Ottobre 1922: il fascismo «marciava» su Roma

(«il comunista»; N° 175 ; Dicembre 2022)

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Secondo l’agiografia mussoliniana, la «marcia su Roma» è l’emblema della «rivoluzione fascista» con cui l’Italia ritrovava un governo forte, unito e capace di portare il paese fuori dalle rovine della guerra e una coesione nazionale che le lotte classiste del movimento proletario avevano spezzato facendo imboccare al paese la pericolosa via della rivoluzione di fronte alla quale i governi borghesi del dopoguerra avevano mostrato una reale incapacità nel fronteggiarla.

Di fronte al pericolo della rivoluzione proletaria, la borghesia italiana le aveva tentate tutte sia sul piano sociale – soprattutto dopo l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920 e la costituzione del Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista –, con licenziamenti e repressione dei movimenti di piazza, sia sul piano politico, contando sull’opera conciliatrice e collaborazionista della Confederazione Generale del Lavoro e del Partito Socialista e, in parallelo, sulla contemporanea violenza reazionaria delle squadre fasciste, protette e coperte dallo Stato, che avevano il compito di colpire il movimento proletario e le sue organizzazioni immediate, le sue cooperative, i suoi giornali, le sedi dei suoi partiti, nelle città e nelle campagne.

Secondo la visione riformista, demoliberale e parlamentarista del Partito Socialista e della CGdL, l’uscita dalle gravi conseguenze economiche e sociali della guerra per una ritrovata pace sociale poteva essere data soltanto dalla graduale scalata alla conquista delle amministrazioni locali attraverso il sistema elettorale, e dall’uso democratico del parlamento in cui le «forze» socialiste avrebbero potuto prevalere seguendo la tattica suggerita dal riformismo classico (negoziare con il Re, i partiti degli industriali e degli agrari per ottenere miglioramenti nelle condizioni di vita e di lavoro proletarie senza intaccare l’economia nazionale che, dopo le distruzioni della guerra, aveva l’esigenza di riprendere rapidamente il suo corso). Questa visione vietava al Partito Socialista, pur diretto dalla corrente di «sinistra», di abbracciare, se non a parole, le grandi rivendicazioni rivoluzionarie lanciate al mondo dall’Internazionale Comunista – alla quale comunque era stato tra i primi partiti ad aderire – impedendogli di preparare e organizzare il proletariato a contrastare le violenze fasciste e quelle dell’esercito e della Guardia Regia; anzi, lo spingeva sempre più ad accettare il movimento fascista come un’entità con cui negoziare tanto da cadere, poi, nel tranello del “patto di pacificazione” tesogli appunto dai fascisti che non lo avrebbero applicato mai.

Secondo la visione del Partito Comunista d’Italia, il fascismo è stato invece l’arma politica e militare di cui la borghesia italiana si è servita per riorganizzare il suo apparato politico e sociale, uscito completamente sconquassato dalla guerra. Come sostenuto da Bordiga nel suo Rapporto sul fascismo al IV Congresso dell’I.C. del 1922, il fascismo incarnava fondamentalmente uno specifico compito storico: «la lotta contro l’anarchia politica, contro l’anarchia dell’organizzazione della classe borghese come partito politico». La classe dominante italiana era divisa in strati che «avevano tradizionalmente formato raggruppamenti politici e parlamentari che non poggiavano su partiti saldamente organizzati e si combattevano reciprocamente, conducendo nei loro interessi particolari e locali una lotta di concorrenza che portava ad ogni sorta di manovre dei politici di professione nei corridoi del Parlamento». Il problema per la borghesia italiana, di fronte alla pressione a carattere spontaneamente rivoluzionario delle masse proletarie, era quello di riorganizzare il proprio apparato statale e di governo: «l’offensiva controrivoluzionaria della borghesia imponeva la necessità di riunire, nella lotta sociale e nella politica di governo, le forze della classe dominante. Il fascismo è il realizzatore di questa necessità» (1).

Dunque, il fascismo non è stato soltanto il «braccio violento» della classe dominante che aveva il compito di colpire, insieme con le forze di repressione legali, il movimento operaio pericolosamente in lotta sul terreno rivoluzionario; è stato un movimento controrivoluzionario che univa tutti gli strati borghesi della società, i grandi capitalisti industriali, finanziari e i proprietari fondiari insieme alla piccola e media borghesia, tutti interessati a fermare e domare la marea rossa proletaria. Il fascismo non è stato, perciò, «una tendenza della destra borghese, poggiante sull’aristocrazia, il clero, gli alti funzionari civili e militari volta a sostituire la democrazia del governo borghese e della monarchia costituzionale dispotica. Il fascismo incarna la lotta controrivoluzionaria di tutti gli elementi borghesi uniti; perciò non gli è affatto necessario e indispensabile distruggere le istituzioni democratiche»; anzi se ne è servito fino in fondo, fino a dimostrare che il fascismo è, in realtà, figlio della democrazia borghese. «Quanto all’influenza sulle masse – continua il Rapporto citato – abbiamo davanti a noi un’imitazione dell’atteggiamento classico della democrazia borghese: quando si afferma che tutti gli interessi devono subordinarsi al superiore interesse nazionale, ciò significa che si appoggia in principio una collaborazione di tutte le classi, mentre in pratica si sostengono solo le istituzioni conservatrici borghesi contro i tentativi di emancipazione rivoluzionaria del proletariato. La stessa cosa ha sempre fatto la democrazia liberale borghese» (2).

Il fascismo non è stato, come propagandato dal revisionismo socialdemocratico e staliniano, un tornare indietro della storia, una restaurazione pseudo-feudale dei latifondisti, ma uno sviluppo storicamente inevitabile del capitalismo imperialista: alla concentrazione economica e finanziaria doveva corrispondere una centralizzazione politica, perciò i metodi della democrazia liberale – risultati inefficaci di fronte alla crisi di guerra e del dopoguerra – dovevano lasciare il passo a metodi totalitari, all’aperta dittatura del capitale, tanto più in un periodo in cui all’ordine del giorno c’era la rivoluzione proletaria.

Il fascismo, d’altra parte, non aveva nemmeno una sua specifica ideologia, una sua dottrina politica e sociale. La sua forza stava nell’essere un’organizzazione militare, gerarchizzata, al servizio della conservazione sociale. Dal punto di vista propagandistico è stato antidemocratico e democratico allo stesso tempo, parlamentare e antiparlamentare, repubblicano e monarchico, a seconda di come girava il vento politico e dei rapporti di forza nella lotta fra le classi che infuriava dalla fine della guerra in poi. E’ il grande capitale che, nel momento in cui lo slancio rivoluzionario del proletariato dimostrava di non essere in grado di vibrare il colpo decisivo tra il 1919 e il 1920, cioè quando la classe dominante borghese era del tutto disorientata e frammentata in piccoli gruppi di interessi contrastanti, puntò tutto sul fascismo, ossia su un movimento caratterizzato sì da una torbida mescolanza di idee e rivendicazioni borghesi e piccoloborghesi (patria, famiglia, ordine), ma capace di mobilitare centinaia di migliaia di militi nell’«impiego sistematico della violenza contro il proletariato». Il fascismo era una movimento eclettico, capace di attingere anche alle «sorgenti socialdemocratiche dell’opportunismo», utili per tentare di influenzare le masse proletarie anche attraverso l’organizzazione sindacale che però non riuscì ad estendersi se non tra i lavoratori agricoli e in certe categorie poco qualificate di operai urbani come i portuali; e di attingere al «movimento dannunziano che, da un lato, era collegato al fascismo e dall’altro aveva tentato di avvicinarsi alle organizzazioni proletarie sulla base di un programma, derivante dalla costituzione fiumana, che pretendeva di poggiare su fondamenta proletarie e perfino socialiste» (3). 

Di fatto, sebbene i governi, prima Facta e poi Salandra, tentassero di far funzionare la macchina statale per il controllo sociale e per la ripresa economica, la rappresentanza politica borghese in parlamento, proprio a causa della sua frammentazione, non sapeva che strada imboccare; i fascisti – forti di un’organizzazione militare e politica, sostenuti dal grande capitale e consci del fatto che soltanto loro potevano riportare l’ordine nel paese sconfiggendo il movimento operaio e liberando il parlamento dalle grinfie «delle cricche personali e delle consorterie della borghesia industriale e agricola manovrate da politici di professione» –, ambivano alla presa del potere in un modo o nell’altro, per via parlamentare o con un colpo di Stato, tanto da minacciare, nel loro congresso nazionale riunitosi a Napoli il 23 ottobre 1922, di marciare su Roma.

La loro minaccia intimorì il ceto politico parlamentare e la cosiddetta «opinione pubblica», la piccola borghesia pacifista e gli strati popolari legati alla Chiesa, ma non intimorì per nulla la grande borghesia che sosteneva il movimento fascista anche finanziariamente alla condizione che si incaricasse di «mettere ordine» nel paese. Il governo propose al Re di firmare lo stato d’assedio a difesa della capitale e delle istituzioni; in attesa che si verificasse lo scontro armato tra le bande fasciste e l’esercito che difendeva la legalità, le bande fasciste in marcia da Napoli e dal Nord verso la capitale non incontrarono però alcuna resistenza. Il Re revocò lo stato d’assedio, i fascisti entrarono a Roma il 31 ottobre e Mussolini, partito da Milano in vagone letto, vi giunse da «vittorioso» senza che vi fosse stato alcuno scontro armato e formò il nuovo governo al di sopra di ogni regola parlamentare.

La «marcia su Roma» – che servì soprattutto per galvanizzare le truppe fasciste, dando loro l’impressione di essere un movimento «rivoluzionario» che si lanciava all’assalto dello Stato plutocratico, e non certo per attuare la «rivoluzione fascista» – si rivelò una carnevalata imbastita per offrire al paese la giustificazione politica perché il potere fosse messo nelle mani di Mussolini.

Le forze della conservazione borghese, compresi i vecchi gruppi politici liberali, fecero blocco intorno al fascismo. Lo stesso Giolitti, il 23 ottobre, al Consiglio provinciale di Cuneo, affermava la necessità di un’alleanza con il partito fascista; il senatore Albertini, direttore del «Corriere della sera», il 9 agosto 1922 aveva dichiarato al Senato che il sistema per far cessare la violenza era quello di chiamare i fascisti a dar prova della loro capacità di dirigere la cosa pubblica; Salandra, nel settembre, aveva suggerito al capo del governo Facta di dare senza indugio forma legale all’inevitabile avvento del fascismo. Il Vaticano, da parte sua, con la Circolare Gasparri del 20 ottobre 1922, abbandonava ogni appoggio e fiducia al Partito Popolare. Quanto alla Confindustria, essa emanò nel giugno 1922 un manifesto indirizzato al paese (come «Alleanza economica parlamentare», presieduta dall’avv. Gino Olivetti, segretario di Confindustria) firmato da trenta parlamentari tra i quali figurava la plutocrazia industriale (Benni, Donegani, Banelli, Olivetti, Mazzini), quella agraria e bancaria (Fontana, Marescalchi, Mariotti) e i deputati fascisti (De Stefani, Ciano, Corgini, Gray, Tofani), in cui si inneggiava all’alleanza economica tra «plutocrati» e «nullatenenti rivoluzionari» al fine di governare direttamente insieme al movimento fascista. Il 26 ottobre 1922 il gruppo di industriali e di banchieri andarono da Mussolini al «Popolo d’Italia» per confermargli la necessità di intervenire in modo drastico sulla situazione di confusionismo in cui versava il paese, preoccupati ovviamente dell’andamento dei cambi, del corso dei titoli di Stato, del credito del paese verso l’estero. La mattina del 28 ottobre, Mussolini, insieme a Benni e Olivetti, dopo aver concordato la distribuzione dei ministeri del nuovo governo, andarono in Prefettura a Milano dove incontrarono De Capitani (presidente della Cassa di Risparmio), Conti (industriale del cotone), Crespi (presidente della Banca Commerciale) ed insieme telegrafarono a Roma, comunicando l’accordo per il nuovo governo. La «Marcia su Roma», Mussolini la fece a Milano dove era rimasto non per scappare in Svizzera nel caso di sconfitta, come la storiografia falsata amava raccontare, ma perché a Milano era concentrato il potere economico e finanziario d’Italia (4).

