Guerra russo-ucraina

Sono i piani di guerra, non di "pace", al centro degli interessi dell'imperialismo mondiale, sempre più immerso in contrasti irrisolvibili se non con la guerra 

(«il comunista»; N° 178 ; Giugno-Agosto 2023)

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In attesa di uscire con un opuscolo dedicato a questa guerra, e mentre raccogliamo gli articoli che lo costituiranno, vogliamo dare uno sguardo ai cosiddetti «piani di pace» di cui la stampa mondiale ha parlato. Al momento, esistono due nuovi piani di pace «ufficializzati»: quello stilato da Zelensky, concordato con gli anglo-americani, e quello stilato dalla Cina. E’ stato avanzato un terzo «piano di pace» da parte dell’Indonesia, ma è stato messo da parte da tutti gli interessati.

Già nel 2014, e poi ancora nel 2015, di fronte ai conflitti nel Donbass tra i filo-russi e i filo-ucraini che andavano avanti da parecchio tempo, i governi russo e ucraino, con la mediazione di Germania (Merkel) e Francia (Hollande) avevano stilato accordi di pace a Minsk, la capitale della Bielorussia. Quegli accordi prevedevano, sostanzialmente, un’autonomia delle due regioni contese – la regione di Doneck e quella di Lugansk –; si prevedeva, tra l’altro, una «zona-cuscinetto» di 15 km tra i due confini e sotto il controllo di rappresentanti dell’OSCE. Ma quegli accordi sono stati disattesi sia dagli ucraini che dai filorussi. In realtà, dopo che la Russia si è annessa la Crimea nel 2014, si sono sviluppati scontri continui tra l’esercito ucraino, le bande naziste (come, ad es., il battaglione Azov) e i filorussi del Donbass. Dopo 8 anni in cui il governo ucraino ha continuato a opprimere e reprimere i civili filorussi nelle regioni del Donbass, le regioni (oblast) di Doneck e di Lugansk si sono autoproclamate Repubbliche popolari autonome, sostenute naturalmente dalla Russia e da essa soltanto riconosciute, come d’altra parte la Crimea.

Nei vari articoli che abbiamo pubblicato abbiamo anche ricordato come negli accordi presi nel 1991-92 tra Russia e Stati Uniti, all’epoca del crollo dell’URSS e della costituzione di nuovi Stati «indipendenti» tra cui l’Ucraina, gli Stati Uniti si impegnavano a non schierare ai confini della Russia basi e postazioni Nato. E come succede a tutti gli accordi tra briganti, prima o poi questi accordi saltano per opera di uno o dell’altro firmatario; i loro interessi strategici e i rapporti di forza, nel loro modificarsi, col tempo modificano anche l’atteggiamento degli Stati rispetto agli accordi sottoscritti.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia era attesa dagli Stati Uniti. L’inglese The Guardian ha rivelato – secondo l’agi.it dell’8 maggio scorso (1) – che Putin aveva detto all’ex presidente americano Clinton, nel 2011, tre anni prima dell’annessione della Crimea, che non si riteneva vincolato dal memorandum di Budapest (non l’aveva firmato lui, ma Boris Eltsin) in cui, contro la consegna di tutte le armi nucleari dell’Ucraina, la Russia avrebbe garantito l’integrità territoriale dell’Ucraina. Era stato Clinton stesso a rivelarlo qualche giorno prima durante una conferenza in un centro ebraico a New York.

Dunque, gli Stati Uniti sapevano che prima o poi la Russia avrebbe attaccato l’Ucraina – come aveva già fatto con la Cecenia e la Georgia –, che Putin considera da sempre parte integrante della Russia. Ma, dall’alto della loro forte posizione Nato che controllava quasi l’intero confine russo con l’Europa occidentale (avendo accorpato in essa quasi tutti gli ex paesi «socialisti»), gli Stati Uniti attesero che la Russia facesse la «prima mossa», per avere così a proprio vantaggio l’argomento propagandistico per eccellenza: con l’aggressione militare dell’Ucraina, la Russia straccia gli accordi e minaccia l’intera Europa!   

E’ da quando è stato fatto decadere il presidente filo-russo Yanuchovitch che gli anglo-americani si sono dati da fare per sostenere ogni genere di movimento politico, e di provocazione, che servissero ad aprire le porte dell’Ucraina all’influenza politica «occidentale». L’Ucraina era l’ultimo paese europeo ancora in bilico tra l’occidente euro-americano e l’oriente russo; un boccone troppo ghiotto per la Nato e per l’Unione Europea per lasciarlo sotto influenza russa. D’altra parte, nella lunga fase imperialista del capitalismo che stiamo attraversando, nessun paese è lasciato libero di agire nel mercato mondiale secondo interessi esclusivamente nazionali. Figuriamoci se può succedere nei confronti di paesi, come l’Ucraina (e come la Polonia), che rappresentano un punto nevralgico e strategico  nel contrasto fra gli imperialisti euroamericani e l’imperialismo russo. Le potenze imperialiste più forti decidono le sorti della pace e della guerra a seconda dei propri interessi imperialistici e sulla base di leggi economiche che, nella realtà, non sono in grado di controllare, come dimostrano le continue crisi che scuotono le economie e le borse. La «libertà» e la «democrazia» che costituirebbero i «valori della civiltà occidentale» sono specchietti per le allodole, miti utili per confondere e illudere le masse proletarie del mondo, per schiacciarle sotto le esigenze di dominio borghese oltre che sotto le condizioni salariali. Non sempre la politica estera dei paesi imperialisti più forti segue unicamente il loro interesse economico; nei contrasti interimperialistici l’economia, la finanza e la politica estera si intrecciano strettamente tanto da far sì che determinate «politiche» anticipino in prospettiva obiettivi economici e finanziari. Se è vero che la guerra è la continuazione della politica estera attuata con mezzi militari, è anche vero che le condizioni in cui gli avversari entrano in guerra non sono chiaramente predeterminate, non rispondono ad un preciso disegno nel quale sono state considerate tutte le diverse ipotesi in cui lo scontro avverrà e si svilupperà. Come di fronte alle crisi economiche di grande rilevanza, così di fronte alle crisi di guerra, la politica imperialista non precede ma segue gli eventi; perciò l’imperialismo non riesce, e non riuscirà mai, a prevenire e ad impedire che la crisi economica scoppi, o che scoppi la guerra. La cosa che può fare, e fa, sapendo ormai per esperienza che prima o poi la crisi capitalistica di sovraproduzione scoppierà, è di prepararsi, soprattutto dal punto di vista militare, ad affrontare la crisi e, quindi, le reazioni degli Stati concorrenti, per approfittare di ogni punto debole degli avversari al fine di guadagnare un vantaggio a favore dei propri interessi di dominio.

Il gigante russo non si sarebbe aspettato, pur sapendo che Kiev contava sull’appoggio politico e militare occidentale, una resistenza così tenace all’invasione militare; né gli americani si sarebbero aspettati una condotta così orgogliosa da parte di un popolo che, fin dall’inizio dell’invasione, viene platealmente sacrificato non solo all’interesse del capitalismo nazionale, ma all’interesse del dominio di potenze imperialiste che non hanno altro obiettivo se non quello di procedere, di massacro in massacro, pur di toglierlo al dominio di una potenza imperialista avversa.

