Venezuela

L’unica via di salvezza per i proletari: la lotta di classe

(«il comunista»; N° 177 ; Marzo-Maggio 2023)

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Da gennaio di quest’anno, in Venezuela si sono moltiplicati gli scioperi e le manifestazioni di piazza, organizzate principalmente da lavoratori dell’istruzione. Gli slogan delle manifestazioni ruotano intorno al salario: «il dollaro sale, il salario scende, la fame avanza»; «E tu, Maduro, presidente operaio, quanto guadagni?»; «Salari  da fame, pensioni di morte». E non c’è da stupirsi: secondo l’agenzia Bloomberg, il salario minimo reale in Venezuela a dicembre era di 8 dollari al mese (8,80 euro) e a gennaio non superava i 6 dollari (!), il salario di gran lunga più basso dell’America Latina. A ciò si aggiunge l’iperinflazione che secondo dati governativi raggiunge il 234%, incomparabile con quella del 2018 che ha toccato il 130.000%, ma che continua ad essere dopo il Sudan, la più alta del mondo. D’altra parte, la Banca Mondiale ritiene che le persone che sopravvivono con meno di 2,15 dollari al giorno siano in condizioni di estrema povertà... Di fronte a questo si resta senza parole.

Il governo, da parte sua, promuove l’idea che «il Venezuela sta migliorando», ma per l’economista M. Sutherland «se il Venezuela cresce allo stesso ritmo con cuiMaduro sostiene che è cresciuto nel 2021, cioè del 5%, per tornare all’economia del 2013 ci vorrebbero 32 anni». Molto probabilmente, quella ripresa non avrà effetti sulle classi povere della società venezuelana. Secondo Encovi-Venezuela (Encuesta Nacional sobre Condiciones de Vida), organizzazione citata dal New York Times,  «...per la prima volta in sette anni, la povertà sta diminuendo: metà del paese vive in povertà, rispetto al 65 per cento del 2021». Come illustra il quotidiano nordamericano, «molti sopravvivono con l’equivalente di pochi dollari al giorno, e i dipendenti del settore pubblico sono scesi in piazza per protestare contro i bassi salari»... Ma l’inchiesta, sempre secondo il NYT, ha rivelato anche che «i venezuelani più ricchi erano 70 volte più ricchi dei più poveri, posizionando il paese alla pari di alcuni paesi dell’Africa con i più alti tassi di disuguaglianza nel mondo». Questa tremenda disuguaglianza è una delle condizioni richieste dalle istituzioni borghesi, in particolare degli Stati Uniti, perché il governo Maduro continui a rimanere al potere, mantenendo una debole pace sociale che non ha paragoni con quella di 3 anni fa. Questa è la ragione fondamentale della disgregazione dell’opposizione borghese, che a dicembre ha abbandonato il suo fantoccio «autoproclamato presidente», il signor Guaidó, diventato più impopolare di Maduro, in particolare a causa della gestione fraudolenta delle risorse fornite dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Non poteva essere diversamente!

Le proteste hanno sorpreso il governo, e gli stessi manifestanti che, dopo la convocazione, non si aspettavano così tanti lavoratori in piazza. Ma il malcontento dilaga: a Ciudad Guayana, che è il principale polo dell’industria pesante del Paese, e che oggi soffre di cali di produzione dovuti alla mancanza di risorse per garantire la manutenzione e l’ammodernamento, gli operai della Sidor, la principale azienda nelle mani dello Stato chavista, con l'aiuto di lavoratori di altri settori della regione, sono scesi in piazza chiedendo salari migliori e il rispetto delle conquiste contrattuali. Una dozzina di militanti operai sono stati incarcerati e accusati di sedizione (l’intero sud-est del Venezuela costituisce una "zona di sicurezza"), ma grazie alle pressioni operaie sono stati presto rilasciati. Si è mobilitato anche il settore sanitario, la cui resistenza per diversi anni ha salvato l’onore dei proletari di questo paese, così come si sono mobilitati i lavoratori del petrolio, i dipendenti pubblici e gli anziani in pensione per gli stessi motivi: la fame e la miseria. Il 12 gennaio tutta questa massa di protesta si aspettava di sentire dal presidente Maduro, nel suo messaggio annuale, un parere positivo riguardo alle loro richieste. Ma lui si è limitato a dire che non poteva ancora aumentare il salario minimo a causa del «blocco», cioè delle 900 sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti al paese caraibico; ma va detto che queste sanzioni e le pressioni verso Caracas sono diminuite permettendo di effettuare più scambi di petrolio, la principale fonte di valuta estera per il Venezuela. Indubbiamente, queste sanzioni hanno colpito duramente la capacità e il potenziale economico del Venezuela e spingono il governo a prendere misure sulle spalle della stragrande maggioranza della popolazione. «Siamo consapevoli e agiamo», ha affermato Maduro.

Ancora il 23 gennaio, data della celebrazione la della Democrazia in Venezuela, i settori di lavoratori sopra citati sono scesi nuovamente in piazza a migliaia in tutto il paese. Non ci sono stati feriti, morti o arresti, ma c’è stata una consistente mobilitazione delle forze dell’ordine che cercavano di impedire il passaggio dei manifestanti, così come minacce e contromanifestazioni da parte dei settori chavisti, che chiedevano la difesa della Patria dal giogo imperialista: manifestazioni chaviste autodefinitesi «ribellioni antimperialiste», che rappresentano un volgare ricatto, come se in nome della patria si dovessero patire la fame e gli stenti...

In questa situazione complessa e difficile, dove la borghesia venezuelana si sta arricchendo con il permesso di un partito che si definisce socialista e i proletari sono terribilmente impoveriti, le manifestazioni, le sospensioni del lavoro e gli scioperi rappresentano un buon segno che dobbiamo salutare con favoreperché possono costituire i passi verso la via della salvezza per i proletari: la lotta di classe.

 

 

Partito Comunista Internazionale

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