14 marzo 1883 - 14 marzo 2023

Centoquarant’anni fa moriva Karl Marx  

(«il comunista»; N° 177 ; Marzo-Maggio 2023)

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Il marxismo è sinonimo, per noi, di comunismo rivoluzionario, la dottrina che Marx ed Engels hanno formulato, in perfetta sintonia, nell’epoca – come dirà Lenin nel 1913 (1) – «della separazione della classe operaia dalla democrazia borghese, l’epoca in cui sorse il movimento operaio indipendente, l’epoca in cui si fissarono le basi della tattica e della politica proletaria».

Abbiamo detto comunismo rivoluzionario perché, fin dal Manifesto del partito comunista, scritto a quattro mani da Marx ed Engels – e che la Lega dei Comunisti, alla quale Marx ed Engels avevano aderito nel 1847, adottò, nel 1848, come dichiarazione teorico-politica di guerra internazionale al capitalismo e, quindi, alla classe dominante borghese di ogni paese –, le più diverse scuole politiche  del socialismo piccolo-borghese che precedettero la dottrina marxista, evolsero verso ideologie opportuniste sempre più smaccatamente filo-borghesi, dal bernsteinismo al menscevismo, dal riformismo socialdemocratico al socialsciovinismo e al massimalismo, fino a trasformarsi nel braccio armato della controrivoluzione borghese come in Germania e in Ungheria nel 1919, in Russia dal 1926 e, poi, in tutto il mondo sulle ali del nazionalcomunismo stalinista.

Per parlare della dottrina marxista, cioè del comunismo rivoluzionario, non ci si può che riferire alla monumentale opera teorico-storico-politica prodotta da quel lavoro in comune – come dirà Engels – che ha visto protagonisti sia Marx che Engels in un particolare svolto storico, verso la metà dell’Ottocento, in cui le tre più importanti correnti di idee del secolo XIX (filosofia classica tedesca, economia politica inglese e socialismo francese), alla luce delle dottrine rivoluzionarie francesi in generale, erano giunte alla loro massima e più elevata espressione possibile; col marxismo, il loro specifico apporto alle diverse concezioni del mondo viene superato in una nuova completa, armonica concezione integrale del mondo «che non può conciliarsi con nessuna superstizione, nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese» (2).

In questo articolo ci riferiamo soprattutto a Lenin che, in alcuni opuscoli di propaganda, sintetizza in modo chiaro e senza possibilità di equivoci le caratteristiche fondamentali della dottrina marxista, in particolare sulla sua dottrina economica che è il fulcro centrale del marxismo.  

Dire marxismo è come dire dottrina di Karl Marx, ma non nel senso che questa dottrina sia stata opera dell’individuo, per quanto dotato e geniale, di nome Karl Marx, ma nel senso che «la teoria e la tattica del socialismo proletario rivoluzionario o comunismo» – come scrive Lenin (3) – formulata dall’opera comune di Marx ed Engels costituiscono «la nuova concezione del mondo», delineando «il materialismo conseguente, esteso al campo della vita sociale, la dialettica, come la più completa e profonda dottrina della evoluzione, e la teoria della lotta di classe e della funzione storica rivoluzionaria del proletariato, creatore di una nuova società, della società comunista» (4). La nuova concezione del mondo si basa sul materialismo storico e dialettico, il materialismo che aveva superato la concezione meccanica dello sviluppo umano e sociale (che non teneva conto, cioè, del moderno sviluppo della chimica, della biologia e della teoria elettrica della materia, come dice Lenin), la concezione metafisica e antidialettica, e la concezione dell’essenza dell’uomo in modo astratto e non come l’insieme di tutti i rapporti sociali (concretamente e storicamente determinati); un materialismo che non si limitava a “spiegare” il mondo – dunque nemmeno a “spiegare” il capitalismo, a cui le scuole borghesi e conservatrici vorrebbero ridurre il marxismo – ma si poneva nella prospettiva di cambiarlo, mettendo, perciò, al centro dell’attività umana l’attività rivoluzionaria pratica (5).    

Va ricordato, infatti, che Engels, dichiaratosi comunista già nel 1842, in verità un po’ prima di Marx, nel 1844-45 aveva già scritto una delle sue opere più famose, La situazione della classe operaia in Inghilterra; viveva all’epoca a Manchester, la sua “università”, come scrive F. Mehring nella sua «Storia delle socialdemocrazia tedesca» (6): «in mezzo alla grande industria, la quale corrode la società borghese per edificare le fondamenta della società socialista. Egli studiò  l’uno e l’altro lato di questo processo storico, quello disumano come quello umano, e la sua cultura filosofica lo rese capace di comprendere l’interna connessione tra i due aspetti, cosa che non era dato di conoscere al socialismo inglese e al proletariato inglese», mentre «Marx attinse dallo studio della Rivoluzione francese la conoscenza che non è lo Stato che tiene insieme la società borghese bensì la società borghese lo Stato». Engels, continua F. Mehring, «imparò dall’industria inglese che i fatti economici, i quali fino ad allora non avevano avuto parte nella storiografia o erano considerati con disprezzo, nel mondo moderno perlomeno erano una potenza storica decisiva, che essi formavano la base per il sorgere dei moderni antagonismi di classe, che tali antagonismi di classe nei paesi dove grazie alla grande industria si erano pienamente sviluppati – quindi specialmente in Inghilterra – erano a loro volta la base per la formazione dei partiti politici, delle lotte di partito e perciò di tutta la storia politica» (7).

Per vie traverse, scrive F. Mehring, Engels e Marx erano giunti alla stessa meta. Engels incontrò personalmente Marx, esiliato a Parigi, nel 1844, ritrovandosi perfettamente d’accordo con lui «in tutti i campi teorici, e da allora data il nostro lavoro in comune», come scrisse, nel 1885, nella sua «Storia della Lega dei comunisti» (8). Engels precisa infatti che: «Marx non solo era giunto alla stessa opinione, ma l’aveva già generalizzata nei “Deutsch-französische Jahrbücher” (1844), nel senso che in generale non è lo Stato che condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato, che dunque la politica e la sua storia devono essere spiegate sulla base dei rapporti economici e del loro sviluppo, e non viceversa»; e continua: «Quando ci ritrovammo nella primavera del 1845 a Bruxelles, Marx dai principi fondamentali sopra indicati aveva già sviluppato in pieno nelle linee fondamentali la sua concezione materialistica della storia e ci accingemmo allora a elaborare la nuova concezione particolarmente nelle direzioni più diverse».

Tra il 1846 e il 1847 Marx scrive Miseria della filosofia, criticando totalmente le tesi di Proudhon e del suo socialismo idealistico e antidialettico ed esponendo la concezione materialistica della storia che farà da base al sistema di concezioni che costituisce il marxismo. Nel dicembre 1847 Marx ed Engels, dopo lunghi dibattiti e scontri polemici contro le posizioni del comunismo pseudo egualitario francese (alla Babeuf), contro il comunismo anarchico (alla Proudhon) e al socialismo cristiano-primitivo (alla Weitling) e contro il carattere cospirativo dell’organizzazione, vengono incaricati dalla «Lega dei Comunisti» (che fino a qualche mese prima si chiamava ancora «Lega dei giusti», il cui motto era: «Tutti gli uomini sono fratelli», sostituito poi dal motto che chiude il Manifesto di Marx-Engels «Proletari di tutto il mondo unitevi!») di elaborare un Manifesto affinché la posizione dottrinale della Lega dei Comunisti apparisse chiara e distinta dai vari « “socialismi». Engels, in realtà, si era già cimentato mesi prima con uno scritto conosciuto come i Principi del comunismo (una sorta di «catechismo», con domande e risposte, com’era costume allora), uno scritto che non aveva la pretesa di rappresentare qualcosa di definitivo, ma che servì a Marx ed Engels da  canovaccio per redigere non tanto una professione di fede, ma un vero e proprio Manifesto

Infatti, Engels, in quel periodo a Parigi, scrisse a Marx, che era a Bruxelles, il 24 novembre 1847, a proposito dell’incarico ricevuto da parte della Lega dei Comunisti: «Rifletti un po’ sulla professione di fede. Io credo che facciamo la cosa migliore se abbandoniamo la forma di catechismo e intitoliamo il tutto: Manifesto comunista. Dato che bisogna più o meno narrare la storia, la forma usata finora non si adatta per nulla. Porterò con me quella di qui che ho fatto io (9), è semplicemente narrativa, ma redatta in modo miserabile, con una fretta tremenda. Comincio: Che cos’è il comunismo? E subito dopo il proletariato: storia del suo sorgere, differenza dagli operai del passato, sviluppo dell’antagonismo tra proletariato e borghesia, crisi, conclusioni. In mezzo cose secondarie di ogni genere, e finalmente la politica dei comunisti in quanto partito, fin dove è opportuno portarla in pubblico. La cosa non è stata ancora sottoposta interamente all’approvazione, ma penso che, a parte alcune minuzie di nulla, otterrò almeno che non ci sia nulla di contrario alle nostre concezioni» (10).

Ebbene, il Manifesto del partito comunista, scritto verso la fine del 1847 e pubblicato nel 1848, segna il punto storico dal quale la teoria del comunismo si erge di fronte all’intera società borghese come l’unica ed esclusiva teoria rivoluzionaria nell’ultima società divisa in classi il cui modo di produzione capitalistico non ha soltanto creato, con lo sviluppo della grande industria, il più alto sviluppo economico, sociale e politico delle società divise in classi, ma ha anche creato la classe sociale, il proletariato salariato, che, in quanto rappresentante della sola forza produttiva tesa a rompere tutti i limiti in cui il capitalismo costringe i rapporti sociali di produzione, ha il compito storico di rivoluzionare da cima a fondo l’intera società divisa in classi. Una serie numerosissima di testi teorici e politici di Marx e di Engels, su cui svetta Il Capitale, testimoniano sia la loro dedizione alla comprensione della realtà storica e sociale, sia la loro determinazione nel combattere tutte le espressioni ideologiche, politiche e pratiche del potere borghese in ogni sua variante, quanto la loro incessante coerenza nella ricerca scientifica dello sviluppo materiale e storico della società umana applicando l’unico  metodo che potesse svelare i segreti dello sviluppo economico e della formazione delle classi tese a lottare le une contro le altre in funzione proprio dello sviluppo sociale delle forze produttive, aldifuori e contro ogni concezione metafisica, religiosa, meccanica, antidialettica.

Il mondo, scriverà Engels – riprendendo l’argomento filosofico già trattato insieme a Marx nel 1845 nell’Ideolgia tedesca –, «non deve essere concepito come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, attraversano un ininterrotto  processo di origine e di decandenza. (...) Per la filosofia dialettica non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire, dell’ascensione senza fine dal più basso al più alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante» (11). Il materialismo storico non avrebbe senso se non fosse nello stesso tempo anche dialettico, quindi se la teoria della conoscenza applicata all’uomo e alla sua società non spiegasse la coscienza individuale con l’essere, e non viceversa, e spiegasse perciò la coscienza sociale con l’essere sociale, ossia con gli uomini che entrano in rapporti di produzione determinati dal grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali; è l’insieme di questi rapporti di produzione, dunque, che costituisce la struttura economica della società, base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale (Lenin). Quando si tratta di indagare le forze motrici che si nascondono dietro ai motivi «che muovono gli uomini agenti storicamente e costituiscono le vere forze motrici ultime della storia, non si può trattare tanto dei motivi che spingono all’azione gli uomini singoli, siano essi eminenti quanto si voglia, quanto dei motivi che mettono in movimento grandi masse, popoli interi e, in ogni popolo, intere classi; e che li mettono in movimento non per un balzo momentaneo e passeggero, per un fuoco di paglia rapido a spegnersi, ma per un’azione di lunga durata, che mette capo a una grande trasformazione storica» (12).

La struttura economica della società crea le classi; nello sviluppo storico delle società divise in classi, giunti alla società capitalistica, le classi decisive si sono ridotte a due: borghesia e proletariato. La coscienza sociale dell’una e dell’altra classe si spiega con l’essere sociale dell’una e dell’altra classe. L’essere sociale della borghesia consiste nell’aver imposto rivoluzionariamente alla società intera, grazie allo sviluppo delle forze produttive già avviato all’interno della società feudale, rapporti di produzione e di proprietà borghesi, rapporti determinati dal fatto di essere proprietaria di tutti i mezzi di produzione, terra compresa, e di appropriarsi tutta la produzione sociale, obbligando l’intera società a sottostare alle leggi del mercato capitalistico e obbligando il proletariato, in quanto forza lavoro, a vivere esclusivamente sotto il regime del lavoro salariato, dovendo perciò far dipendere la sua vita esclusivamente dal fatto di poter vendere o meno la sua forza lavoro ai capitalisti. Da quando esistono le società divise in classi, esiste la lotta fra le classi, condotta dalle classi possidenti e dominanti contro le classi subordinate e dominate, e dalle classi subordinate che si ribellano allo sfruttamento e all’oppresione e che, storicamente, hanno sempre rappresentato lo sviluppo delle forze produttive in lotta contro le forme della produzione che ne frenavano o ne impedivano lo sviluppo, forme della produzione imposte dalle classi dominanti e mantentute a salvaguardia del proprio dominio e dei propri privilegi.

La rivoluzione sociale che ha avviato e infine imposto la nuova società contro la vecchia, finora ha sempre poggiato su basi economiche che, grazie al loro iniziale sviluppo, «chiedevano» nuove forme di produzione. La rivoluzione borghese, infatti, è iniziata prima di tutto sul terreno economico sotto il feudalesimo, trasformando il lavoro individuale e artigianale in lavoro associato più adatto alle innovazioni tecniche applicate alla produzione, e a formare quindi rapporti di produzione più adatti al nuovo modo di produzione, elevandosi poi al livello della lotta politica rivoluzionaria quando lo sviluppo delle nuove forze produttive non era più contenibile nei vecchi rapporti sociali di tipo feudale, antico, se non addirittura schiavistico. Ogni classe dominante, nella storia delle società divise in classi, ha avuto la sua fase rivoluzionaria, la sua fase di stabilizzazione e di conservazione e la sua fase reazionaria. La classe borghese non sfugge a questa legge storica. A differenza delle società precedenti, la società capitalistica, pur essendo caratterizzata da uno sviluppo ineguale del capitalismo nei diversi paesi e continenti, ha comunque universalizzato le leggi mercantili del capitalismo in ogni angolo del mondo, generalizzando in ogni continente i rapporti di produzione e di proprietà borghesi. Ciò significa che, nonostante l’arretratezza economica inevitabile in cui soggiaciono moltissimi paesi rispetto ai paesi capitalistici avanzati, le condizioni di vita e di lavoro delle masse lavoratrici dipendono comunque dallo stesso regime del lavoro salariato che esiste nei paesi avanzati. Se i borghesi in tutto il mondo sono accomunati dallo stesso tipo di rapporto di proprietà esclusiva dei mezzi di produzione e di dominio sociale esercitato attraverso il mezzo di dominio più efficace che esista, lo Stato, i proletari di tutto il mondo sono accomunati dalla condizione di essere senza riserve, di essere lavoratori salariati, di essere solo ed esclusivamente forza lavoro a disposizione delle esigenze del capitale; il proletario se non ha lavoro non mangia, il borghese non lavora ma non salta mai un pasto. 

La borghesia, tronfia dello spettacolare progresso economico industriale e sociale del sistema capitalistico di cui rappresenta gli interessi generali, e particolari, è stata sempre ben conscia dell’esistenza della lotta fra le classi e del suo sviluppo storico. Lo stesso Marx non ebbe alcun dubbio ad ammetterlo. Nella lettera a Joseph Weydemeyer del 5/3/1852, infatti, scrisse: «Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi» (13). In questi tre punti sono condensati i punti fondamentali della dottrina marxista sia dal punto di vista del materialismo storico e dialettico, sia dal punto di vista del programma rivoluzionario del proletariato, destinato storicamente ad unirsi necessariamente «in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe» (14).

Con ragione Lenin affermerà, nella tenace e vigorosa letta contro ogni forma di opportunismo, che nessuno può dirsi comunista marxista se non riconosce che la lotta di classe del proletariato deve sfociare nella sua dittatura di classe, che tale lotta non può essere condotta pacificamente ma con la violenza rivoluzionaria attraversando le necessarie fasi della conduzione della rivoluzione proletaria da parte del partito di classe, dell’abbattimento dello Stato borghese (e, come in Russia nel 1917 e in tutti i paesi coloniali esistenti, anche dello Stato autocratico e monarchico), e della instaurazione della ditattura proletaria esercitata unicamente dal partito comunista rivoluzionario per intervenire dispoticamente nei rapporti politici, sociali ed economici esistenti e per sostenere la lotta rivoluzionaria del proletari in tutti i paesi in cui la borghesia è ancora al potere. E mai gli è venuto in mente di teorizzare che la rivoluzione proletaria è tale solo se avviene contemporaneamente in tutti i paesi capitalistici avanzati. La prospettiva della lotta di classe del proletariato – a differenza di quella della borghesia – non è mai stata nazionale, ma internazionale, sebbene, proprio per lo sviluppo storico ineguale del capitalismo la rivoluzione proletaria può avvenire, all’inizio del processo rivoluzionario, anche in un solo paese, ma non potrà mai dirsi veramente vittoriosa sulla borghesia e sul capitalismo se non si estende a livello mondiale.

Uno dei nodi più ostici che si presentava ai socialisti e ai comunisti dell’Ottocento era sicuramente quello di capire fino in fondo la legge economica della società capitalistica, legge svelata da Marx in particolare (soprattutto nel Capitale). E qui riprendiamo Lenin e il suo già citato opuscolo Karl Marx. Lenin, infatti, afferma: «Lo studio dei rapporti di produzione di una società storicamente determinata, nella loro origine, nel loro sviluppo e nella loro decadenza: tale è il contenuto della dottrina economica di Marx. Nella società capitalistica domina la produzione delle merci: e perciò l’analisi fatta da Marx incomincia con l’analisi della merce».

E’ da questa lunga e approfondita analisi che Marx fa emergere la legge del valore, per cui nella società capitalistica il valore d’uso di ogni prodotto assume la qualità di merce, ossia la qualità di valore di scambio; nel processo storico dello sviluppo della produzione mercantile e degli scambi, il valore delle merci viene rappresentanto dal denaro che, a sua volta, ad un certo grado di sviluppo della produzione mercantile, si trasforma in capitale. Questa particolare trasformazione è visibile nell’aumento del denaro nella circolazione capitalistica, e questo è un fatto noto a tutti. Ma da dove trae origine questo aumento? Ecco il mistero che la borghesia non ha saputo spiegare se non con le astruserie relative alla concorrenza e al gioco dei prezzi dei vari prodotti immessi nel mercato.

E’ Marx a svelare il mistero: ogni prodotto che si scambia nel mercato è il risultato della produzione delle merci che vi arrivano contenendo un determinato valore (non solo d’uso, ma soprattutto di scambio); ma perché tutte le merci, quindi tutti i valori di scambio, possano essere effettivamente scambiati nel mercato, hanno bisogno non solo di un mezzo equivalente delle merci che non abbia le caratteristiche dei diversi valori d’uso dei prodotti, ma che consenta lo scambio delle merci con un mezzo di circolazione e di pagamento che rappresenti formalmente e astrattamente il valore di ogni merce pur essendo le merci scambiate completamente diverse le une dalle altre, e questo mezzo è il denaro cioè una merce che rimane sempre la stessa rispetto a tutte le altre merci che si scambiano.

Ogni merce è prodotta dal lavoro umano, e quel che tutte le merci hanno di comune è appunto il lavoro umano. Dunque, il valore di ogni prodotto che esce dalla produzione capitalistica è determinato non solo dal valore dei mezzi di produzione messi in opera e dal valore delle materie prime da trasformare in prodotti da scambiare nel mercato (il capitale fisso della composizione organica del capitale), ma anche dalla forza lavoro, trasformata essa stessa in merce nel regime salariale, che viene impiegata per questa trasformazione (il capitale variabile della stessa composizione organica del capitale), forza lavoro il cui valore viene misurato in tempo di lavoro giornaliero impiegato nel ciclo produttivo. Se entrambi i valori, fisso e variabile, concluso il ciclo produttivo, transitassero nelle merci prodotte nella stessa quantità originaria, non ci sarebbe alcun aumento di capitale, alcun guadagno in denaro da parte del capitalista. Il valore del capitale fisso si trasmette, nelle opportune quote, nel prodotto finito attraverso i lavoro umano. Dunque è nella forza lavoro, e precisamente nel suo tempo di lavoro giornaliero, che va cercato il misterioso meccanismo attraverso il quale il capitale originalmente impiegato all’inizio del ciclo produttivo si ritrova aumentato alla fine del ciclo produttivo e dello scambio nel mercato.

Anche la forza lavoro umana ha un suo valore d’uso; il suo uso è appunto il lavoro, ed è il lavoro che crea il valore. Nel capitalismo, come ogni altra merce, la merce forza lavoro ha un suo valore di scambio, valore che è determinato, come per ogni altra merce, dal tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione (e riproduzione, cioè dal costo del mantenimento dell’operaio e della sua famiglia). L’operaio, quindi, a fronte dell’uso capitalistico della sua forza lavoro, riceve in cambio un salario, ossia una quantità di denaro per la sua giornata di lavoro, ma che, in realtà, corrisponde solo al tempo di lavoro necessario alla sua sopravvivenza, ma non al valore dell’intera giornata di lavoro. Il valore della giornata di lavoro dell’operaio è quindi diviso in tempo di lavoro necessario al sostentamento dell’operaio, pagato col salario, e tempo di lavoro non pagato all’operaio, dunque un valore che si intasca il capitalista e che Marx ha chiamato plusvalore: un valore che viene estorto all’operaio dal capitalista in quanto il salario pagato all’operaio per l’intera giornata lavorativa copre in realtà una parte soltanto delle ore giornaliere lavorate. Perciò l’aumento del capitale proviene dall’estorsione del plusvalore dalla forza lavoro operaia. Svelando questo mistero, Marx spiega anche le lotte degli operai per la riduzione della giornata di lavoro e per l’aumento dei salari contro i capitalisti che, per aumentare il plusvalore, utilizzavano due metodi: il prolungamento della giornata di lavoro («plusvalore assoluto») e la riduzione del tempo di lavoro necessario («plusvalore relativo») che, in entrambi i casi, significava aumento della produttività del lavoro operaio, cioè della fatica del lavoro, e quindi dello sfruttamento della forza lavoro salariata. 

Ma la vera differenza tra la prima epoca del capitalismo manifatturiero e l’epoca successiva del capitalismo della grande industria sta nella accumulazione del capitale, cioè «nella trasformazione di una parte del plusvalore in capitale, dell’impiego del plusvalore non già per i bisogni personali o per i capricci del capitalista, ma per una nuova produzione», in in forza di questa trasformazione del plusvalore in capitale che Marx definisce organica la composizione del capitale, in capitale fisso, o costante (mezzi di produzione, materie prime, infrastrutture) e capitale variabile (forza lavoro salariata); organica perché l’uno senza l’altro non vivrebbe. L’utilizzo di parte del plusvalore nella produzione, avendo l’obiettivo di aumentare la produttività generale del lavoro, accelera l’impiego di macchine e di innovazioni tecniche, il che comporta la sostituzione di una massa sempre più grande di forza lavoro salariata da parte delle macchine, creando il cosiddetto esercito industriale di riserva, cioè ad un polo la ricchezza e al polo opposto la miseria. La massa di operai disoccupati, ossia l’esercito industriale di riserva, a seconda della potenza economica raggiunta dal capitalismo nei diversi paesi, in determinati periodi di espansione tende a diminuire, ma nei periodi di crisi invece tende ad aumentare; è, in ogni caso, un fenomeno costante dello sviluppo del capitalismo.

Questo fenomeno non può essere assorbito dai cicli produttivi capitalistici, nonostante la loro rapida espansione, perché l’accumulazione del capitale, nel suo processo di crescita continua, è determinata dall’aumento della produttività del lavoro nella giornata intera di lavoro, quindi dalla diminuzione del tempo di lavoro giornaliero necessario all’operaio per il suo sostentamento (valore del tempo di lavoro pagato col salario) rispetto al tempo di lavoro giornaliero non pagato, rispetto quindi al plusvalore. Ipotizzando la giornata lavorativa standard di 8 ore (ai tempi di Marx era di 12 ore), l’operaio, per coprire il salario che riceve, lavora metà giornata, 4 ore, per la propria sopravvivenza e per tornare ogni giorno a lavorare per il capitalista, mentre il valore delle altre 4 ore se lo intasca totalmente il capitalista; con le continue innovazioni tecniche apportate alla produzione e alla distribuzione, il tempo di lavoro giornaliero necessario alla vita dell’operaio tende a diminuire, la produttività capitalistica quindi aumenta: le ore che corrispondono al plusvalore tendono ad aumentare, da 4 passano a 5, a 6 e oltre a seconda del tipo di produzione e delle innovazioni tecniche apportate. Dal punto di vista del capitale questo è un enorme guadagno, ed è assicurato dai rapporti di produzione e di proprietà della società borghese nella misura in cui sono mantenuti e difesi dalla forza e dalle leggi dello Stato borghese.

Questo eccezionale salto della produttività del lavoro industriale costituisce, allo stesso tempo, la base economica del socialismo e non solo per l’alto livello raggiunto dalla produzione (che sotto il capitalismo non può che essere mercantile), ma anche per il fatto che il tempo di lavoro giornaliero necessario ai lavoratori per il sostentamento proprio e della propria famiglia si riduce sensibilmente: ciò significa che, nel socialismo, quando la produzione non sarà più produzione di merci, e quindi produzione per il mercato, ma produzione utile soltanto alla vita degli uomini, e quando tutti gli esseri uomani atti al lavoro lavoreranno per l’intera società, il tempo di lavoro giornaliero necessario potrà essere ridotto a una o due ore, pur contando la necessità di lavorare anche per tutti coloro che non sono in grado di farlo (neonati e bambini piccoli, infermi ecc.). Si tratterà perciò di pluslavoro e non di plusvalore, un pluslavoro necessario, ad esempio, anche per le scorte da utilizzare in periodi non favorevoli dal punto del vista della stagionalità agricola o in caso di catastrofi naturali. Ovvio, che per la produzione socialista, nel suo pieno sviluppo, non saranno le aziende i soggetti produttivi, ma essa sarà sottoposta ad una pianificazione centralizzata in grado di prevedere i bisogni reali del genere umano, pianificazione che non potrà coesistere né con la produzione mercantile per aziende, né con la divisione della società in classi. 

L’economia capitalistica, essendo basata sulla produzione per aziende e per il mercato e non per la soddisfazione delle esigenze di vita della specie umana, va periodicamente e inevitabilmente incontro alle crisi di sovraproduzione, determinate dall’anarchia produttiva che caratterizza la società borghese e dalla lotta di concorrenza. E’ una lotta che provoca la centralizzazione dei capitali, che tende quindi al monopolio del capitale, ma che nello stesso tempo – come scrive Lenin – sviluppa alla scala sempre crescente, e internazionale, la forma associata del lavoro, l’applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili soltanto collettivamente, l’economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale, sviluppando così, in misura sempre crescente, il carattere internazionale del regime capitalistico. Questo processo di trasformazione genera l’aumento della massa proletaria nel mondo,  e fa crescere la miseria, la fame, la repressione, la degenerazione, lo sfruttamento; ma provoca anche la ribellione e la lotta della classe operaia in ogni paese, contro la quale ribellione e lotta le borghesie usano i più disparati mezzi di pressione, di controllo e di repressione, a seconda della storia della lotta fra le classi e dello sviluppo economico di ogni paese.

       Per quanto la borghesia capitalistica adotti misure di controllo sociale per attenuare la spinta alla lotta da parte delle masse operaie, non può evitare di usare la forza e la repressione per impedire alla classe proletaria di organizzarsi in difesa dei propri interessi sul terreno dello scontro diretto con gli interessi borghesi. Sulla base della sua esperienza di classe dominante, la borghesia sa che il maggior pericolo per il suo potere viene dalla lotta di classe del proletariato. Ha già saggiato la forza dirompente del movimento rivoluzionario proletario, e ha riconosciuto, sebbene a denti stretti, che questa formidabile forza sociale ha la possibilità di muovere vittoriosamente la sua guerra di classe contro la borghesia alla condizione di essere diretta da una coscienza politica che supera di gran lunga la spontanea ribellione allo sfruttamento, una coscienza che soltanto il movimento storico delle lotte fra le classi ha potuto far maturare tanto da rappresentare la vera carta vincente del moderno movimento proletario: la teoria del comunismo rivoluzionario, la teoria marxista. La rivoluzione d’Ottobre del 1917 e la dittatura proletaria guidata dal partito bolscevico di Lenin che è seguita al suo esito vittorioso, hanno dimostrato agli stessi proletari, non solo russi ma del mondo, esattamente questo. Ecco perché le borghesie di tutti i paesi più progrediti si sono alleate con la reazione zarista nel tentativo di sconfiggere e seppellire la rivoluzione in Russia di cui avevano percepito molto bene la sua potenzialità mondiale; non ce la fece sul terreno militare, ma ci riuscì grazie all’opera controrivoluzionaria delle forze riformiste, socialdemocratiche e, infine, staliniste, che fecero degenerare i partiti comunisti e, per mezzzo loro, l’intero movimento proletario internazionale. Ma quella percezione, le borghesie dei paesi più progrediti l’avevano anche ai tempi di Marx, ai tempi in cui Marx era definito il red terror doctor, il teorico del terrore rosso, del terrorismo proletario di cui la dittatura di classe proletaria non avrebbe potuto fare a meno per resistere agli attacchi della controrivoluzione (altrettanto terroristici) e batterla.

       Engels, nel suo ultimo saluto di fronte alla tomba di Marx, meglio di qualsiasi altro compagno di lotta, ha saputo spiegare chi è stato e che cosa ha rappresentato, e rappresenta, Karl Marx. Ecco le sue parole:

«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tran­quillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre.

«Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.

«Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana cioè il fatto elementare, finora nascosto sotto l’orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, d’arte, di religione, ecc.; e che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immedia­ti di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un’epoca in ogni momento determinato costituiscono la base sulla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l’arte ed anche le idee religiose degli uomini, e partendo dalla quale esse devono venir spiegate, e non inversamente, come si era fatto finora.

«Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti.

«Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire tutta una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui Marx ha svolto le sue ricerche e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale, in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.

«Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell’elettricità e, ancora in questi ultimi tempi, quelle di Marcel Deprez (15).

«Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto. La prima Rheinische Zeitung nel 1842, il Vorwàrts di Parigi nel 1844, la Deutsche Brusseler Zeitung nel 1847, la Neue Rheinische Zeitung nel 1848-49, la New York Tribune dal 1852 al 1861 e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande Associazione Internazionale degli Operai, ecco un altro risultato di cui colui che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto nient’altro.

«Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. E’ morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.

«Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!» (16).

Pochi mesi dopo la morte di Marx, il 28 giugno 1883, nella Prefazione alla terza edizione tedesca del «Manifesto del partito comunista», pubblicata a Zurigo, Engels tenne a sottolineare che: «L’idea fondamentale e dominante del Manifesto, ossia che la produzione economica – e la struttura sociale che da essa necessariamente deriva – in ogni epoca storica costituisce il fondamento della storia politica e intellettuale di questa stessa epoca, e che in base a ciò (dopo la dissoluzione dell’antichissima proprietà comune della terra) tutta la storia è stata una storia di lotte di classi, di lotte tra classi sfruttate e sfruttatrici, tra classi dominate e dominanti ai diversi stadi dello sviluppo sociale; che questa lotta ha raggiunto ora uno stadio in cui la classe sfruttata e oppressa (il proletariato) non può affrancarsi dalla classe che la sfrutta e l’opprime (la borghesia) senza liberare al contempo per sempre tutta la società da sfruttamento, oppressione e lotte di classe, questa idea fondamentale appartiene unicamente ed esclusivamente a Marx» (17).

Il marxismo, dunque, non consiste soltanto nell’aver descritto la realtà della società capitalisitica, la sua formazione storica e il suo sviluppo fino al suo ultimo stadio, che Lenin definì imperialismo, e che Marx l’aveva anticipato con la teoria dello sviluppo storico della concentrazione dei capitali a livello mondiale, e l’ha potuto fare applicando alla storia delle società umane il metodo scientifico come è stato fatto per la natura, ma consiste anche nella dimostrazione che lo stesso sviluppo della struttura sociale del capitalismo e della lotta di classe tra classe dominante borghese e classe dominata proletaria porta necessariamente all’emancipazione dell’intera società da ogni sfruttamento, da ogni oppressione, quindi da ogni lotta fra le classi perché le classi stesse non avranno più ragione di esistere. Il comunismo sarà, dunque, semplicemente la società senza classi, la società in cui la struttura economica e sociale sarà indirizzata a produrre e riprodurre la vita umana e sociale senza alcuno sfruttamento del lavoro umano, senza alcuna oppressione di classe.

 


 

(1) Cfr. Lenin, Il carteggio Marx-Engels, 1913, Opere, vol. 19, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 515.

(2) Cfr. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, 1913, Opere, vol.  19, cit., p. 10.

(3) Cfr. Lenin, Karl Marx, 1914, Opere, vol. 21, p. 40.

(4) Ibidem, p. 41.

(5) Ibidem, p. 45.

(6) Cfr. Franz Mehring, Storia della socialdemocrazia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1961, vol I, pp. 200-201.

(7) Ibidem, p. 201.

(8) Cfr. F. Engels, Per la storia della Lega dei comunisti, Londra, 8 novembre 1885, in Appendici al “Manifesto del partito comunista” di Marx-Engels, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 257, come le due citazioni successive; e in F. Engels, Scritti maggio 1883 – dicembre 1889, edizioni Lotta Comunista, Milano, 2014, da p. 208.

(9) Cioé I principi del comunismo.

(10) Cfr. Engels a Marx(a Bruxelles), Parigi 23-24 novembre 1847, in Marx-Engels, Opere complete, vol. XXXVIII, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 114.

(11) Cfr. F. Engels, Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, 1888, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 52.

(12) Ibidem, p. 59.

(13) Cfr. Marx a J. Weidemeyer, 5 marzo 1852, in Opere complete, vol. XXXIX, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 534-538.

(14) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848, § II. Proletari e comunisti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 158.

(15) Marcel Deprez (1843-1918), ingegnere francese che nel 1882 attuò degli esperimeni perl’uso delle correnti alternate per il trasporto a distanza di energia elettrica. Nel 1886, con J. Carpentier progettò un trasformatore per il trasporto dell’energia elettrica riuscendo a trasmettere una potenza di 500 CV da Creil a Parigi, ad una distanza cioè di 56 chilometri.

(16) Marx, morto il 14 marzo, fu tumulato al cimitero londinese di Highgate il 17 marzo, e questo è il testo dell’orazione funebre di Engels. Cfr. https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1883/marx.htm

(17) Cfr. Prefazione al Manifesto del Partito comunista, edizione tedesca del 1883, in F. Engels, Scritti maggio 1883-dicembre 1889, edizioni Lotta Comunista, p. 7.

 

 

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