Mentre scriviamo ci stiamo avvicinando ai 500 giorni di guerra, di bombardamenti, di distruzioni, con decine e decine di migliaia di morti, centinaia di migliaia di feriti da una e dall’altra parte dei fronti, con vaste masse ridotte alla fame e in fuga dalla proprie case. E mentre si consuma questa orrenda tragedia – l’imperialismo russo colpevolizza l’occidente per non avere rispettato gli accordi di reciproca sicurezza, gli imperialisti americani ed europei scaricano le colpe dei massacri di guerra sui russi che incolpano di voler invadere, dopo l’Ucraina, tutta l’Europa – i campioni della «libertà» annunciano, nello stesso tempo, che questa guerra durerà a lungo, e che non è il caso di «negoziare» né un cessate il fuoco, né una tregua, né tantomeno la «pace».

Ciò non toglie che, per alimentare la propaganda insieme bellicista e «pacifista», si spronino i media di tutto il mondo a raccontare che «qualcuno» alla pace ci sta pensando, e propone dei «piani» da presentare in consessi più o meno ristretti, o più o meno larghi. Le stessi mani sporche del sangue dei soldati mandati al macello e dei civili fatti oggetto dei missili di ogni specie, ribadendo un NO alla fine della guerra se non dopo «aver vinto» – e in questo Zelensky e Putin sono della stessa idea – sono quelle che scrivono un «piano di pace» o che rispondono «non se ne parla proprio»!     

 

I PIANI DI PACE

 

Il «piano di pace» di Zelensky in dieci punti è stato ufficializzato e presentato alla riunione del G20 a Bali, in Indonesia, nel novembre 2022, dopo averlo ovviamente discusso con Biden.

Questo piano prevede, in sintesi: il ritiro di tutte le truppe russe dall’Ucraina; il risarcimento dei danni di guerra; la garanzia sulla sicurezza nucleare, alimentare ed energetica; il rilascio di tutti i prigionieri e dei deportati; il ripristino dell’integrità del territorio nazionale (compresa la Crimea) e la prevenzione rispetto ad una possibile escalation. Non poteva mancare, naturalmente, la richiesta della creazione di un tribunale speciale per il «crimine» di aggressione della Russia contro l’Ucraina. Infine, prevede la firma del «documento di pace» dopo che tutte queste richieste saranno esaudite.

Il ministro degli esteri russo, Lavrov, risponde secco, ovviamente: Non realistico.

Come tutti i piani di pace stilati mentre la guerra continua, anche questo documento – ammesso che diventi la base per trattare il cessate il fuoco e la «fine della guerra» – subirà le modifiche che saranno determinate da come effettivamente la guerra si interromperà, o cesserà. Resta ferma, al momento, la posizione di Zelensky, e quindi anglo-americana, che la guerra continuerà fino a quando la Russia non sarà stata sufficientemente indebolita – grazie alla combinazione di sanzioni economiche sempre più pesanti, un costante e più ampio isolamento internazionale, rovesci militari determinati da una forte controffensiva ucraina sostenuti con armamenti occidentali tra i più efficaci e moderni e da una crisi politico-militare del governo Putin, e magari anche ad un certo allentamento dell’amicizia da parte della Cina o per altre ragioni ancora – e sarà costretta ad iniziare a negoziare una «pace» che, come tutte le paci finora trattate, non sarà che una tregua tra una guerra e quella successiva.

Il «piano di pace» cinese in 12 punti, presentati dal ministero degli Esteri, col benestare di Xi Jinping, è stato ufficializzato il 24 febbraio 2023, a un anno esatto dall’invasione russa dell’Ucraina. Questo piano non contraddice la posizione che la Cina aveva già preso rispetto a questa guerra.    

Inizia col ribadire il rispetto della sovranità di tutti i paesi (e ciò, riferito alla stessa Cina, sottintende la sovranità di Pechino anche su Taiwan), appellandosi al «diritto internazionale» riconosciuto dall’ONU. Prosegue col sottolineare che la sicurezza di ogni paese non può essere garantita rafforzando o espandendo i blocchi militari (dunque no all’Ucraina nella Nato, ma anche no all’espansione del blocco militare ordito dagli Stati Uniti nell’Asia e nel Pacifico).

Ovvia, quindi, la richiesta di avvio di colloqui di pace attraverso un cessate il fuoco e una serie di incontri per trovare i compromessi accettabili da entrambe le parti; sottintendendo che gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione Europea debbano smettere di alimentare la guerra e di usare il proprio peso politico per una «soluzione politica» del conflitto. Non mancano le parole riguardo la «crisi umanitaria», la «sicurezza dei civili» e il ruolo delle Nazioni Unite come «garante» nell’ambito dell’assistenza umanitaria e dello scambio di prigionieri di guerra tra Russia e Ucraina. Naturalmente si vogliono mettere in sicurezza le centrali nucleari, vietare l’uso di armi nucleari e di armi biologiche e chimiche nel conflitto «da parte di qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza».

Un altro punto riguarda l’esportazione del grano, sia ucraino che russo, in modo che alla crisi di guerra non si aggiunga una crisi alimentare di proporzioni mondiali. No alle sanzioni unilaterali «non autorizzate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu» (di cui fa parte, guarda un po’, anche la Russia). Trattandosi di un «piano di pace» non poteva mancare l’appello a « salvaguardare l’attuale sistema economico mondiale», ad «opporsi alla politicizzazione, alla strumentalizzazione e all’uso di armi dell’economia mondiale» e a «mitigare congiuntamente gli effetti di ricaduta della crisi e impedire che l’energia, la finanza, il commercio di cereali, i trasporti e altre cooperazioni internazionali vengano interrotte e danneggino la ripresa dell’economia globale». Eccolo il grido d’allarme del capitalismo dal volto umano che oggi viene offerto in salsa cinese: il sistema economico mondiale non si tocca!, bisogna lottare contro la crisi di guerra che interrompe i commerci, gli affari e mette in crisi le borse! Firmato... Partito comunista cinese!!!

Ovvie le preoccupazioni della Cina rispetto ad una guerra che mette in difficoltà non solo la Russia ma anche i commerci della Cina. L’appello è rivolto soprattutto agli Stati Uniti e all’Unione Europea, due mercati vitali per il capitalismo cinese.

Il Wall Street Journal del 26 maggio scorso (riferisce il fatto quotidiano del 27 maggio) riporta un aggiornamento: Li Hui, inviato speciale del presidente cinese, ha toccato velocemente alcune capitali europee (Varsavia, Berlino, Parigi, Bruxelles) per convincere gli alleati europei di Kiev a darsi da fare per un cessate il fuoco e procedere al riconoscimento dei territori che la Russia ha già occupato in Ucraina, dunque Crimea eregioni di Doneck e di Lugansk. Naturalmente Pechino tenta di dividere gli europei da Washington. Non è escluso che abbiano usato un argomento, ma noi l’abbiamo già anticipato, e cioè che gli Stati Uniti, in realtà, con questa guerra, vogliano indebolire l’Europa per poterla dominare meglio e affrontare il gigante asiatico da una posizione molto più forte dell’attuale.  

All’orizzonte sono apparsi altri paesi, di seconda forza, come il Brasile, il Sudafrica e l’Indonesia, proponendosi come «facilitatori di pace» o come «costruttori di pace». Brasile e Sudafrica sono membri del BRICS, insieme a Russia, Cina e India, e tale stretta alleanza economica sostiene una potenziale alleanza politica di primo livello, tanto da poter rappresentare, in un futuro forse non troppo lontano, il terzo attore tra i blocchi imperialistici che decidono le sorti del mondo: Stati Uniti, Unione Europea e BRICS.

La Cina è, di fatto, il perno economico e finanziario attorno al quale gravitano gli altri membri, ma lo loro stretta alleanza ha permesso la costituzione nel 2015 della Nuova Banca di Sviluppo (NDB) per finanziare infrastrutture e progetti inerenti l’acqua, l’energia pulita, l’efficienza energetica, i trasporti e le infrastrutture sociali e digitali. Certo, non manca l’ambizione di costituire un terzo polo capitalistico mondiale di importanza rilevante, che molta strada deve fare per cominciare ad impensierire seriamente gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Ma si tratta di paesi capitalisticamente «giovani», con un proletariato immenso da sfruttare come mai era successo ai vecchi imperialisti europei, e già oggi, a vent’anni dalla loro formazione, i BRICS rappresentano il 40% della popolazione mondiale, il 25% dell’economia globale e il 17% degli scambi commerciali su scala planetaria.

Tutti i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina definiti «in via di sviluppo» e che mal sopportano la storica e pesante dominazione bianca degli USA e dell’Europa, guardano ai BRICS come ad una valida alternativa. Iran, Algeria, Argentina sono tra i primi ad aver chiesto ufficialmente di affiliarsi ai BRICS, e molti altri sono in lista d’attesa: dall’Arabia Saudita all’Egitto, all’Indonesia al Pakistan, al Messico, alla Siria, al Venezuela, all’Afghanistan, alla Bielorussia, allo Zimbabwe, alla Tunisia (2).

Brasile e Sudafrica, facendo parte di un gruppo del genere, si sono quindi sentiti molto meno imbarazzati di un tempo a confrontarsi con i «grandi» della terra e a dire la loro. Lula, ad esempio, in aprile, prima di andare a visitare Cina ed Emirati Arabi Uniti, incontrando il presidente della Romania, Iohannis, dopo aver «condannato la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina da parte della Russia» e aver criticato l’enorme fornitura di armamenti all’Ucraina da parte euro-americana, affermava che sarebbe stato importante che un gruppo di paesi neutrali si riunissero e premessero su Mosca e Kiev per convincerli a negoziare la pace. Inutile dire che Stati Uniti e Unione Europea hanno respinto le proposte di Lula perché ha considerato Russia e Ucraina entrambi colpevoli della guerra, mentre la loro posizione, all’opposto, consiste nel colpevolizzare solo la Russia per l’aggressione ordita ai danni un paese «libero e sovrano»...

Quanto al Sudafrica, i rapporti con la Russia sono molto stretti fin da quando Mosca sosteneva le battaglie dell’ANC (African National Congress) contro l’apartheid, con l’URSS ancora in piedi. I rapporti, salvo alcuni periodi di raffreddamento, sono comunque in generale molto buoni sia a livello commerciale che a livello di investimenti sugli apparati di sicurezza del Sudafrica, tanto che, nel 2010, il Sudafrica è entrato a far parte del gruppo di nazioni BRIC che, grazie alla sua entrata, è diventato BRICS. Già all’epoca delle operazioni armate occidentali contro la Libia di Gheddafi, il Sudafrica si era tenuto distante dal sostenere l’attacco alla Libia; ha ribadito la sua «neutralità» all’ONU astenendosi, nell’aprile del 2022, insieme ad altri 35 paesi, dal voto con cui si chiedeva formalmente il ritiro della Russia dall’Ucraina.

Anche il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa non ha voluto essere da meno di Lula rispetto al conflitto russo-ucraino. Si è preso la briga di fare da «portavoce dell’Africa» presso Putin e Zelensky, i quali hanno recentemente accettato di incontrarlo a Mosca e a Kiev, insieme ad altri cinque leader africani (Senegal, Uganda, Egitto, Congo e Zambia). Una missione che vede due paesi, Sudafrica e Senegal, che si sono astenuti dal voto all’ONU col quale si riconosceva l’aggressione militare della Russia; altri due paesi, Uganda e Congo, che non hanno partecipato al voto, e gli altri due, Egitto e Zambia che invece hanno votato a favore (3). Così il giochetto democratico in cui sono presenti i «mediatori» appartenenti a tre linee politiche diverse, è salvo. 

E’ interessante notare come ci sia una corsa a fare da mediatori di pace da parte di paesi che ambiscono a mettersi in luce nei rapporti internazionali, sapendo perfettamente che non saranno loro a trasformare le posizioni guerrafondaie di Russia, Ucraina, Stati Uniti e Unione Europea in posizioni pacifiste. E’ la classica corsa a partecipare al tavolo che si aprirà quando la guerra si interromperà, per ottenere qualche vantaggio politico ed economico che soltanto i «grandi della terra» possono assicurare.

Si fanno vivi ora, dopo un anno abbondante di massacri russo-ucraini di fronte ai quali sono stati a guardare, quando un piccolo spiraglio sembra aprirsi non tanto alla «pace», quanto a future relazioni politiche (e quindi anche economiche) in un ordine mondiale che viene scosso da anni dagli imperialismi più forti e nel quale iniziare a trovare le ragioni per rafforzare o cambiare le alleanze esistenti nella prospettiva di una terza guerra mondiale. 

Naturalmente in ogni vertice che si tiene al mondo, il tema della guerra in Ucraina è obbligatorio.

Lo è stato anche al recentissimo vertice di inizio giugno allo Shangri-La Dialogue a Singapore. Allo Shangri-La di Singapore, ogni anno si tiene un summit sulla «sicurezza dell’Asia-Pacifico» che coinvolge una cinquantina di paesi del mondo. Quest’anno si sono incontrati ben 600 delegati di 49 paesi; il tema dominante non poteva essere che la contrapposizione delle due grandi potenze interessate a tutto ciò che succede nel Pacifico: Stati Uniti e Cina. Di questo contrasto dovremo trattare in altra sede, con tutte le implicazioni inerenti Taiwan, l’atteggiamento delle Filippine, l’alleanza USA-Giappone-Corea del Sud, il coinvolgimento dell’Australia ecc. Qui, torniamo sulla questione Ucraina di cui, ovviamente, ad un vertice di questo livello non si poteva non parlare. Ed è l’Indonesia a fare la parte della protagonista.  

L’Indonesia (capitale Giacarta) è un paese di oltre 270 milioni di abitanti, per quasi il 90% musulmani, suddivisi in circa 300 etnie diverse, formata da più di 17.500 isole, di cui più di 15.000 disabitate. E’ al 7° posto nella classifica mondiale degli Stati per PIL (prodotto interno lordo che vede le prime 6 posizioni occupate da Cina, Stati Uniti, India, Giappone, Germania, Russia; dopo l’Indonesia, tra i primi 20, seguono Brasile, Regno Unito, Francia, Messico, Italia, Turchia, Corea del Sud, Spagna, Canada, Arabia Saudita, Iran, Egitto e Thailandia. Come si vede molti paesi definiti a economia «emergente» sono entrati prepotentemente nelle prime 20 posizioni del PIL mondiale; per quanto il PIL  sia ritenuto un dato grossolano, in ogni caso è indicativo dell’evoluzione economica dei vari paesi soprattutto se lo si confronta negli ultimi dieci o vent’anni.

L’Indonesia, ad esempio, nel 2011 occupava il 16° posto, la Cina il 2°, l’India il 10°, il Brasile il 6°, mentre nel 2021 l’Indonesia è salita appunto al 7°, la Cina al 1°, l’India al 3°, il Brasile all’8°; mentre Giappone e Germania sono scesi entrambi di una posizione: 3° e 4° posto nel 2011, 4° e 5° posto nel 2021. Con ciò si conferma che nella fase imperialistica del capitalismo, se le vecchie potenze mantengono tendenzialmente posizioni economiche e finanziarie decisive nel mondo, non possono impedire a capitalismi più giovani, e più aggressivi, di scalare le classifiche e di imporsi nelle relazioni mondiali non solo economiche, ma soprattutto politiche e, quindi, militari.

Tornando all’Indonesia, al vertice di Singapore il suo ministro della Difesa, Prabowo Subianto, ha in parte sorpreso tutti proprio sul tema dell’Ucraina.

«Propongo – ha detto nel suo intervento – di firmare un documento congiunto per chiedere la fine delle ostilità”, e ha disegnato una proposta di pace, alla «coreana», come al tempo della guerra di Corea del 1950, e cioè: «Primo: cessate il fuoco. Secondo: istituzione di una zona demilitarizzata di 15 km da entrambi i lati. Terzo: invio di forze di pace delle Nazioni Unite. Quarto: referendum nei territori contesi per far decidere a loro da che parte stare» (4). Scontato l’immediato rifiuto di un’idea del genere da parte dell’Ucraina e dell’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti non si sono pronunciati in modo netto, avendo interesse a mantenere in quel consesso una posizione «dialogante» soprattutto con la Cina che, naturalmente, non poteva non incoraggiare i convenuti a prendere in considerazione non solo la propria, ma anche la proposta indonesiana.

Sta di fatto che sta aumentando, da parte di molti paesi non occidentali ma di peso, la pressione non solo verso Ucraina e Russia per avvicinarle a un negoziato, ma soprattutto verso gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Perché?

Le zone di guerra nel mondo sono molte, in Africa, in Medio Oriente, ora anche in Europa mentre stanno aumentando le tensioni nel Pacifico sia per le iniziative degli USA che per quelle della Cina; e stanno aumentando i budget statali dedicati agli armamenti proprio in vista di coinvolgimenti più diretti nelle guerre locali o nella futura guerra mondiale. Per l’ennesima volta si profila all’orizzonte lo scontro tra Occidente e Oriente, ma stavolta con l’ingresso di molti più attori provenienti dal cosiddetto «terzo mondo». Gli attori principali non sono più soltanto Stati Uniti e Russia, come nel quarantennio successivo alla fine della seconda guerra imperialista mondiale; si è aggiunta la Cina e nelle quinte del teatro mondiale si fanno vedere Brasile, India, Indonesia, Corea del Sud, Turchia, Arabia Saudita, Iran e i sempre presenti Regno Unito, Germania, Francia, ognuno con i propri interessi da mercanteggiare in vista di prossime e decisive alleanze di guerra.

 

PARLANO DI PACE, MA SI PREPARANO ALLA GUERRA.

 

Gli Stati Uniti, il Regno Unito, la stessa Unione Europea, che sostengono a spada tratta la guerra ucraina contro la Russia – con fior di miliardi e quantità di armamenti mai radunati in un solo anno per una guerra che non li vede direttamente coinvolti –, non hanno mai proposto un loro «piano di pace», mentre tornano a riproporre ogni mese continui piani di guerra. Come mai questa particolare guerra tra due Stati in conflitto per questioni sostanzialmente territoriali e che avevano già raggiunto per ben due volte un formale compromesso – con gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015 – una volta scatenatasi ha immediatamente coinvolto tutte le maggiori potenze del mondo?  

La sequenza di crisi economiche e finanziarie sviluppatasi dagli anni Novanta del secolo scorso in poi, tende ad acutizzare sempre più i contrasti interimperialistici, è un fatto inoppugnabile. E i contrasti interimperialistici sviluppano inevitabilmente fattori di crisi ancora più potenti rendendoli potenziali fattori di una guerra generale.

La guerra in Ucraina, più della guerra in Jugoslavia del 1992-99, ha risvolti mondiali. La Jugoslavia, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, stava andando in pezzi e le potenze imperialiste d’Europa, d’America e la Russia, pur coinvolte per interessi di influenza politica e militare, non giunsero mai a scontrarsi come oggi in Ucraina.

Per gli euroamericani si trattava di mettere le mani sulla gran parte della ex Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Bosnia, Montenegro, Kosovo); per i russi si trattava di mantenere solida l’influenza e l’alleanza con la Serbia; e mentre Slovenia e Croazia riuscivano a sistemare i propri interessi territoriali con l’aiuto diretto della Germania, i maggiori orrori della guerra si concentrarono in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo.

La guerra ebbe aspetti mondiali perché gli imperialismi occidentali (attraverso la Nato) si coinvolsero per sconfiggere la Serbia che non intendeva demordere dalle sue ambizioni territoriali, sostenute dalla Russia, nonostante un nemico potente come la Nato. Il bombardamento di Belgrado, al quale partecipò attivamente l’Italia (governata dall’ex piccista D’Alema, mentre alla vicepresidenza c’era il cattolicissimo Mattarella), col pretesto di fermare la «pulizia etnica» in Kosovo, mise praticamente fine alla guerra. Ma il risultato finale di una guerra, iniziata all’interno di un paese e proseguita rapidamente come una guerra internazionale dettata dai maggiori imperialismi esistenti, non è stata la pace: Bosnia e Kosovo hanno continuato e continuano a rappresentare un focolaio di contrasti e di scontri politici e armati. E’ questo il lascito della guerra imperialista.

Ed è un lascito che potrebbe riguardare anche l’Ucraina, una volta che si arriverà ad un sedicente «fine-guerra».

A differenza della ex Jugoslavia, in cui si mescolavano etnie e nazionalismi diversi, in Ucraina le nazionalità forti e presenti sono soltanto due, ucraina e russa (sebbene derivino storicamente entrambe dallo stesso ceppo), ma la popolazione è tutta «ucraina». Un po’ come la popolazione coreana che, alla fine di una guerra nazionale, nella quale intervennero Stati Uniti e Russia a sostegno delle due parti avverse, e in realtà non vinta da nessuna delle due parti, si è ritrovata divisa in un Nord e un Sud esistenti soltanto in funzione degli interessi extra-coreani rappresentati soprattutto da Stati Uniti e Russia, all’epoca, e Cina attualmente, potenze che stanno cercando di dividersi il mondo.

La guerra ucraina, più si prolunga nel tempo e più potrebbe svolgersi in una situazione simile a quella coreana. Le due maggiori potenze imperialiste interessate, Stati Uniti e Russia, sono due potenze nucleari. La guerra tra di loro potrebbe essere, per la prima volta nella storia, e data l’evoluzione degli armamenti nucleari cosiddetti «tattici», una guerra atomica nella quale le «ragioni di mercato» che guidano solitamente gli interessi di ogni imperialismo salterebbero completamente portando fuori controllo ogni mossa di un blocco e ogni contromossa del blocco avverso.

A questo «futuro» né l’imperialismo russo né l’imperialismo americano è davvero preparato, perciò, per quanto spetta ad ognuno di loro – considerando anche l’entrata in campo di un «terzo incomodo», la Cina – quella guerra non è all’ordine del giorno. In realtà non è nemmeno all’ordine del giorno, ancora, la terza guerra mondiale, anche se ci si sta avvicinando molto di più che nel 1950 (guerra di Corea), nel 1962 (crisi dei missili russi a Cuba), nel 1975 (crisi economica mondiale) o nel 2008 (crisi finanziaria mondiale).

In Ucraina, contro le truppe russe, gli imperialisti occidentali hanno dato mandato al governo di Zelensky di fare la guerra anche per conto di America ed Unione Europea. Si testano così tutti i tipi di armamento, mantenendo la loro fornitura nei limiti per i quali non si istighi la Russia ad alzare il livello dello scontro portandolo al minacciato uso delle armi nucleari tattiche; si testano nuovi missili, nuovi droni, nuove contraeree, nuove operazioni militari in un terreno che non è più il classico terreno da esercitazione, ma di vera e propria guerra guerreggiata.

Chi ci va di mezzo? Proletari russi e proletari ucraini e, ovviamente, la popolazione civile ucraina che viene bombardata in permanenza.

A chi giova tutto questo? Lo scontro militare russo-ucraino cela interessi strategici di grande importanza sia per l’imperialismo russo che per gli imperialismi euro-americani. L’Ucraina è un territorio economico rilevante, sia dal punto di vista industriale che da quello agricolo; e rappresenta una zona cruciale nella cerniera che divide l’Occidente europeo dall’Oriente europeo e asiatico. Questa cerniera, in totale, rappresenta un confine di 5.019 km, e di questi 959 appartengono alla Bielorussia (oggi ancora stretta alleata di Mosca), mentre 409 sono rappresentati dalla Crimea e dalle regioni di Donetsk e Lugansk, attualmente sotto occupazione russa. Sui restanti 3.651 km di confine la Nato ha posizionato, o sta per posizionare (Finlandia) e vorrebbe farlo anche in Ucraina, le sue batterie di missili. Ovvio che la Russia non gradisca questa attenzione...

Nel 1962, quando i russi avevano portato i propri missili balistici a Cuba gli americani avevano minacciato la guerra atomica. A nessuno dei due conveniva entrare in guerra; la mossa russa sembrò soprattutto una reazione all’installazione di basi missilistiche americane in Italia e in Turchia, cioè molto vicino ai confini dell’URSS, e al tentativo americano del 1961 di invadere Cuba (vicenda della Baia dei Porci); inoltre, l’avvertimento era: possiamo arrivare a 90 miglia dalla tua costa meridionale e da lì colpirti nel tuo territorio fino alla Casa Bianca...

La vicenda si concluse con un accordo trovato nel giro di pochi giorni: al ritiro dei missili russi da Cuba corrispose il ritiro dei missili americani dalla Turchia e dall’Italia, e gli americani promisero di non invadere più l’isola di Cuba. Cuba non è stata invasa, dunque promessa mantenuta? Invasa no, ma è stata sottoposta ad un embargo soffocante che per decenni ha ridotto la popolazione cubana alla fame. I missili Jupiter con testata nucleare in Turchia e in Italia sono stati rimossi? Sì, per essere sostituiti con basi aeree e con aerei predisposti al trasporto di bombe atomiche e, nel tempo, sostituiti con missili di più moderna concezione come i Polaris e tutta un’altra serie di missili da crociera, intercontinentali e con più testate nucleari. L’evoluzione degli armamenti è molto più veloce di qualsiasi altra innovazione tecnica «civile» e istiga a non rispettare gli accordi «di pace».

 

I PROLETARI NON HANNO PATRIA!

 

L’abbiamo ripetuto da sempre e lo grideremo sempre ogni volta che la guerra borghese di concorrenza e la guerra guerreggiata al solo scopo di dominio capitalistico sul mondo, sono tirate in ballo per piegare i proletariati di tutti i paesi agli interessi dei capitalismi nazionali.

I proletari, proprio perché nascono, vivono e muoiono nelle stesse condizioni di salariati, rappresentano una classe internazionale. E’ lo stesso capitalismo che li spinge ad essere «internazionalisti» proprio perché la loro condizione di lavoratori sfruttati per il profitto capitalistico li accomuna sotto ogni cielo, all’interno di ogni confine, non importa la loro età, il loro genere, la loro nazionalità.

Ma i proletari, proprio perché sfruttati in questo modo e organizzati al fine di essere sfruttati sempre più efficacemente, devono scoprire per conto proprio di appartenere ad una classe che è potenzialmente internazionale, ma guidata, influenzata, organizzata da ogni borghesia ad esclusivo interesse capitalistico nazionale. I proletari non scopriranno la loro vocazione internazionalista e classista se non attraverso la lotta che sono costretti a fare contro i capitalisti, contro la borghesia che si rivela sempre, in ogni contrasto sociale, come una classe che domina, che opprime, che reprime allo scopo di mantenere il suo dominio grazie al quale può continuare – generazione borghese dopo generazione borghese – a sfruttare il lavoro salariato, dunque gli operai, per aumentare i suoi profitti estorcendo una quantità sempre maggiore di plusvalore dal lavoro salariato.

La borghesia di ogni paese, soprattutto attraverso la democrazia – ma non disdegna di farlo attraverso l’autoritarismo e la dittatura aperta, per evitare che la lotta proletaria (inevitabile sotto il capitalismo) tracimi dal campo strettamente economico, aziendale e nazionale, a quello politico generale –, ha adottato un sistema molto semplice, ma molto efficace: mettere i proletari in concorrenza fra di loro, come fa con le merci che porta al mercato. D’altra parte, il lavoro salariato è in realtà una merce, una merce particolare, ma una merce che può essere comprata e venduta e, nel caso non serva più, gettata o distrutta.

I periodi di crisi, che sfociano in scontri di guerra – sociale, nel caso di dure lotte operaie, armata nel caso di guerra guerreggiata contro nazioni nemiche –, dimostrano in modo chiaro che la borghesia non può evitare le sue crisi, ma che approfitta delle crisi per sfruttare ancor più il proletariato, sia scaricando sulle sue condizioni di esistenza il maggior peso delle crisi, sia irreggimentandolo – all’occorrenza – come carne da cannone.

Questo dramma, nei duecento anni di storia borghese, si è sempre ripetuto, in ogni situazione di crisi, ma la borghesia fa di tutto per farlo passare come un fatto eccezionale, che è possibile fermare o evitare alla condizione di una sempre più stretta collaborazione di classe, alla condizione cioè di rinunciare, da parte del proletariato, ai suoi interessi specifici di classe e accollarsi la difesa degli interessi generali, nazionali, collettivi che riguardano tutte le classi, tutti gli strati sociali, insomma il famoso popolo, la sempre decantata nazione.

Nel teatro di guerra ucraino non c’è nulla di diverso da quello presente in tutti i teatri di guerra, in cui le borghesie lanciano i propri proletariati l’uno contro l’altro a massacrarsi per difendere il cosiddetto interesse nazionale, la sovranità nazionale, l’indipendenza nazionale, l’economia nazionale. Un teatro in cui va in scena la crisi capitalista e borghese in più atti: la preparazione allo scontro di guerra, la guerra e l’obbligo a parteciparvi, il massacro e l’enorme distruzione di forze produttive, il negoziato per la fine della guerra o la resa, la ricostruzione postbellica. In tutti gli atti di questo dramma la borghesia deve contare sulla partecipazione, convinta o meno, delle masse proletarie allo sforzo di guerra, sia nelle retrovie che sui fronti; e fa assegnamento – usando senza scrupoli anche la repressione – sulla tenuta del proprio esercito per tutto il tempo in cui si svolge la guerra, promettendo che la «vittoria» avvantaggerà tutti, quindi anche le masse proletarie.  

Non è mai successo, e non succederà mai, nemmeno nei paesi che escono vittoriosi dalla guerra, che i proletari vengano sfruttati di meno, che lavorino di meno e guadagnino di più, che possano costruirsi un futuro in pace per sé stessi e per le loro famiglie e che il benessere e non la miseria sia il risultato della collaborazione di classe, dello sforzo di guerra e dei massacri e delle privazioni che essa ha provocato.

I proletari, se si guardano indietro, e se si fanno raccontare dalle generazioni più anziane come sono andate le cose, non potranno non constatare che la loro vita è costantemente appesa a un filo che può essere reciso da un momento all’altro. Può benissimo essere che non sia il capo d’azienda o il governo a recidere quel filo, gettando i proletari nella disoccupazione e nella disperazione, ma sia la conseguenza di una crisi economica a causa della quale le aziende chiudono, il mercato non assorbe più l’iperfolle produzione spinta dal periodo precedente di espansione, i salari vengono abbattuti e i lavoratori salariati non riescono più a vendere l’unica merce di loro proprietà, la forza-lavoro.

Ma la crisi economica è determinata dal modo di produzione capitalistico, dal fatto che ogni produzione è produzione di merci, e che ogni prodotto deve essere venduto a un prezzo che contenga il saggio medio di profitto sennò il capitale non chiude il suo ciclo di valorizzazione, e dal fatto che l’obiettivo della produzione capitalistica non è la soddisfazione dei bisogni della vita sociale umana, ma dei bisogni del mercato, dunque del capitale, e che tale produzione risponde alle leggi della concorrenza capitalistica e al sistema economico organizzato per aziende, che a loro volta si fanno concorrenza sul mercato, tenendo conto della ricerca del proprio profitto e non dei bisogni di vita del genere umano.

Tutto questo si svolge nell’ambiente falsato del profitto capitalistico, per il quale non esistono esseri umani che vivono socialmente, mangiano, si vestono, si dedicano alla conoscenza del mondo e della vita sapendo che poche ore giornaliere di un lavoro organizzato e pianificato a cui partecipano tutti sono sufficienti per far vivere bene l’intera umanità; per il quale esistono soltanto consumatori, compratori e venditori. Ma la merce forza-lavoro gli operai la possono vendere soltanto ai capitalisti; se la vendono riescono ad avere un salario che è l’unico mezzo in questa società perché il proletario, il nulla tenente, possa sopravvivere, possa essere contemporaneamente venditore e consumatore. Ma se non riescono a venderla, perché i capitalisti non la comprano per i più svariati motivi, i proletari muoiono di fame.

Questa è la società borghese, la società che promette benessere per tutti, ma mantiene il benessere solo per una minoranza, la minoranza borghese che accumula l’intera ricchezza prodotta dal lavoro umano e si impossessa dell’intera ricchezza della natura, sfruttandola come sfrutta la forza lavoro umana: fino allo sfinimento.

E’ per questa società che i proletari vogliono lottare? E’ per questa società che si fanno massacrare al lavoro come in guerra?

Che cosa sono chiamati a difendere i proletari ucraini contro i proletari russi? E che cosa i proletari russi contro i proletari ucraini?

La sovranità nazionale? La patria? I valori della borghesia che li opprime, li sfrutta, li porta a massacrarsi in guerra al solo scopo di rafforzare il proprio potere e il proprio dominio su un territorio e sul proletariato che lo abita?

I proletari, se non vogliono essere ridotti a strumenti della propria oppressione, del proprio sfruttamento, e se non vogliono farsi massacrare in pace e in guerra, devono riconquistare fiducia nelle proprie forze di classe, devono indirizzare la loro individuale lotta di sopravvivenza verso obiettivi che la borghesia, anche la più ricca, democratica e religiosa, mai potrà soddisfare: l’obiettivo di cancellare ogni oppressione, ogni sfruttamento, ogni guerra. Obiettivo lontano? Sì, certamente, molto lontano, ma l’unico per il quale la lotta del proletariato abbia un senso, abbia una finalità storica; l’unico che il proletariato può effettivamente raggiungere alla condizione di recidere i lacci e i legami che lo tengono avvinto alle sorti del capitale e della borghesia.

Il filo a cui è appesa la vita proletaria è un filo tutto in mano alla borghesia capitalistica e che essa non ha alcuno scrupolo a recidere al fine di proteggere e salvare il suo dominio economico e politico. Il filo che deve, e dovrà, invece riannodare il proletariato di oggi e di domani è il filo storico che lo collega alle lotte del passato, alle sue rivoluzioni e alla sua dottrina di classe: è il filo del tempo, che noi, piccolo gruppo compatto e tenacemente legato a quelle lotte, a quelle rivoluzioni e a quella dottrina, continuiamo a far vivere nella nostra attività quotidiana, nella fiduciosa prospettiva di un proletariato che tornerà a calcare il terreno della lotta di classe, di una lotta che farà dell’antagonismo di classe tra borghesia e proletariato il perno intorno al quale si decideranno le sorti della lotta storica e internazionale che condurrà all’emancipazione del proletariato e alla società senza classi, alla società di specie, in una parola al comunismo.

La guerra che si sta consumando in Ucraina deve insegnare che le classi borghesi – come afferma il Manifesto dei Comunisti di Marx-Engels – si fanno sempre la guerra tra di loro, perché sono avversarie nella lotta di concorrenza nei mercati e nello scontro tra Stati; e sono sempre in guerra contro il proletariato, il proprio proletariato nazionale e il proletariato degli altri paesi, sia per mantenere e rafforzare il proprio dominio di classe all’interno della propria nazione, sia per sottomettere, e sfruttare, il proletariato delle altre nazioni.

Nessuno è in grado, oggi, di prevedere come finirà questa guerra, chi sarà il vincitore o se ci sarà un «vincitore».

E’ probabile che, trascinandosi nel tempo, questa guerra conduca inizialmente a una «soluzione coreana», che soluzione non è perché le due parti continueranno ad essere contrapposte da tutti i punti di vista, sia economico e politico che militare e costituiranno sempre una miccia pronta a incendiarsi. E’ in effetti molto difficile che la Russia ceda la Crimea e la striscia del Donbass che la collega al proprio territorio. E’ d’altra parte escluso che l’America e l’Unione Europea inviino proprie truppe a far la guerra alla Russia insieme alle truppe ucraine, sebbene, secondo quanto recentemente rivelato dal New York Times, sul teatro di guerra ucraino vi siano alcune decine di militari americani, inglesi e francesi e vi siano dei combattenti polacchi, naturalmente «volontari». L’Ucraina è destinata ad essere il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro; e il proletariato ucraino continuerà ad essere carne da cannone per conto delle potenze occidentali, come il proletariato russo continuerà ad essere carne da cannone per la classe dominante russa. E’ d’altra parte interesse anche cinese, oltre che americano, tenere sotto controllo l’escalation della guerra russo-ucraina in modo che non tracimi nello scontro tra le superpotenze.  

La questione delle alleanze attuali e future non è per nulla definita. Attualmente gli Stati Uniti stanno riuscendo a piegare ancora una volta l’Europa ai propri interessi strategici (attraverso la Nato e i miliardi di dollari investiti nella «difesa» dell’Europa da possibili attacchi da Oriente). La Cina, da parte sua, non ha piegato la Russia ai propri interessi strategici che sono concentrati, sempre più, soprattutto sul Pacifico. E’ di grande importanza il fatto che Russia e Cina siano legate da un certo tipo di amicizia fondata sul reciproco interesse a non tenere scoperto un fronte – asiatico orientale per la Russia, asiatico occidentale per la Cina – quando altri fronti sono aperti e assorbono la gran parte delle preoccupazioni di entrambe le potenze. Il fatto poi che tutti e tre, Stati Uniti, Russia e Cina, siano Stati unitari e potenze nucleari non è cosa da poco; li trattiene, almeno ancor oggi, dal passare dalle minacce «nucleari» ai fatti. Sebbene gli Stati Uniti siano geograficamente tra l’Atlantico e il Pacifico, quindi tra l’Europa occidentale e la Cina (ieri l’avversario era il Giappone), anche loro sono più esposti sul fronte del Pacifico che non su quello dell’Atlantico. Perciò, come per la Cina, diventa anche per loro vitale posizionarsi in modo importante su quel fronte. Nei confronti dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti hanno avuto molto tempo per stendere la propria rete di relazioni politiche, economiche e finanziarie, e la partecipazione alla due guerre imperialiste mondiali sul fronte antitedesco ha reso loro più agevole, usando la propria straordinaria potenza economica e facendo una guerra in un continente diverso dal proprio, la «conquista dell’Europa occidentale» e il successivo dominio politico sui paesi strategicamente più importanti, Germania, Francia, Italia condividendo con la Russia, ad oriente, per un buon quarantennio, il controllo dell’intera Europa.  

Ma, in un futuro forse non troppo lontano, non è escluso che la Germania, a un certo punto, torni a reclamare un ruolo in Europa e nel mondo non soltanto dal punto di vista economico, ma anche politico e militare (e questo è il timore principale degli anglo-americani) e, quindi, rimetta in discussione l’attuale ruolo egemone degli Stati Uniti in Europa, cosa che rafforzerebbe oggettivamente la posizione della Russia e, di conseguenza, anche della Cina.

Nei decenni seguiti alla fine della seconda guerra imperialista gli Stati Uniti avevano preso il posto del Regno Unito nel controllo del mondo; la sua flotta e i suoi aerei potevano giungere in ogni parte del globo in poco tempo. Ma nei decenni successivi, soprattutto dopo la grande crisi mondiale del 1975, altre potenze sono cresciute e mentre da un lato costituivano mercati sempre più importanti per le merci e i capitali americani, contemporaneamente costituivano dei concorrenti sempre più aggressivi e ambiziosi.

Al declino del Regno Unito seguiva il declino della Russia che, con il crollo dell’URSS all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, rimetteva in discussione l’intero ordine mondiale uscito dalla seconda guerra mondiale. E generava nello stesso tempo i fattori che avrebbero rimesso in discussione la stessa egemonia statunitense sul mondo.

In un certo senso, l’invasione militare della Russia in Ucraina, mentre risponde certamente a un’esigenza strategica della Russia che cerca, storicamente, di non farsi chiudere tutte le porte d’accesso al Mediterraneo, ha costretto gli Stati Uniti a esprimere la propria disponibilità o ad accettare l’operazione russa come una guerra locale o considerarla un attacco all’ordine che gli Stati Uniti stavano completando anche nell’Europa orientale attraverso la Nato. In Iraq, in Siria, in Libia, in Jugoslavia, gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente per contrastare la rete di influenza che la Russia stava stendendo. In Ucraina no, hanno preferito che gli ucraini guidati da Zelensky si «difendessero» con le proprie forze e con le armi che i paesi della Nato avrebbero fornito loro in abbondanza.

Il macello ucraino non doveva apparire come un macello condotto esplicitamente sotto il comando americano; doveva essere e apparire come un macello subito da ucraini che, in questo caso, hanno fornito all’ordine euro-americano un esercito in piena regola, salvando la faccia ai democraticissimi europei e americani e incolpando di tutto quel sangue il solo e unico «criminale», Putin.  

Questa guerra ha interessato oggettivamente molto più da vicino i proletari europei di quanto non sembri, pur non avendo implicato l’invio di soldati. La fornitura di armi di ogni tipo, che continua anche quest’anno, è un coinvolgimento reale dell’Unione Europea e degli Stati Uniti alla guerra in Ucraina. Il coinvolgimento proletario si effettua non nella spedizione «coloniale» come succedeva un tempo, ma nel sostegno – richiesto e imposto – all’impresa di guerra dei governi; un sostegno che si attua attraverso l’accettazione della guerra «di difesa» da parte dell’Ucraina e di «offesa» nei confronti della Russia (offesa finora attuata con una serie interminabile di sanzioni economiche che hanno avuto dei riscontri negativi anche sui paesi europei in termini di rialzo istantaneo dei prezzi dell’energia che ha provocato un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, farmaceutici ecc., in termini di esportazioni mancate e perciò difficoltà reali delle aziende esportatrici con conseguenze sui propri dipendenti ecc. e di aumento dell’inflazione); dunque il sostegno a una politica guerrafondaia da parte dei propri governi nella prospettiva di una politica guerrafondaia che riguarderà direttamente i paesi europei.

Come tutti sanno, ogni settimana dalla finestra di San Pietro il papa non manca mai di rivolgere un appello per pregare per l’Ucraina, e perché finisca la guerra, sapendo perfettamente che la guerra non è un atto di volontà di un Putin o di uno Zelensky o di un Biden. Rivolge il suo accorato appello ai grandi della terra e a tutti gli uomini di «buona volontà» sapendo di svolgere un ruolo importantissimo nella funzione insieme di speranza e di consolazione nei confronti soprattutto di quella parte dell’«amato popolo» – che è la maggioranza – che vive soltanto di salario e in miseria e che, in date circostanze, potrebbe essere protagonista di una reazione sociale violenta contro le condizioni di esistenza e di morte in cui è stata precipitata.

La speranza, in che cosa? Nel fatto che i grandi della terra (tra i quali il papa parla da pari a pari) capiscano che la violenza della guerra, oltre un certo livello, non è più controllabile e potrebbe istigare le masse a ribellarsi con altrettanta violenza contro l’ordine costituito; un ordine del quale la Chiesa rappresenta un pilastro della conservazione.

La consolazione, a che scopo? Allo scopo di tenere a freno le reazioni violente alla violenza della guerra, a far sì che le masse rinuncino all’unica lotta che può fermare la guerra borghese, la lotta di classe, la lotta del proletariato contro il sistema sociale esistente e, quindi, contro la classe dominante borghese di cui l’organizzazione stessa della Chiesa di Roma fa parte.

Come ogni chiesa, anche la Chiesa di Roma mobilita le sue «truppe», i suoi «propagandisti», i suoi «messaggeri», i suoi «generali» nell’obiettivo di difendere quei «valori di civiltà occidentale» nei quali si riconosce pienamente: i valori del capitalismo, della proprietà privata e del lavoro salariato, dunque dello sfruttamento e dell’oppressione, con la particolare caratteristica di funzionare come lenimento delle sofferenze umane che quello sfruttamento e quell’oppressione generano. La Chiesa di Roma non ha più le sue armate come all’epoca dello Stato Pontificio, ma con lo sviluppo del capitalismo è riuscita a ritagliarsi un ruolo non solo da multinazionale dei servizi religiosi e sociali, ma da pilastro della conservazione sociale in quanto forza reazionaria di prima grandezza con una capacità, però, di cambiare volto a seconda delle situazioni: dalla propaganda della «pace» e del «disarmo» alla benedizione delle truppe che partono per la guerra...

Al di là delle lamentele dei soliti pacifisti o del solito papa che invita tutti i giorni a pregare per la «martoriata Ucraina» – come se fosse l’unica guerra per la quale vale la pena di pregare – vi sono i «disarmisti» che chiedono che i miliardi spesi per le armi da mandare in Ucraina vengano invece spesi per rafforzare le misure sociali atte a combattere la povertà, la disoccupazione ecc. In realtà, l’industria degli armamenti fa parte dell’economia nazionale come ogni altra industria e, in questo periodo, è l’industria che tira più di tutte. D’altra parte i miliardi investiti in queste forniture sono miliardi che, a loro volta, chiedono di essere messi a frutto, prima o poi, sia in termini di vincoli politici, sia in termini di ricostruzione postbellica per la quale tutti i governi occidentali si sono prodigati nello stendere diversi piani approntando le inevitabili cambiali con cui piegheranno l’Ucraina, e i suoi proletari, perché vengano pagate.

L’interesse comune che hanno i proletari ucraini e russi è quello di non farsi massacrare per una guerra che non è, e non sarà mai, la loro. Ed è l’interesse di ogni proletariato del mondo. La borghesia scatena la guerra perché le leggi economiche capitalistiche le offrono questa «via d’uscita» alle crisi economiche e politiche che si creano nello sviluppo di ogni paese. La sete di potere e di dominio viene dopo e dipende dai reali rapporti di forza tra i diversi paesi. Ma c’è un rapporto di forza che riguarda qualsiasi paese, anche il più debole economicamente, ed è il rapporto tra borghesia e proletariato.

Sotto il capitalismo è inevitabile che il potere dominante sia quello della borghesia. Per scalzare questo potere dominante bisogna abbattere la classe borghese al potere; non ci sono alternative. E c’è soltanto una classe sociale che ha la forza potenziale per battere il potere borghese, ed è il proletariato. Ma le condizioni perché il proletariato sia effettivamente una classe, si riconosca come classe antagonista alla borghesia – come la borghesia si riconosce perfettamente come classe antagonista del proletariato e lo prova tutti i giorni –, riguardano due livelli di scontro, uno immediato ed economico, l’altro politico più generale.

Come la storia insegna, la lotta fra le classi continua anche se il proletariato non lotta fisicamente contro la borghesia; semplicemente perché è la borghesia che lotta costantemente contro il proletariato, contro i suoi interessi e contro la sua spinta a rispondere con la sua lotta. E lo fa in mille modi diversi, grazie anche all’opera capillare delle forze di conservazione opportuniste che indirizzano i proletari sul terreno della conciliazione, della collaborazione e della pace sociale e non dello scontro.

La rottura della pace sociale come è successo nel 1953 nella Germania Est e a Berlino, quando i proletari sono insorti contro le condizioni intollerabili in cui li avevano precipitati i poteri borghesi di allora – vestiti oltretutto da «socialisti» – è il segnale inequivocabile che la lotta di classe riemerge ogni volta che la crisi sociale spinge le masse proletarie a lottare non per la «libertà», non per la «sovranità nazionale», non per la «patria», ma contro il regime salariale, quindi contro il capitalismo presente e dominante in ogni paese, democratico, autoritario, dittatoriale o falsamente «comunista» come è stata a suo tempo l’URSS e come è ancor oggi la Cina.

 La lotta proletaria non si organizza a tavolino, né nelle stanze della cospirazione. Emerge prepotente dalle condizioni materiali in cui i proletari sono costretti a vivere e a morire. E troverà i suoi modi di organizzarsi, diversi dagli attuali perché dovrà disfarsi dei criteri organizzativi dell’opportunismo collaborazionista.

 


 

(1) Cfr. https://www.agi.it/ estero/news/2023-05-08/ ucraina_ clinton_ usa_ sapevano_ attacco_ putin-21283446/

(2) Cfr. https://borsafinanza.it/brics-cos-e-gruppo-chi-sono-paesi-aderenti/, 25.04.2023

(3) Cfr. https://www.nigrizia.it/notizia/il-sudafrica- annuncia- una-missione- di- pace- africana-in-russia-e-ucraina

(4) Cfr. https://eastwest.eu/it/singapore-intenso-e-frontale-lo-shangri-la-dialogue/

 

 

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