Di fronte alla grave crisi economica provocata dalla guerra, lo Stato, con le sue istituzioni e la sua legalità, non si era rivelato sufficientemente forte e compatto nel mantenere il potere, tanto più non potendo contare su un forte partito centralizzato semplicemente perché non esisteva. Il fascismo mussoliniano ha offerto alla classe borghese dominante esattamente questo: un partito unitario, un’organizzazione controrivoluzionaria centralizzata. Nel «Rapporto sul fascismo» sopra richiamato, Bordiga affermava: «Per i suoi legami con l’intera classe borghese, il partito fascista è, in un certo senso, quello che è in Russia, per i suoi legami con il proletariato, il partito comunista, cioè un organo di direzione e di controllo dell’intero apparato statale, ben organizzato e disciplinato. In Italia il partito fascista ha occupato coi suoi commissari politici quasi tutti i posti importanti della macchina statale: esso è l’organo dirigente borghese dello Stato nel periodo di sfacelo dell’imperialismo. E’ questa, a mio avviso, una spiegazione storica sufficiente del fascismo e degli ultimi avvenimenti italiani» (5). Altro che... passo indietro della storia. Il fascismo aveva tratto una lezione importantissima proprio dalla rivoluzione bolscevica!

Di fronte a questi fatti, il proletariato, disorientato in gran parte dalle politiche titubanti e democratiche del Partito socialista (tipico del «né aderire né sabotare» dell’anteguerra) e dagli atteggiamenti sabotatori della CGdL, si trovò nella condizione di non poter incidere sulla situazione con la sua lotta, rimanendo di fatto quasi completamente passivo. 

Il Partito comunista, da parte sua, oltre a combattere tutte le correnti opportuniste che insistevano sulle masse proletarie, lottava anche contro le tendenze avventuriste valutando intelligentemente che la mancata preparazione rivoluzionaria delle masse proletarie impediva loro di seguire la tattica offensiva che sarebbe stata la giusta tattica comunista nell’ambito della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico. Ciò non significava che il Partito comunista non si preparasse, e non preparasse i proletari che lo seguivano, a lottare sul terreno rivoluzionario; significava che la preparazione rivoluzionaria doveva combinarsi con una tattica difensiva. In una sola situazione il proletariato avrebbe potuto usare la sua forza sociale e organizzativa, orientata e guidata dal Partito comunista in termini offensivi: se «invece del compromesso fra la borghesia e il fascismo, fosse scoppiato un conflitto militare, una guerra civile», allora «il proletariato avrebbe potuto forse giocare un suo ruolo, creare il fronte unico per lo sciopero generale e ottenere dei successi». Ma il disegno politico della borghesia, fiutata la convenienza di abbandonare il terreno della stretta legalità per abbracciare il movimento fascista e la sua illegalità, era soprattutto quello di tentare la soluzione della massima centralizzazione politica ad opera dell’unica forte organizzazione politico-militare esistente: il fascismo. E questa scelta si dimostrò efficace, perché il movimento fascista operò su due versanti contemporaneamente: sul versante della violenza repressiva del proletariato, delle sue organizzazioni e dei suoi organi di stampa, e sul versante borghese, forte dell’appoggio della grande industria e della grande finanza e dell’acquiescenza delle forze di polizia e militari dello Stato, forzando il superamento delle consorterie economiche e politiche e delle cricche personali, e puntando alla più forte centralizzazione possibile del potere politico.

Il proletariato era stato disorganizzato e disorientato da tutte le manovre riformiste e sabotatrici della lotta rivoluzionaria da parte del PSI e della CGdL fin dallo scoppio della prima guerra imperialista mondiale, attività proseguita anche nel dopoguerra. Per quanto i suoi strati più avanzati seguissero le indicazioni e gli orientamenti dati dal Partito comunista, quest’ultimo, appena costituito nel gennaio del 1921, dovette ben presto combattere anche contro i cedimenti ad espedienti tattici che gradualmente caratterizzarono la politica dell’Internazionale Comunista: dalla forzatura a fondersi con il Psi da cui ci si era separati soltanto un anno e mezzo prima con il pieno accordo dell’Internazionale Comunista, all’accettazione di partiti «simpatizzanti» nell’I.C., quindi al fronte unico «politico» e addirittura al «governo operaio», inteso come sinonimo più accettabile dalle grandi masse proletarie della formula «dittatura del proletariato».

Nella storiografia staliniana la «marcia su Roma», che aprì la vittoria al fascismo, fu l’episodio finale della lotta fascista contro la democrazia e contro il socialismo, facilitato da un atteggiamento settario della Sinistra comunista d’Italia che dal 1921 al 1923 era alla direzione del partito; un atteggiamento settario, intransigentemente teoricistico e troppo incline alla lotta di strada, che avrebbe impedito al proletariato di vincere attraverso l’azione riformista e parlamentare. Si considerò il fascismo come la vittoria della reazione agrario-feudale verso la quale il compito del proletariato doveva essere quello di lottare per il ripristino della democrazia, unendo tutte le forze democratiche e liberali – dunque borghesi, piccoloborghesi e proletarie – in una lotta anche armata affinché il totalitarismo fascista (e, in seguito, tanto più il totalitarismo nazista) venisse sconfitto e cancellato una volta per tutte dall’orizzonte della civiltà moderna.

Quel che non solo lo stalinismo, ma anche tutte le tendenze democratiche antistaliniste (anarchiche, trotskiste, maoiste, guevariste ecc.), non compresero e non vollero accettare è il fatto che il fascismo rappresentava, prima di tutto sul piano politico e poi su quello economico e sociale, esattamente la forma apertamente dichiarata del potere dittatoriale della classe borghese dominante, cioè quell’ultimo stadio dello sviluppo del capitalismo che Lenin definì imperialismo. Lo stadio dei grandi monopoli, della massima concentrazione economica e finanziaria e, conseguentemente, della centralizzazione politica rappresentata dallo Stato, anche se questo Stato – per ragioni di propaganda ideologica e di giustificazione della seconda guerra imperialista mondiale – si presentava, e si presenta, con le forme della democrazia, dell’elezionismo e del parlamentarismo, quando in realtà tutte le grandi decisioni politiche, economiche e sociali vengono prese al di fuori del parlamento e, spesso, al di sopra dei governanti in carica.

In realtà, le democrazie post-fasciste non hanno nulla in comune con la democrazia liberale del primi del Novecento; in questo senso la guerra per ripristinare la democrazia contro il fascismo non ha raggiunto il suo obiettivo, poiché il fascismo è stato sì vinto militarmente, ma politicamente e socialmente ha stravinto perché la politica fondante delle democrazie post-fasciste è quella della collaborazione di classe istituzionalizzata, quella che soltanto un potere politico altamente centralizzato può applicare. L’imperialismo, perciò, non è soltanto concentrazione economica e finanziaria, esprimendo in questo modo il massimo di potere attraverso i monopoli, i trust, i cartelli internazionali; è allo stesso tempo il controllo politico e sociale delle masse proletarie, con relativa repressione dei gruppi o strati “incontrollati” o “incontrollabili”, e tale controllo non può essere esercitato se non da un potere politico estremamente centralizzato. Le istituzioni democratiche non sono, quindi, che l’«ufficio pubblicità» del potere totalitario non solo del capitale in genere, ma soprattutto del grande capitale, quello stesso grande capitale che ha sostenuto, foraggiato e investito di potere governativo il fascismo di ieri, salvo eliminarlo nel momento in cui il mantenimento del potere da parte della classe borghese richiedeva un coinvolgimento diretto delle grandi masse proletarie, prima per mobilitarle sui fronti della guerra, poi su quelli della ricostruzione e della espansione rinnovata del capitalismo. L’inganno democratico continua a nascondere il vero volto del totalitarismo borghese, finché il cumulo delle contraddizioni e delle crisi di questa società non farà esplodere il tappo che trattiene il magma vulcanico rappresentato da uno sviluppo delle forze produttive non più limitabile: sarà, nuovamente, l’ora della grande alternativa storica, o guerra imperialista o rivoluzione proletaria. Non sarà più l’ottobre fascista, sarà l’Ottobre rosso e rivoluzionario.

 


 

(1) Cfr. Rapporto sul fascismo, IV Congresso dell’I.C. XII seduta, 16 novembre 1922. In Amadeo Bordiga, Scritti 1911-1926, vol. 7, FAB, Formia 2017, p. 526.

(2) Ibidem, p. 527.

(3) Cfr. A. Bordiga, Il movimento dannunziano, “Prometeo”, nn. 1 e 2, gennaio e febbraio 1924. Ripubblicato da Edizioni il comunista, novembre 2020, Il movimento dannunziano (Fiume, il fascismo e il proletariato), in www.pcint.org.

(4) Cfr. Proletari senza rivoluzione, di Renzo del Carria, Savelli, vol. IV (1922-1948), Roma 1975, pp. 24-25.

(5) Cfr. Rapporto sul fascismo, cit., p. 533.

 

 

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