Lezioni della controrivoluzione: Spagna 1936 

(«il comunista»; N° 177 ; Marzo-Maggio 2023)

Ritorne indice

 

 

Questo testo (che si collega agli articoli sul Fronte Popolare (pubblicati ne "le prolétaire" del 1965) è apparso ne "il programma comunista" del 1966". Lo ripubblichiamo come corollario al tema delle RG sulla Guerra civile spagnola del 1936-39.

 

Se la «tattica» antifascista dell’Internazionale Comunista negli anni ’30 riuscì a distogliere il proletariato occidentale dai suoi scopi e dal suo programma rivoluzionario, e a fargli appoggiare politicamente la seconda guerra imperialista mondiale come pseudo-crociata antifascista, non vi fu in nessun luogo una vera e propria lotta – cioè lotta armata col carattere di guerra civile – contro il fascismo. Essendo restate fino allora del tutto verbali e parlamentari le imprese dell’antifascismo (i soli episodi di lotta reale verificatesi in Italia erano d’ispirazione anticapitalistica e comunista, non antifascista e democratica), esso sarebbe stato assai male armato per prendere il timone della guerra contro le potenze dell’Asse nel nome della pretesa comunanza d’interessi tra proletariato e borghesia democratica, se gli avvenimenti di Spagna, nel periodo fra il 1936 e lo scoppio del secondo conflitto imperialista, non fossero venuti a conferire un’apparenza di realtà alla maniera di presentare la storia ormai propria dell’opportunismo: non più conflitto di classi radicate ciascuna in tipi di società totalmente opposte, ma lotta «tra le forze della democrazia e quelle del fascismo». Avendo ricevuto in Spagna una specie di battesimo del sangue, questa tesi vuota e assurda, smentita da tutta la storia precedente – per non dire dai principî del marxismo – prese una forza e un ascendente mostruosi, fino a trasformarsi in ideologia del nuovo massacro imperialista.

 

*       *       *

 

Tanto basterebbe perché, a trent’anni di distanza, la «rivoluzione» e la guerra di Spagna del 1936 meritino l’attenzione di tutti coloro che vogliono trarre una lezione dalla controrivoluzione allo scopo di orientarsi rivoluzionariamente nel triste marasma d’oggi: perché, esaminandole a sangue freddo e con i vantaggi del distacco storico, è molto facile scoprire che questa «rivoluzione» e questa guerra provavano tutto il contrario di quello che l’opportunismo, sfruttandole senza scrupoli, pretende di provare.

Ma il loro interesse non si limita a questo, perché esse illuminano crudamente il senso di un’altra lotta che forse non è ancora divenuta del tutto «inattuale»: quella del marxismo rivoluzionario (che al tempo della vittoria di Stalin i suoi avversari s’erano affrettati a rinchiudere nella stessa tomba della grande rivoluzione d’ottobre 1917) contro l’anarchismo, rinvigorito dalla disfatta del proletariato. La Spagna del 1936 era infatti la terra di elezione dell’anarchismo, che ebbe allora un’occasione unica di fare le sue «prove rivoluzionarie» ma che, in pieno slancio insurrezionale, subì il più madornale fiasco che qualunque corrente, qualunque scuola di lotta politica e sociale abbia forse mai dovuto patire alla dura prova dei fatti. Così l’anarchismo, le cui debolezze teoriche e pratiche erano sempre state più che evidenti, ma a cui la disfatta del proletariato al tempo della controrivoluzione russa permetteva di gridare alle «fatalità reazionarie» sedicentemente contenute nel marxismo, fece da parte sua la prova dell’impotenza fatale realmente contenuta nel suo apoliticismo, nella sua ostilità al centralismo, e nella sua ideologia democratica e libertaria.

A differenza da quanto si verificò in Russia, altro paese di capitalismo arretrato, tutta la storia del movimento operaio in Spagna è caratterizzata dall’impotenza del proletariato a costituirsi in classe indipendente di fronte a una borghesia industriale tanto debole e tanto indissolubilmente legata ai latifondisti agrari da esser difficilmente individuabile dietro i suoi travestimenti politici.

Questa impotenza prese due forme: anzitutto ed essenzialmente quella dell’anarchismo, che si adattava bene ai lavoratori di una industria che conservava da tempo e in grande proporzione i caratteri dell’epoca manifatturiera, e ancor più ai mille strati poveri delle città e ai contadini miserabili del latifondi; in secondo luogo, e principalmente nelle zone di grande industria moderna, la forma di un socialismo riformista ed elettoralista, tuttavia capace, in periodi di crisi, dei più straordinari travestimenti «rivoluzionari».

Questa impotenza prolunga quella della borghesia medesima, nell’epoca in cui poteva ancora giocare un ruolo rivoluzionario, perché il proletariato non era lì a minacciarla. La borghesia si lasciò sfuggire tale occasione per i suoi compromessi con la potenza conservatrice della Chiesa e per le sue concessioni ai pregiudizi popolari durante la guerra d’indipendenza contro la Francia napoleonica (1808-1814), insomma per quel che Marx chiamò la sua mancanza di audacia rivoluzionaria, e mai più la ritrovò. È così che il capitalismo spagnolo si sviluppò faticosamente – e soprattutto come prodotto d’importazione straniera – nell’involucro di uno Stato dinastico periodicamente scosso dai tentativi rivoluzionari di un liberalismo sempre più impossibile e non giunto mai a completare la rivoluzione politica da cui altrove era nato lo Stato centralizzato moderno.

Se i mille legami che uniscono il socialismo riformista al regime capitalista sono evidenti – non fosse che per la sua periodica partecipazione ai governi borghesi – potrà sembrare paradossale affermare che lo schieramento della classe operaia spagnola sul fronte dell’anarchismo non le assicurava alcuna reale indipendenza di classe.Gli anarchici non si limitarono all’astensionismo, oscillando tra i rifiuti di principio e i compromessi pratici. Per esempio nel 1873 parteciparono tranquillamente ai governi locali o alle giunte dei repubblicani federalisti, fautori dell’assurda insurrezione cantonalista, compromettendo così la Prima Internazionale agli occhi delle masse e dando al mondo, come rimproverò loro Engels, «un esempio magistrale di come non si debba fare una rivoluzione». 

Il fatto è che la indipendenza di classe non è «l’autonomia», tanto rivendicata dagli anarchici: è la facoltà del proletariato di agire in tutti gli stadi della sua lotta in funzione del suo programma comunista, secondo i suoi propri principi e metodi, il che suppone la facoltà di riconoscere esattamente il nemico di classe sotto tutti i travestimenti in cui può presentarsi. Una simile facoltà non poteva non mancare a un movimento il cui programma si limitava all’utopistica «soppressione dello Stato» per decreto, un movimento nel quale i principî antiautoritari, esasperazione dell’individualismo democratico borghese, tenevano il posto della dottrina della coscienza di classe e dell’intelligenza storica, e i cui metodi consistevano in un insurrezionalismo locale del tutto sconsiderato.

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice