Per Taiwan, Stati Uniti e Cina in guerra... “nel 2025”?

(«il comunista»; N° 176 ; Gennaio-Febbraio 2022)

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Nell’isola di Taiwan, ex isola di Formosa, nel 1949 Chiang Kai-shek, dopo esservisi rifugiato coi resti dell’esercito del Kuo-Min Tang sconfitto dall’esercito di Mao Tse-tung, e col sostegno di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, fonda la Repubblica della Cina nazionale che, oggi, è popolata da oltre 23 milioni di abitanti. Che la Cina popolare abbia nei suoi obiettivi il ricongiungimento di Taiwan con il proprio territorio continentale, perché considerato parte integrante della Cina, è risaputo da sempre. Fino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso Taiwan era retto da un regime a partito unico, il Kuo-Ming Tang, esattamente come la Cina popolare. Le relazioni internazionali di Taiwan sono sempre state complicate, sia da quando era stata accolta nel consiglio di sicurezza dell’Onu come rappresentante della Cina, sia quando fu sostituita nel consiglio di sicurezza dalla Cina popolare grazie alle buone relazioni commerciali e diplomatiche stabilite negli anni Settanta tra Washington e Pechino.

Dagli anni Novanta Taiwan è diventata «democratica», perciò l’ordinamento dello Stato prevede partiti di opposizione, elezioni e tutto quel che segue e, naturalmente, porte aperte ai commerci con tutto il mondo, compresa la Cina popolare che dista dalle sue coste solo 150 km.  Con la guerra russo-ucraina i rapporti tra Pechino e l’Occidente si sono inaspriti, mentre si sono riavvicinate parecchio le due capitali Washington e Taipei. La posizione strategica dell’Isola di Taiwan, tra il Mar cinese orientale e il Mar cinese meridionale, separata dalla costa continentale della Cina dallo Stretto di Formosa e dall’arcipelago delle Filippine dallo Stretto di Luzon, la rende appetibile sia alla Cina che agli Stati Uniti che sono presenti militarmente non solo in Corea del Sud e in Giappone, ma anche nelle Filippine.

Ma, come succede per tutti i paesi capitalisti, prima o poi i «nemici» si riavvicinano perché hanno bisogno di allargare i propri commerci; ed è successo anche a Taipei e Pechino che, negli anni Novanta, hanno ristabilito i rapporti commerciali, tanto che nel 2021 la Cina, per Taiwan è in cima all’import-export: importa dalla Cina popolare merci per 82,690 mld di dollari US e vi esporta merci per 126,227 mld di dollari US. E’ noto che Taiwan è diventata la regina dei semiconduttori ed altri componenti chiave per gli smartphone, i computer e i vari dispositivi elettroinici. Con le sue due grandi aziende, la TSMC e la UMC, detiene oltre il 70% del mercato mondiale dei semiconduttori e dei componenti elettronici, mentre il concorrente più «ostile», la coreana Samsung ne detiene solo il 16%. E’ taiwanese anche la Foxconn - che ha stabilimenti in tutto il mondo, e che recentemente è stata al centro di agitazioni e scioperi negli stabilimenti nella Cina popolare. La Foxconn produce gli iPad, gli iPhone, i Kindle, le Playstation e altri prodotti di questo tipo, grazie ai quali è diventata il più grande assemblatore/produttore del mondo con un fatturato di 5.990 mld di dollari taiwanesi, ossia circa 200 mld di dollari US (1).

L’interesse delle potenze imperialistiche di avere il controllo di Taiwan è evidente, sia in termini economico-finanziari sia in termini di strategia politico-militare.

E’ d’altra parte logico che le visite di alte figure istituzionali americane, cui sono seguite visite dalla Lituania, dal Regno Unito, dal Giappone e dall’Australia, abbiano fatto infuriare Pechino che, da parte sua, strilla contro le «ingerenze straniere» su questioni «interne alla Cina» e, dopo che J. Biden ha dichiarato che  Taiwan potrà contare sull’appoggio anche militare di Washington, ovviamente minaccia l’America e qualsiasi altro paese che volesse interferire sulla questione.

