dell’oppressione femminile anche nei paesi capitalistici avanzati nei quali la donna può studiare, lavorare, “fare carriera”, diventare imprenditrice. Nei paesi capitalisti avanzati la donna è stata attirata nel “mondo del lavoro” che, secondo l’ideologia borghese, sarebbe la fonte della sua “emancipazione”. Emancipazione da che cosa?, dalle quattro mura domestiche dove per secoli è stata relegata, costretta ad occuparsi dei bisogni quotidiani della “famiglia”, quindi dei mariti, dei padri, dei figli, dei nipoti. Con il passare dei decenni e, certamente, con l’ingresso delle donne nelle lotte civili sollecitate dal “mondo del lavoro” in cui sono state inserite dal capitale stesso che, in questo modo, aumentava la concorrenza tra proletari – perché i lavoro delle donne è stato sempre pagato meno del lavoro dei maschi – le donne hanno effettivamente ottenuto una considerazione a livello sociale che in precedenza era inimmaginabile, tanto era contrastata fortemente dalla stessa ideologia borghese che continuava a considerare la donna un essere inferiore, un oggetto del piacere maschile, uno strumento necessario a “dare dei figli”, possibilmente “maschi” grazie ai quali assicurare un’eredità fisica e il nome di una famiglia che veniva identificata soltanto attraverso la linea maschile.

Il “mondo femminile”, che lo sviluppo del capitalismo ha infranto, distruggendo la famiglia con gli stessi mezzi con i quali pretendeva di emancipare la donna – cioè con il lavoro salariato – ha mantenuto però una specie di idealizzazione; è stato sovrapposto al mondo della famiglia sia dalla religione, sia dalla società.

Ma il lavoro salariato è la tipica oppressione economica e sociale del capitalismo; se da un lato distrugge la famiglia strappando la donna dal lavoro domestico e dalla cura dei figli e degli anziani per sfruttare la sua forza lavoro nei processi di produzione e di valorizzazione del capitale, dall’altro lato porta la donna ad ampliare la sua sua visione sul mondo esterno alla famiglia, esterno alle quattro mura domestiche; la porta ad essere contaminata direttamente dalla lotta dei lavoratori salariati, a farsi coinvolgere da questa lotta, ad assimilarne le contraddizioni, la forza ed anche la debolezza di una lotta che può diventare il perno di una emancipazione non solo formale ma sostanziale. Una lotta che dimostra come sia la forza, e non il diritto, a poter modificare il tipo di rapporti sociali esistenti.

L’ingresso della donna nel mondo del lavoro salariato in che cosa l’ha cambiata? L’ha inevitabilmente coinvolta nella vita sociale e politica, e questo è stato ed è un passo notevole nella sua possibilità di non considerarsi più, e di non essere considerata, ai margini dell’ambito in cui si prendono le decisioni che ricadono anche sulla vita domestica, sulla vita familiare, sul futuro dei figli. Ma il mondo “esterno” alla famiglia è un mondo che non dipende più dalla famiglia, dalla sua struttura interna, dalla sua tenuta e dalla sua continuità nel tempo, dalla sua volontà di resistere al di là delle sue contraddizioni; è il mondo del capitale, in cui ogni rapporto sociale, ogni rapporto familiare dipende dalle leggi del capitalismo, dal suo bisogno di trasformare ogni attività umana, ogni espressione di vita in merce; ogni prodotto, ogni cosa ed ogni essere umano è diventato articolo di commercio, di compra-vendita. Dove sta l’emancipazione?

La “libertà” di vendersi al miglior offerente vale sia per i maschi che per le femmine: la mercificazione di qualsiasi atto umano inizia con l’obbligo in cui il proletario è costretto a vendere la sua forza lavoro ad un padrone. E’ chiaro che il padrone, il possessore di tutti i mezzi di produzione e di tutta la terra, diventa anche il padrone della produzione di esseri umani, della riproduzione della specie. La donna, oltre ad essere la procreatrice di esseri umani grazie all’apporto episodico del maschio, oltre ad essere – per il capitale, e quindi per la borghesia – lo strumento per la continuità di quella specie particolare di esseri umani che chiamiamo padroni e lavoratori salariati, subisce nello stesso tempo la stessa sorte di qualsiasi altro mezzo di produzione esistente nella società capitalistica: la sorte della sovraproduzione. Nella misura in cui i mezzi economici del capitalismo sviluppato entrano in crisi perché la loro produzione non trova più sbocchi di mercato, anche i mezzi di produzione di esseri umani, le famiglie e le donne in particolare, entrano in crisi perché il loro prodotto specifico – i figli – non trovano più sbocco nel mercato del lavoro, quindi nella società. E, come succede ogni volta che l’economia capitalistica va in crisi di sovrapproduzione, il sistema borghese distrugge una parte – sempre più grande, proporzionalmente alla sua capacità produttiva – della produzione e dei mezzi di produzione, da un lato lasciando deperire e marcire mezzi di produzione che non sono più redditizi, dall’altro distruggendo una parte considerevole di prodotti che rimangono invenduti per far posto, in un tempo successivo, a nuovi cicli di produzione destinata a tornare nei mercati con profitto. Le guerre, come dimostrano gli ottant’anni e passa dall’ultima guerra imperialista mondiale, sono uno dei mezzi più usati per far piazza pulita delle merci invendute e che non danno più profitto. E tra queste merci il capitalismo considera anche le braccia da lavoro, i lavoratori salariati, le loro famiglie, i loro figli. Troppe bocche da sfamare, e troppe braccia che possono rivoltarsi contro un potere che per salvare i propri privilegi sociali e il sistema di produzione e di proprietà che li difende, è disposto a fare stragi di prodotti e di esseri umani.

La guerra scoppiata tra Russia e Ucraina ha riportato sotto il naso delle popolazioni europee una dura verità: il sistema capitalistico non è riformabile, non è modificabile, non può essere traformato da un sistema che vive soltanto dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che sta in piedi soltanto usando ogni tipo di violenza, in un sistema armonico, “umano”.

Le immagini delle gigantesche masse di civili che, negli ultimi 11 giorni di guerra, fuggono dalle città ucraine bombardate e che le tv di tutto il mondo hanno riportato, mostrano la migrazione forzata delle donne di ogni età, con i loro figli e i familiari più anziani, mentre gli uomini – sottoposti a legge marziale – restano e devono restare a combattere per la patria; il proletariato, maschile e femminile è chiamato per l’ennesima volta a dare il proprio sangue e a subire ogni genere di violenza per difendere la propria borghesia, sul versante ucraino come sul versante russo, non importa chi è stato l’aggressore o l’aggredito: la legge della guerra borghese non distingue in termini di diritto, ma solo in termini di forza.

Quella stessa patria che li ha sempre sfruttati e schiacciati, e che li ha illusi di poter accedere ad un benessere futuro alla condizione di sottostare pacificamente alle esigenze del capitalismo nazionale, è la stessa patria che oggi li costringe a combattere contro un nemico che veste una divisa diversa, che parla una lingua diversa o magari la stessa lingua, che è entrato in casa coi carri armati e che abbatte case, luoghi di lavoro, magazzini e raccolti affamando un’intera popolazione. E’ la stessa patria che mostra il volto della vittima aggredita, quando è lei stessa ad essere il luogo dove il capitalismo, nella sua declinazione nazionale, esercita con tutta la violenza economica e sociale di cui è capace il suo potere che non intende sia messo in discussione anche se il “nemico”, più forte, straccia i confini e abbatte le porte di casa.

Le donne che fuggono dalla guerra vogliono salvare non tanto se stesse quanto i propri figli e i milioni di passeggini con cui li trasportano lontano dai bombardamenti, in altri paesi in cui per ora non c’è la guerra, sono lì a dimostrare non solo l’attaccamento alla vita, ma la forza di reagire ad una violenza inimmaginabile soltanto un paio di settimane prima. Fuggono, con il cuore che sanguina, perché hanno dovuto abbandonare tutto, casa, familiari, lavoro; in questa fuga non si portano appresso soltanto la disperazione e la speranza di poter tornare un giorno nei luoghi da cui sono scappate, si portano appresso anche la speranza – come tutti i milioni di migranti che hanno tentato di vivere in Europa – di vivere in pace, di avere un futuro.

Ma la borghesia non lascia nulla al caso. Utilizza la massa di queste donne in fuga dai bombardamenti come un vettore della sua ideologia: apre le porte dei suoi confini in Polonia, in Moldavia, in Slovacchia, in Romania, perfino in Ungheria e, naturalmente, in Italia, in Germania, in Francia, in Spagna, per accogliere una popolazione lavoratrice, guarda caso di razza bianca, che nei paesi in cui è migrata non ha mai dato problemi, non si è mai ribellata, anzi si è facilmente integrata accettando anche i lavori più umili che le proletarie europee sono mal disposte a svolgere. E così la concorrenza tra proletarie trova un altro canale in cui scorrere. Inoltre, la massa di profughe viene utilizzata come esempio di donne capaci di sopportare qualsiasi disagio, qualsiasi situazione pericolosa, qualsiasi rischio per la propria vita e per la vita dei propri figli, all’insegna della pace, della patria, della famiglia; alle donne che fuggono fanno da contraltare giovani donne che rimangono a combattere contro l’invasore.

Democrazia, ecco il mantra sbandierato con insistenza da ogni angolo della propaganda borghese. L’invasore è sempre il cattivo dittatore, il totalitario, il barbaro, il nemico per antonomasia. Ma la democrazia di oggi, la democrazia imperialistica non è che un velo al totalitarismo di base che caratterizza il capitalismo in ogni angolo del mondo, perché nessun essere umano può sfuggire alle sue leggi: se vuol vivere deve o essere sfruttato nel lavoro salariato, o sfruttare il lavoro altrui. O diventa proletario, o diventa padrone. E la lotta per sopravvivere si ripropone in ogni momento come una lotta per sfruttare il lavoro altrui – quindi è una lotta tra sfruttatori, tra borghesie – o per difendersi da quello sfruttamento – quindi è una lotta contro la borghesia dominante. E’ la lotta tra proletari e borghesi, una lotta che esiste da quando la borghesia capitalistica ha vinto sulle società precedenti ed ha permeato il mondo intero con il suo progresso industriale, col suo sviluppo e col suo sistema finanziario, piegando ogni popolazione, non solo quelle più deboli ed emarginate dai grandi traffici commerciali, alle sue leggi.

