Ennesimo attacco alle condizioni di esistenza del proletariato. Rompere con la collaborazione di classe e con ogni illusione democratica è la via da seguire

(«il comunista»; N° 177 ; Marzo-Maggio 2023)

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In perfetta coerenza con i governi precedenti (Draghi, Conte-2, Conte-1,  Gentiloni, Renzi, Letta, Monti, Berlusconi IV, per riferirci solo agli ultimi dodici anni:  governi «politici» che hanno visto coalizioni di ogni tipo e governi «tecnici» sostenuti da ampie maggioranze trasversali), le grandi priorità reali anche del governo attuale condotto da Giorgia Meloni, quanto a politica interna, sono sempre le stesse: favorire in tutti i modi il capitalismo privato con i soldi pubblici, mantenere il proletariato nelle condizioni di subire di volta in volta le diverse esigenze dei capitalisti. Il che vuol dire, nel lungo periodo di crisi economica e finanziaria apertosi con il grande crack finanziario del 2008, salvaguardare i flussi di profitto attaccando sempre più a fondo le condizioni di esistenza e di lavoro del proletariato. Questi attacchi si sono concentrati in particolare su due direzioni. La prima: svuotare gradatamente gli ammortizzatori sociali in vigore dagli anni Settanta del secolo scorso, soprattutto per le categorie operaie più svantaggiate, aumentando la flessibilità (cioè la precarietà) del lavoro e mantenendo bassi i salari. La seconda: aumentare sistematicante la concorrenza tra proletari, non solo tra nativi e immigrati, ma tra categoria e categoria, tra maschi e femmine, tra giovani e non più giovani. Per applicare tutte le diverse misure adottate allo scopo di ottenere i migliori risultati in queste due direzioni, ogni governo ha avuto sempre bisogno dell’opera opportunista dei grandi sindacati collaborazionisti Cgil, Cisl e Uil la cui funzione di difesa degli interessi del capitalismo e della borghesia dominante è praticata fin dalla costituzione della CGIL durante l’ultima guerra imperialistica e proseguita anche dopo la scissione del 1949 dagli altri sindacati Cisl e Uil.

Ovviamente la loro collaborazione con i poteri borghesi ha dovuto adattarsi ai diversi periodi che hanno caratterizzato tutte le varie fasi che ha attraversato il capitalismo nazionale nel suo sviluppo, dalla ricostruzione economica postbellica alla sua espansione e al cosiddetto boom degli anni Sessanta, dalla prima grande crisi capitalistica mondiale del 1975 alle diverse tappe di ammodernamento della macchina produttiva e all’incedere sempre più sfrenato e violento della concorrenza sul mercato mondiale.

Che i governi borghesi usino la forza del loro Stato, delle loro leggi, del loro potere economico e finanziario per difendere gli interessi dei capitalisti e della classe borghese dominante nel suo insieme è logico, è nella loro natura. Tra i mezzi che essi utilizzano c’è sempre stata la corruzione degli strati più alti del proletariato specializzato, la famosa aristocrazia operaia di cui ha iniziato a parlare Engels fin dal 1845 per l’Inghilterra, che era al tempo il paese capitalista più avanzato nel mondo. D’altra parte, nelle società divise in classi, la corruzione è una delle arti di ogni classe dominante, e la classe dominante borghese - a differenza delle classi dominanti che l’hanno preceduta nella storia del mondo - è certamente la classe che più di ogni altra è riuscita ad affinarla, pur mantenendo contemporaneamente l’uso sistematico della violenza, del ricatto, del sopruso, della repressione.

Non esiste soltanto la corruzione materiale, esiste anche la corruzione spirituale e ideologica; la Chiesa cattolica, da duemila anni, (come ogni altra religione) ha diffuso nel mondo quello che Marx chiamava l’oppio dei popoli, un oppio che ha tuttora una grande influenza sulle masse. Anche il proletariato, ovviamente, è destinatario di questa corruzione, ma la sua funzione nella produzione capitalistica è tale per cui le classi borghesi dominanti hanno abbinato alla religione un altro tipo di corruzione: l’opportunismo sindacale e politico. L’opportunismo è quel particolare tipo di oppiaceo che insiste sui bisogni elementari di sopravvivenza della classe proletaria: la sua funzione consiste nel frenare gli impulsi alla reazione violenta da parte dei proletari rispetto alle pesanti condizioni in cui sono obbligati a vivere e a lavorare, e nel deviare quegli impulsi sul terreno della non-violenza, dell’accettazione delle condizioni di sudditanza rispetto ai capitalisti e al sistema sociale esistente in cambio di qualche miglioramento immediato a livello economico o normativo. Il riformismo socialista, come si sa, nasce dall’illusione di poter ottenere gradualmente dai poteri borghesi - sia a livello economico che sociale e politico - una serie di miglioramenti che, pacificamente, democraticamente, porteranno alla tanto agognata emancipazione del proletariato dallo sfruttamento capitalistico. Democraticamente, per i riformisti, non significa in assenza di lotta, di manifestazioni di protesta e di sciopero; non significa disconoscere l’esistenza della lotta fra le classi, che d’altra parte la stessa borghesia riconosce. Significa soprattutto non rispondere con violenza alla violenza della repressione, con l’organizzazione indipendente ed esclusivamente di segno proletario alle organizzazioni interclassiste, care al padronato e agli opportunisti di tutte le risme.

Se la democrazia è la forma di governo più efficace che la classe borghese ha trovato nella sua esperienza storica di lotta contro le vecchie classi dominanti e, soprattutto, contro il proletariato e la sua lotta classista, l’opportunismo riformista è l’arte di influenzare e condurre le masse proletarie dal terreno della lotta classista al terreno della lotta democratica, al terreno in cui la classe dominante borghese - anche nei casi in cui lo scontro di classe si facesse molto duro - riesce a contenere la lotta nel quadro del sistema borghese capitalistico, quindi del suo reale dominio sociale.

Per gli opportunisti, come per i borghesi, riformismo vuol dire soprattutto lotta pacifica, negoziazione, discussione per raggiungere un compromesso. La sua corruzione è nello stesso tempo economico-sociale e ideologica; il suo obiettivo reale è di piegare le esigenze materiali di vita del proletariato alle esigenze materiali di vita della borghesia, ossia del sistema economico-sociale entro cui la borghesia esercita il suo potere: il capitalismo.

Il riformismo socialista non poteva nascere se non in un periodo storico in cui le lotte del proletariato, data la loro pressione e potenza, mettevano in pericolo il potere borghese perché tendevano a fare del terreno classista il loro terreno rivoluzionario  nel quale la lotta proletaria puntava sì all’emancipazione, ma con i mezzi della lotta di classe, con i mezzi della violenza di classe con cui rispondeva alla violenza del padronato e alla violenza dello Stato borghese, legale e illegale.

E quando il riformismo socialista dimostrò di non essere in grado di controllare pacificamente le masse proletarie, deviandole dal terreno rivoluzionario al terreno riformista e democratico, allora il riformismo o dovette trasformarsi nel governo della controrivoluzione - come successe in Germania negli anni 1919-1920 - o lasciare il passo alla reazione fascista, organizzata, foraggiata e protetta appositamente per colpire il proletariato dopo che il riformismo socialista lo aveva indebolito e fuorviato tanto da renderlo sufficientemente impotente da non poter reagire con forza e in modo unitario alla duplice repressione dello Stato borghese e delle milizie fasciste.

Ebbene, come abbiamo più volte sottolineato, il fascismo, per ottenere comunque un’influenza sul proletariato, non solo ha attuato tutta una serie di riforme che costituivano le grandi rivendicazioni del riformismo socialista, ma le ha incastonate nella politica della collaborazione di classe istituzionalizzandola. E’ questa particolare politica borghese che ha superato le trincee militari nella seconda guerra imperialista mondiale tra il fascismo e la democrazia. Tutte le democrazie post-fasciste hanno adottato, istituzionalizzandola, la politica della collaborazione di classe; tutti i partiti e tutti i sindacati risorti dopo la guerra mondiale sono stati i partiti e i sindacati della collaborazione di classe, decretando in questo modo la storica vittoria della controrivoluzione borghese. Un’unica vittoria che poggiava sia sui governi democratici post-fascisti sia sui governi del cosiddetto «socialismo reale» di stampo stalinista, sia su quelli delle cosiddette democrazie popolari.

Tutti i governi che si sono passati la mano dal 1945 in poi sono figli di quella vittoria controrivoluzionaria, dunque sono governi della borghesia dominante e antiproletari. Naturalmente, la simbologia democratica chiede la presenza di diversi partiti, di diversi sindacati, di un parlamento, delle elezioni e di una propaganda su tutti i livelli - economico, politico, sociale, culturale e religioso - attraverso cui diffondere la corruzione politica e morale sulle grandi masse per poter esercitare su di loro un controllo più capillare e duraturo.

Che al governo ci siano stati o ci siano i democristiani, i socialisti, i liberali, i repubblicani, i comunisti e i fascisti, le priorità del potere borghese non cambiavano e non cambiano. Le «lotte elettorali» e i governi che si succedono non sono che l’espressione di un solo potere, quello borghese e dei grandi capitali, che ha interesse di presentarsi sotto le più diverse sigle in lotta di concorrenza - come succede tra aziende nel mercato - per continuare nel farsesco inganno di una democrazia che, nella realtà, non ha più nulla di liberale, ma ha bisogno di presentarsi, nonostante sia sempre più fascistizzata, ancora con qualche aspetto che ricordi le alternanze di un tempo.

Sebbene il proletariato sia stato deviato dal suo terreno di lotta classista, sebbene sia stato e sia ancora pesantemente intossicato da una democrazia ridotta in realtà più a simboli che a sostanza, è comunque la classe produttrice di cui la borghesia non può fare a meno perché soltanto dal suo lavoro salariato può estorcere il plusvalore, quindi il profitto capitalistico.

Per quante innovazioni tecniche si siano rincorse nei decenni passati, per quante delocalizzazioni siano state attuate alla ricerca di manodopera meno costosa, per quante riorganizzazioni e automazioni del lavoro siano state introdotte, il capitale non può fare a meno di sfruttare il lavoro umano del proletariato salariato. Un lavoro che deve costare sempre meno, vista l’aumento considerevole e continuo della concorrenza sul mercato mondiale, un lavoro che richiede oggettivamente sia lavoratori specializzati che lavoratori comuni. Una massa di lavoratori, quindi, a minor costo possibile che - date le condizioni in cui versano le economie di molti paesi arretrati capitalisticamente - viene attraverso la forzata migrazione da quei paesi fornita al mercato del lavoro nei paesi capitalisticamente più sviluppati.

Così la concorrenza tra proletari già molto sviluppata - e che è una delle leve più importanti per i capitalisti  di ogni paese -, viene incrementata proprio dai flussi migratori dai paesi del terzo e del quarto mondo, flussi la cui dimensione negli ultimi quarant’anni è andata via via aumentando in ragione delle continue crisi che hanno scosso il mercato mondiale e che hanno gettato i paesi più deboli in condizioni sempre più disastrate e le masse proletarie in condizioni sempre più disperate. Anche questo è un modo, da parte del capitalismo, di scaricare sui paesi più deboli e poveri le conseguenze più disastrose delle sue crisi, e da parte dei grandi capitalisti di approfittare delle condizioni disperate di grandi masse per pescare in qualsiasi paese del mondo la manodopera che più serve e più conviene loro.

Il governo italiano non è certo rimasto indietro su questo fronte. E non da oggi. Solo che oggi, presieduto da un’esponente di un fascismo che, dopo aver assunto le sembianze di una democrazia «moderna», ha bisogno di dimostrare di essere all’altezza del compito, ha bisogno di farsi accettare nonostante le sue radici ideologiche. E quale sarebbe questo compito?

Il compito di soddisfare le esigenze del capitalismo nazionale in un periodo in cui l’economia nazionale è gravata da uno dei più alti debiti pubblici tra i paesi industrializzati, da una struttura economica perlopiù rappresentata da piccole e medie aziende, e dall’atavica predisposizione della borghesia nazionale a vendersi al blocco imperialista che al momento appare più forte e dal quale poter ottenere qualche privilegio e vantaggio in più. Così, dalla vicinanza alla Russia, alle sue materie prime e agli affari con la sua economia, nel giro di qualche mese si è passati a tagliare i ponti con Mosca e a far da giullare armato del blocco anglo-americano in difesa di un’Ucraina considerata da sempre un problema esclusivamente tra russi e ucraini, ed ora elevata a simbolo dei valori occidentali e della civiltà democratica da «difendere» dalla barbara Russia...

Così i proletari italiani sono chiamati a sopportare non solo le conseguenze negative di un’economia in crisi (sia prima che durante e dopo la pandemia da Covid-19), ma anche il peso economico e finanziario di una guerra in cui l’Italia si è coinvolta totalmente in funzione anti-russa, sebbene non l’abbia «dichiarata».

Per l’ennesima volta, i valori della democrazia da salvare dal pericolo di essere attaccata da dittatori alla Putin, vengono a  giustificare i continui attacchi alle condizioni di esistenza e di lavoro del proletariato.

Col decreto del 1° maggio, con cui il governo Meloni ha voluto celebrare le sue misure antiproletarie, si è ribadita la priorità del capitalismo nazionale a svenare ulteriormente le forze produttive salariate. Prendiamo ad esempio tre aspetti:

- Le tasse: il peso già esistente per la popolazione operaia  con i salari più bassi, e che i governi precedenti avevano un po’ mitigato, è stato in realtà ribadito e reso più grave; con questo decreto non si interviene sull’Irpef ma solo sulla parte contributiva (pesando così ancor di più sulle pensioni) e solo da luglio a dicembre 2023, dopodiché si torna esattamente come prima: naturalmente i pochi benefici di questa temporanea misura sul cuneo fiscale vanno ai redditi più alti (dai 35mila euro annui).

- Il precariato: la lotta al precariato, la lotta per superare i contratti a tempo determinato, per colpire il caporalato e il lavoro nero, è una gigantesca bufala. Si permette alle aziende di stipulare contratti a termine «dove c’è necessità temporanea per motivi organizzativi e produttivi». A parte il fatto che è dal 2021 che i contratti a tempo determinato sono tornati ad aumentare in modo consistente, raggiungendo nel 2022, secondo l’Istat, un record storico - oltre 3 milioni e 100 mila dipendenti a scadenza -, resta il fatto che le maglie così larghe dei limiti in cui sono previsti i contratti di lavoro temporaneo permetteranno a tutte le aziende di applicare in modo «legale» le più diverse forme di lavoro temporaneo. E uno degli esempi di questo ulteriore attacco alle condizioni di lavoro proletarie riguarda proprio il settore dei rider. Just Eat, una delle più importanti compagnie di consegna a domicilio, e che aveva concordato, dopo una serie di scioperi e di proteste dei rider, con Cgil, Cisl e Uil il passaggio dei rider da lavoratori «autonomi» a dipendenti, oggi si prende la rivincita (1). Come si sa queste piattaforme funzionano con degli algoritmi attraverso i quali l’azienda gestisce la distribuzione delle consegne e valuta il lavoro fatto da ciascun rider. Ebbene, il decreto Meloni rende impossibile da parte dei lavoratori e dei sindacati conoscere il funzionamento di questi algoritmi, perciò la cosiddetta «trasparenza» di cui i sindacati andavano fieri nel 2021 è andata a farsi fottere. Ha vinto, ovviamente, il «segreto industriale e commerciale».

- I migranti: col decreto Cutro, il governo Meloni annunciava, per l’ennesima volta, che la sua priorità era di reprimere gli «scafisti», i «trafficanti di esseri umani»; la risoluzione di questo problema avrebbe risolto il 90% dei flussi illegali di migranti verso l’Italia, facendo oltretutto opera di repressione contro le mafie, nordafricane e italiane, che approfittano della disperazione delle grandi masse dei paesi poveri. Il tema dell’immigrazione clandestina riguarda tutti i paesi del mondo, sia gli industrializzati che i paesi più poveri. L’esempio che danno i paesi più poveri, in realtà, è lontano mille miglia da quello dei paesi più sviluppati (basti considerare i muri e le guardie armate ai confini tra Messco e Stati Uniti, tra Ungheria e Bulgaria, tra Israele e Territori palestinesi, tanto per citare gli esempi più noti). Molti paesi africani accolgono, volenti o nolenti, centinaia di migliaia se non milioni di migranti e rifugiati dai paesi confinanti scossi da guerre, repressioni, carestie a cambiamenti climatici (soprattutto Uganda, Etiopia e Kenya). Aldilà dell’esempio della Turchia che «accolse» più di 3 milioni di profughi dalla Siria e dall’Iraq, profughi che ha usato e usa come «arma» per farsi pagare fior di miliardi dall’Unione Europea per trattenerli nel proprio territorio, trattandoli come rifiuti della società e come manodopera a bassissimo prezzo - ogni arrivo via terra o via mare di migranti nei paesi europei è considerato un’infiltrazione clandestina da reprimere. E i governi italiani non sono diversi da quelli di Slovenia, Ungheria, Germania o Francia. Ammettono di aver bisogno dei migranti perché a determinati lavori i propri proletari autoctoni non si abbassano, sia per la tipologia di lavoro che per la paga, ma al di sopra di tutto va salvata la legalità, ossia la richiesta da parte dei capitalisti secondo le quantità e le qualità della forza lavoro di volta in volta necessarie allo sfruttamento locale.

Il governo Meloni, puntando sulle condanne agli scafisti, in realtà, va a colpire coloro che hanno meno responsabilità riguardo i viaggi della morte che vengono organizzati da gruppi criminali che hanno legami altolocati sia con i poteri locali che con l’Italia. E guarda caso, si tratta proprio degli stessi poteri locali con cui i governi italiani, e Meloni per ultima in ordine cronologico, hanno firmato memorandum e accordi perché trattengano in loco le masse di migranti, come con la Libia e ultimamente con la Tunisia e domani magari con l’Etiopia e l’Egitto, sapendo perfettamente come vengono trattati laggiù i profughi. Sono le stesse istituzioni internazionali che denunciano violenze, torture, stupri, assassinii, ad esempio in Libia alla cui «guardia costiera» è stato tacitamente commissionato il compito di riportare indietro il più alto numero possibile di migranti che tentano la traversata del Canale di Sicilia. Nel frattempo, per i migranti presenti sul territorio italiano viene resa sempre più complicata da tutti i punti di vista la possibilità stessa di regolarizzarsi (permessi di soggiorno, carte di identità, passaporti, alloggi ecc.), mentre nei paesi da cui partono per venire in Italia non viene fatto nulla o quasi per avviare la tanto decatata regolarizzazione prima di mettersi in viaggio. La lotta contro i migranti, per questo come per i governi precedenti, è una bandiera da sventolare per ribadire la funzione della legalità, mentre è lo stesso governo italiano a calpestare la sua stessa legalità e la sua stessa carta costituzionale, oltre al diritto internazionale per i naufraghi in mare, in funzione di una persistente ricerca dei reietti cui addossare la colpa del disordine sociale da lui stesso provocato.

 


 

(1) Cfr. «il comunista» nr. 171, dic. 2021-genn. 2022.

 

 

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