Rapporti alla riunione generale di Milano del 14-15 maggio 2022

Nella continuità del lavoro collettivo di partito guidato dalla bussola marxista nella preparazione del partito comunista rivoluzionario di domani

(«il comunista»; N° 173 ; Aprile-Giugno 2022)

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Dopo due anni di forzata clausura dovuta alle misure restrittive che i governi europei hanno adottato nella loro presunta "lotta al Covid-19", ci siamo finalmente riuniti de visu. Il controllo sociale instaurato dalle borghesie di ogni paese, con il pretesto del coronavirus Sars-CoV-2, tendeva ad imprigionare il proletariato nelle maglie di una collaborazione di classe atta a far fronte alle recessione economica che batteva alle porte già prima dello scoppio della pandemia e ad impedire agli strati proletari più combattivi di esprimere, attraverso la loro lotta, la spontanea reazione a condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili, come ad esempio i braccianti immigrati, i lavoratori della logistica, i riders.

 

Le grandi borghesie imperialiste, in una situazione di crisi di sovrapproduzione incipiente, non potendo fermare in alcun modo i fattori di crisi che il modo di produzione capitalistico genera ciclicamente, hanno colto al volo l'occasione dell'epidemia di Sars-CoV-2 per saggiare la capacità delle proprie macchine statali nell'applicare delle  misure  atte ad irreggimentare le grandi masse attraverso metodi autoritari di governo come i lockdown, l'obbligo vaccinale, il green pass e la sospensione dal lavoro e dal salario per i non vaccinati, metodi caratteristici di quell'autoritarismo che i tempi "di guerra" richiedono. Se con la guerra guerreggiata le industrie di armamenti la fanno da padrone, in tempo di pandemia sono le case farmaceutiche ad intascare a man salvagiganteschi profitti; in entrambi i casi, la "difesa della patria" o la "difesa dal coronavirus" - contro un nemico visibile nel primo caso, invisibile nel secondo - per la borghesia dominante è basilare che le grandi masse proletarie rispondano senza resistenze agli ordini, nelle fabbriche come nella vita sociale. Va da sè che in "tempo di guerra" ci vogliono governi forti, in grado di prendere rapidamente decisioni impopolari, scavalcando i dibattiti parlamentari così cari ai partiti democratici e ai collaborazionisti, ma che sono d'intralcio. In questo modo si svela come la democrazia tanto decantata, posta come valore insopprimibile e per la difesa della quale vengono giustificati autoritarismi di ogni tipo, rivesta un ruolo esclusivamente mistificatorio, utile soltanto ad illudere il popolo bue. La borghesia non metterà mai gli interessi del "popolo" davanti ai suoi interessi di classe, tanto meno gli interessi del proletariato. La collaborazione politica e sociale che chiede e, in deterrminati periodi di crisi, pretende e impone, serve a rafforzare il suo dominio di classe; il lubrificante della collaborazione di classe è rappresentato dagli ammortizzatori sociali che, in periodo di espansione economica vengono distribuiti a tutti gli strati della popolazione, e del proletariato in particolare, mentre in periodi di crisi vengono assicurati soltanto a strati sociali selezionati, tra i quali, in primis, gli strati dell'aristocrazia operaia perché sono quelli più affini allo stile di vita piccolo-borghese e perché hanno un alto grado di influenza sulle grandi masse proletarie rappresentando idealmente una scala sociale che ogni proletario, individualmente, potrebbe salire. Gli ammortizzatori sociali, da un lato, hanno svolto la funzione di attenuazione delle tensioni sociali, dall'altro, sono stati la linfa del collaborazionismo interclassista. Non neghiamo certo che le lotte operaie rivendicanti tutta una serie di misure economiche e sociali indirizzate a stabilizzare la loro vita lavorativa quotidiana non abbiano avuto un peso nelle decisioni che le borghesie hanno preso nel campo della loro politica sociale. Ma non va dimenticato che è stato in realtà il fascismo ad attuare, istituzionalizzandole, le richieste che il riformismo socialista avanzava da tempo. E le ha attuate dopo aver sconfitto le masse proletarie nella guerra fra le classi, ed aver distrutto le loro organizzazioni di difesa economica e sociale. Solo dopo questa sua vittoria, la borghesia dominante, attraverso  le forze di conservazione sociale, e fasciste in particolare, ha adottato la politica degli ammortizzatori sociali allo scopo di attirare a sé le masse proletarie già piegate sul fronte della lotta fra le classi, tacitando le loro esigenze immediate. Le democrazie imperialiste, post-fasciste, non hanno fatto altro che riprendere la stessa politica sociale per rafforzare la collaborazione di classe che è stata, assieme alla forza dello Stato, l'arma vincente  che ha utilizzato la borghesia contro il proletariato. Ma le concessioni che fa la borghesia non sono gratuite; hanno un costo, sia per la borghesia che per il proletariato. Per la borghesia vuol dire adottare una limitazione nella sua estorsione di plusvalore dal lavoro salariato, e perciò una limitazione nell'accumulare profitti a vantaggio della collaborazione di classe e della pace sociale. Per il proletariato il costo è rappresentato dall'aumento della concorrenza tra operai, e quindi della più ampia flessibilità rispetto alle esigenze della produzione capitalistica a seconda dei cicli di espansione o di recessione. E quando le masse proletarie mostrano in generale di essersi piegate  alle esigenze del capitale, non saltuariamente ma durevolmente, allora la borghesia passa a ritirare progressivamente le concessioni che un tempo aveva elargito. Soprattutto in tempi di crisi. Ed è ciò che avviene ormai da quarant'anni a questa parte, da quando l'economia capitalistica mondiale, raggiunto l'apice dell'espansione post-seconda guerra imperialista mondiale nel 1975-1980, ha iniziato ad avere un andamento sussultorio che l'ha portata a subire crisi economiche e finanziarie sempre più pesanti.    

Nel corso dello sviluppo storico dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale in avanti, le borghesie, in un'Europa distrutta dalla guerra, spinte per loro natura ad una concorrenza sempre più decisa, ma bisognose di grandi quantità di capitali per la "ricostruzione post-bellica", non potevano che vendersi agli Stati Uniti d'America e alla "dittatura del dollaro", rafforzando in questo modo un'alleanza che funzionò nella guerra contro la Germania, l'Italia e il Giappone, e che si impose come necessario blocco occidentale antisovietico viste le mire imperialiste di Mosca sui paesi dell'Europa dell'Est e dell'Asia.

Ma, poggiando sul formidabile sviluppo industriale dei paesi europei, e della  Germania in particolare - pur se spaccata in due sotto occupazione militare dei due blocchi imperialsiti contrapposti - e per necessità oggettive di concorrenza sui mercati internazionali (di cui il mercato "Europa" rappresentava sempre più un ghiotto boccone per ogni imperialismo), i paesi europei, all'interno dell'Alleanza Atlantica guidata da Washington, si organizzarono in una comunità economica europea che consentisse anche a loro di avvantaggiarsi di un mercato di cui, d'altronde, erano parte integrante.

Le rivalità economiche, finanziarie, commerciali e di dominio imperialistico, sia in Europa che in ogni altra parte del mondo, non sparivano certo col Mercato Comune Europeo, ma questa realtà economica, facilitata dalla contiguità di numerosi paesi altamente industrializzati, col tempo è andata assumendo un potere reale anche in termini monetari e in termini politici, sebbene politicamente l'Unione Europea non sia un'unità statale come gli USA, la Russia o la Cina.

E' la concorrenza capitalistica mondiale che, ad un certo punto dello sviluppo dei contrasti interimperialistici, ha spinto i più importanti paesi europei a stringere alleanze economiche, finanziarie, commerciali e politiche tali da sfidare la potenza di Sua Maestà il Dollaro emettendo una nuova moneta che rappresentasse in modo più diretto gli interessi del mercato europeo, l'euro. Una moneta che nel giro di vent'anni si è imposta soprattutto nel mercato europeo, ma che ha l'ambizione di avere un ruolo più rilevante sui mercati internazionali, cosa certo non facile per una moneta la cui vita finanziaria dipende non da un unico centro, ma dagli accordi che i più potenti poli economico-finanziari europei riescono o meno a trovare.

Il tallone d'Achille dell'euro lo si riscontra nelle transazioni internazionali. Ancor oggi il dollaro rappresenta il 62% come valuta di riserva contro il 20% dell'euro. E non va dimenticato che sul mercato delle materie prime, non solo energetiche, è il dollaro la moneta di riferimento. Per quanto l'Unione Europea tenti di darsi un ruolo politico pari a quello degli Stati Uniti o della Cina, rimane il fatto che le manca la forza dell'unità statale, sebbene non sia indifferente la forza dell'alleanza politica tra gli Stati europei.

Ma, come dimostrano i contrasti economici sempre pronti a scattare ogni volta che l'interesse nazionale dell'una o dell'altra potenza europea viene in qualche modo messo in pericolo, questa alleanza tra paesi europei è destinata ad entrare in contrasto non solo con l'alleanza più ampia e militare rappresentata dalla Nato (la cui conduzione americana non è mai stata messa in discussione), ma anche tra i paesi europei stessi che, come è logico che sia, hanno tra di loro pesi economici e politici molto diversi. Basti pensare alla Germania e agli alti e bassi della sua economia per capire come l'UE sia ciclicamente sul filo del rasoio: se l'economia della Germania è in buona salute, è in buona salute anche l'economia degli altri paesi europei che dipendono dai rapporti commerciali con lei e dalla sua forza concorrenziale nel mondo; se invece entra in difficoltà, allora ne risentono tutti quanti, benché in modo diverso, essendo costretti a rivolgersi ad altri mercati sia per le esportazioni che per le importazioni, mercati sui quali insistono da tempo ben altri protagonisti, Stati Uniti in testa.

Questo breve sguardo a livello generale serve per comprendere come, pur in un periodo in cui le stesse crisi economiche hanno spinto gli imperialismi occidentali a stringere tra di loro accordi ancora più stretti (ma sempre sotto il ricatto costante degli Stati Uniti, Trump docet), le leggi fondamentali del capitalismo non sono governabili nemmeno dalla potenza imperialistica più forte, e nemmeno da un ipotetico superimperialismo: i sempre più potenti fattori di crisi economiche e finanziarie congeniti al modo di produzione capitalistico - come la successione delle crisi dagli anni '80 del secolo scorso dimostra ampiamente - saranno i fattori che butteranno all'aria tutti i progetti di una futura pacifica convivenza mondiale tra i colossi imperialisti.

Le guerre mediorientali degli anni Ottanta-Novanta e le guerre jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso hanno fatto da contorno alla conquista da parte della Nato dei paesi dell'Est Europa, liberatisi dal tallone di ferro russo con il crollo dell'Unione Sovietica, ma del tutto impotenti a conquistare una "indipendenza" da Mosca se non infilandosi in una dipendenza diretta da Washington e dai suoi potenti soci inglesi, francesi e tedeschi.

E' in questo quadro che gli imperialisti atlantisti hanno tentato di "normalizzare" un Medio Oriente e un Nord Africa sottoposti a continui terremoti economici, politici e  guerraioli; e di insediarsi in Asia, a ridosso della Cina e dell'Oceano Indiano, in particolare in Afghanistan, col pretesto della lotta al terrorismo islamico. Ma, sia nel primo caso che nel secondo, la normalizzazione dell'imperialismo atlantista è fallita, ed è in seguito a questo fallimento che la Russia  ha tentato di uscire dalla stretta in cui veniva chiusa sul suo fronte occidentale, andandosi a riprendere, se non l'intera Ucraina, almeno la sua parte orientale più russofila.

La guerra, per l'ennesima volta, è il mezzo cui ricorre qualsiasi potenza imperialista sia per difendersi dalla concorrenza degli altri imperialismi, sia per conquistare nuovi mercati, cosa assolutamente necessaria per cercare di superare le continue crisi di sovraproduzione che attanagliano l'economia di ogni paese.

La guerra russo-ucraina è là a dimostrare che non è la volontà di un Putin o di uno Zelensky, oligarchi entrambi ed entrambi legati a filo doppio ad interessi capitalistici contrastanti, a "scatenare" una guerra che nessuno avrebbe voluto... Sono gli interessi dei rispettivi capitalismi nazionali che soffiano sulla guerra, a cui si aggiungono gli interessi convergenti verso l'uno o l'altro dei belligeranti da parte delle altre potenze imperialistiche che in questa guerra vedono, e fanno, affari di grande ampiezza sia nel corso della stessa guerra - più dura, più affari si fanno - sia nel suo dopoguerra, oltre a testare armamenti ad alta tecnologia e a gettare le basi politiche di futuri trattati ed alleanze.

La rivendicazione di una "sovranità territoriale" da parte delle piccole nazioni destinate a subire  aggressioni ed amputazioni territoriali da parte dei grandi mostri imperialisti, è una bandierina stinta; serve soltanto, assieme alla rivendicazione dei valori della democrazia e della civiltà, a rabbonire le masse proletarie, che nella guerra borghese sono schiavizzate nelle fabbriche e trasformate in carne da macello a difesa di interessi puramente borghesi, dunque capitalistici, grazie ai quali continueranno ad essere schiavizzate nel lavoro salariato e asservite a Stati che non hanno altra funzione che piegarle alle esigenze del rispettivo capitalismo nazionale.

Il lavoro che dedichiamo al corso mondiale dell'imperialismo, e che è stato tema di uno dei rapporti all'ultima riunione generale, serve appunto per confermare un andamento generale che il marxismo conosce bene e per il quale è utile andare a evidenziare determinati aspetti che richiedono necessarie spiegazioni.  

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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