Il clima commercialmente tranquillo tra Cina e Stati Uniti che si era costruito dagli anni Novanta in poi, si è inasprito parecchio già sotto la presidenza Trump e, oggi, sotto la presidenza Biden. I contrasti interimperialistici covavano sotto la cenere da parecchio tempo e, secondo un generale dell’Air Force americana, sono destinati a sboccare in una guerra tra Stati Uniti e Cina, non tra dieci-quindici anni, ma tra due-tre anni.

Il generale Michael Minihan, in una memoria per i propri sottoposti, datata 1 febbraio 2023, ipotizzando un conflitto a causa dell’invasione cinese di Taiwan, scrive: «Spero di sbagliarmi, ma il mio istinto mi dice che combatteremo nel 2025». Altri alti ufficiali americani avevano già ipotizzato un conflitto del genere entro il 2027 (2).

Il gen. Minihan sostiene il suo allarme in quanto conosce bene l’area del Pacifico in cui ha ricoperto ruoli importanti dal 2013 ed è inoltre stato vice comandante per l’Indo-Pacifico con competenza su Cina e Taiwan, dal 2029 al 2021. Ha perciò potuto  fare alcune considerazioni: nell’ottobre 2022 Xi Jinping, dopo essersi assicurato il terzo mandato al potere, ha nominato il suo «consiglio di guerra»; a Taiwan, nel 2024, ci saranno le elezioni presidenziali e, sempre nel 2024 ci saranno le presidenziali anche in America. Questi due momenti che costituiscono per Pechino un pretesto per invadere Taiwan (nella propabile ipotesi che le elezioni portino al potere un persognaggio anti-Pechino) considerando inoltre la situazione instabile, quindi di «distrazione», in America, tutta presa nello scontro tra democratici e repubblicani per eleggere il prossimo presidente. Ebbene, i generali sono guerrafondai per loro natura, trasformandosi sistematicamente in portavoce dell’industria degli armamenti, perciò l’allarme lanciato alla presidenza degli Stati Uniti ha soprattutto lo scopo di stimolarla a prepararsi alla guerra in modo molto più energico, organizzato e potente di quanto non faccia già oggi.

C’è, in effetti, un dato che preoccuperebbe qualsiasi generale atlantista. La «pax americana», per più di cinquant’anni, poteva poggiare su di un’egemonia super-armata. Ora pare che gli USA non lo possano più fare perché i soldi messi a disposizione per il riarmo non sono sufficienti. Durante la «guerra fredda» il bilancio per la Difesa superava l’8% del Pil; oggi, gli 816 mld di dollari annui annunciati da Biden per la Difesa non sono che il 3,7% del Pil, con in più un notevole rialzo dei costi per gli armamenti più moderni, per il personale specializzato, l’addestramento, le installazioni militari, le riparazioni, i ricambi, il carburante, i trasporti e via dicendo. Il Pentagono, a dicembre scorso, ha svelato il prototipo del nuovo B-21 Rider, l’unico nuovo bombardiere strategico progettato in 30 anni. Per non parlare dei nuovi sottomarini, delle nuove portaerei, dei nuovi missili ecc. ecc., la cui produzione richiede molti anni. Questi costi risultano oggi proibitivi anche per l’opulenta America (3). Perciò i generali hanno cominciato a sventolare l’allarme: la guerra con la Cina è alle porte!

In realtà, come l’America non vuole andare a morire per Kiev non andrà a morire nemmeno per Taipei. Ciò non toglie che alla guerra, a livello mondiale, l’imperialismo ci arriverà perché è nel suo dna. E, di nuovo, saranno le vaste masse proletarie del mondo ad essere sacrificate, al solo scopo di superare la tremenda crisi che il capitalismo mondiale non potrà evitare.

Ma ad un’altra guerra il proletariato cinese, americano, europeo, russo, indiano e di qualsiasi altro paese, dovrà prepararsi: la guerra di classe, l’unica che può sconfiggere la guerra imperialista!

 


 

(1) Cfr. la Repubblica, 3 agosto 2022.

(2) Cfr. il fatto quotidiano.it, 28 gennaio 2023.

(3) Cfr. https://www.linkiesta.it/2023/02/la-spesa-militare-degli-stati-uniti-e-di-816-miliardi- di-dollari- allanno-ma- lesercito-e- sempre- piu- sguarnito

 

 

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