Nonostante il progresso industriale e il coinvolgimento delle donne nella produzione, nella politica, nell’impreditoria, nei governi, la donna rappresenta insieme il punto debole e il punto di forza della lotta sociale.

Punto debole, perché subisce comunque un’oppressione di genere che risale ai tempi antichi, ai tempi delle prime società divise in classi e che si è trasmessa senza soluzione di continuità da una società di classe all’altra, fino al capitalismo. Punto debole perché nell’organizzazione sociale borghese continua a subire, anche se lavora come gli uomini, l’oppressione domestica, la cura della casa e dei figli. Punto debole perché la sua tendenza naturale è di salvare la vita dei figli che partorisce e che alleva, e che vuol dire, in generale, salvaguardare la procreazione della specie; una lotta che nella società divisa in classi non è più una lotta collettiva, ma una lotta individuale. Punto di forza, perché è proprio la sua tendenza naturale a salvaguardare la procreazione della specie che può dare alla donna un compito sociale di primaria importanza in una società in cui la collettività primeggia sugli individui, e che nella società capitalistica, invece, viene utilizzata per imprigionarla ancor più alla singola famiglia, alla vita individuale e domestica.

E’ nella lotta politica che la donna proletaria può riconoscere un suo compito nella storia delle società umane; non nella lotta politica condotta, influenzata e organizzata dalla classe dominante borghese, che ha tutto l’interesse a mantenere la donna sottoposta alla classica doppia oppressione, domestica e salariale, ma nella lotta politica di segno proletario, ossia della lotta che gli sfruttati nel lavoro salariato sono spinti a fare contro gli sfruttatori del lavoro salariato. La donna proletaria, oggettivamente e storicamente, ha il suo posto nella lotta del proletariato intero, senza distinzioni di genere, di età, di nazionalità o di razza. Ma riconoscere questo suo posto è la cosa più difficile che deve fare, perché la pressione economica e sociale del capitalismo, rende molto difficile anche al proletariato maschile il riconoscere i propri interessi di classe nettamente distinti da quelli della borghesia, rende ancora più difficile la rottura degli schemi sociali e politici in cui la donna è stata imprigionata dall’attuale società.

Resta però il fatto che le stesse contraddizioni sociali del capitalismo, e le sue stesse crisi, portano e porteranno i proletari, uomini e donne, a imbracciare non più la causa di una patria, di una democrazia, di una civiltà che nella realtà sono simboli di una disumanizzazione totale, sia in pace che in guerra, ma la causa di una emancipazione reale, di una emancipazione dalla mercificazione della vita umana e da ogni sua attività, di una emancipazione che prenderà il segno esclusivamente proletario perché la sua rivoluzione è l’unica via d’uscita dal capitalismo e da una società che ha ridotto uomini e donne a merci che possono essere vendute, comprate, buttate o distrutte a seconda degli interessi del profitto capitalistico.

La solidarietà che oggi le donne ucraine che fuggono dalla guerra borghese ricevono ai confini dei paesi europei al momento non in guerra, è una solidarietà che sul piano immediato si distingue nettamente dal modo in cui i migranti africani, mediorientali e asiatici hanno ricevuto e ricevono ancora dagli stessi paesi europei che oggi si prendono il lusso di far vedere ai propri proletari di essere “buoni”, “umani” verso proletari che non portano disordini sociali ma che possono essere sfruttati a loro volta come forza lavoro sottomessa. E’ certamente una “solidarietà” temporanea, perché la guerra che manda all’aria l’Ucraina è una guerra che avrà conseguenze lunghe nel tempo, che aumenterà il disordine imperialistico scoppiato con il crollo dell’Urss, che rafforzerà inevitabilmente i nazionalismi di ogni paese più di quanto non sembri oggi; è una solidarietà che scomparirà ai primi tentativi proletari dei paesi europei di scendere in lotta con mezzi e metodi della lotta classista. Allora la borghesia tratterà i proletari con la repressione abituale, tanto più se di nazionalità diverse.

La vera solidarietà che contribuisce alla difesa delle condizioni di vita delle proletarie ucraine oggi, come di quelle irachene, siriane, afghane, somale, libiche, o di qualsiasi altro paese scolvolto dalle guerre delle borghesie imperialiste, è soltanto la solidarietà proletaria che poggia la sua forza sulla lotta della classe proletaria per i propri interessi di classe. La solidarietà borghese e piccoloborghese non è che una foglia di fico alla reale violenza sociale che permea l’intera società capitalistica.

 

Contro la guerra borghese e imperialista, lotta di classe!

Per l’unità dei proletari, uomini e donne, di ogni paese nella comune lotta per l’emancipazione dal capitalismo!

Per la ripresa della lotta di classe in Europa e nel mondo!

 

7 marzo 2022

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice