L’ex “Cavaliere” è morto, ma non il berlusconismo

(«il comunista»; N° 178 ; Giugno-Agosto 2023)

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L’Italia pecorona ha avuto un’altra occasione per non smentirsi. Tutti i più alti rappresentanti delle istituzioni hanno onorato il loro morto eccellente, dal presidente della Repubblica, l’esimio, cattolicissimo, «garante» della Costituzione «più bella del mondo» e guerrafondaio Mattarella, alla presidente del Consiglio Meloni, nuova star del «governo del fare», da tutti gli incravattati del governo e del sottogoverno agli affaristi di ogni risma, da tutti i beneficiati dai milioni elargiti da Berlusconi perché si piegassero ai suoi desideri all’immancabile truppa dei tifosi del «grande Milan che ha vinto tutto» – e che non poteva non votare per lui – e a tutti i tirapiedi delle formazioni politiche costruite Berlusconi (dal Popolo delle libertà a Forza Italia). Berlusconi è morto, ma i suoi eredi – la vasta corte di politicanti di ogni colore – continueranno ad applicare e a subire il berlusconismo, cioè l’affarismo direttamente favorito dai poteri forti, politici, economici, finanziari.

Su una cosa sono stati tutti d’accordo, l’intero arco costituzionale da destra a sinistra: Berlusconi ha lasciato un segno profondo nella politica italiana. Per Mattarella «è stato un grande leader politico che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi» (1). Tutti hanno trescato con lui e i suoi partiti, tutti si sono genuflessi al potere delle sue televisioni e, quando erano al governo, hanno affittato la tv pubblica agli interessi del «cavaliere».

Nell’ultimo trentennio, il segno l’ha lasciato, questo è sicuro, e che segno! Ha trasferito sull’agone politico le sue grandi abilità di venditore e di imprenditore, la tenacia nel perseguire gli obiettivi che di volta in volta si dava, usando la spericolatezza tipica dell’imprenditore d’assalto, la forza del denaro e l’appoggio di tutti coloro che potevano facilitargli la strada che intendeva imboccare, fossero imprenditori, intellettuali, politici, manager dello spettacolo o dello sport, affaristi, massoni della P2 o mafiosi. Aveva intuito che in Italia, per fare soldi dal niente, bisognava buttarsi nell’edilizia (ohibo!, dove imperano le organizzazioni criminali) e per costruirsi un’immagine vincente doveva buttarsi nella comunicazione televisiva; guarda caso, i due filoni su cui ha costruito il suo successo attraverso il quale ha poi potuto fare la famosa «discesa in campo» dandosi «alla politica». Il suo maggior consigliori? Quel Marcello Dell’Utri che è stato l’anello di congiunzione con la criminalità organizzata, che ha protetto Berlusconi finendo in carcere senza mai «tradirlo» e che lo spinse a darsi alla politica nel periodo in cui tangentopoli aveva atterrato i grandi partiti – Democrazia Critiana e Partito Socialista, soprattutto –, in cui l’imprenditore d’assalto non aveva altra via per difendere le sue aziende, entrate in difficoltà, e per sviluppare i propri affari che costruirsi un partito politico sulle macerie della Dc e del Psi, naturalmente un partito-azienda formato da truppe fidate di piccoloborghesi sudditi, arrivisti e pronti a fare del «moderatismo» la loro cifra pubblica.

Il suo successo nel campo della comunicazione era stato premiato con l’epiteto di «Sua Emittenza», a conferma dell’attacco con le sue televisioni portato al monopolio Rai, erodendolo fino ad equipararlo. Andava fiero del suo «alto profilo» morale: dal bunga-bunga, alle «cene eleganti», dalle «Olgettine» alle feste a luci rosse anche con minorenni, come nel caso della diciassettenne Ruby Rubacuori che, per toglierla dalle mani della questura di Milano dov’era finita per furto e senza documenti, fu fatta passare per nipote dell’allora presidente egiziano Mubarak con cui si sarebbe rischiato un caso diplomatico. Che dire poi del suo «alto profilo» istituzionale. Anche questo era noto a tutti: evasione fiscale, falsificazione dei bilanci, compravendita di parlamentari, finanzieri, giudici, testimoni e, naturalmente, «olgettine» e minorenni. E del suo «alto profilo» politico-umano? Qualsiasi cosa per le sue aziende e per i suoi figli a cui lasciare una cospicua eredità, e a loro difesa una serie interminabile di leggi ad personam, utili – tra l’altro – per tutti coloro che hanno seguito i suoi esempi, e utili ancor oggi visto che il governo Meloni, in onore di Berlusconi, a tre giorni dalla sua morte, ha varato nel consiglio dei ministri «una riforma della giustizia» che Berlusconi non era riuscito a varare nonostante i suoi 4 governi in vent’anni e che, come dichiarato da Nordio, attuale ministro della giustizia, sarebbe piaciuta a «lui» (oggi ancora con la l minuscola, in attesa magari di trasformarla in maiuscola come si usò nel ventennio mussoliniano...), cioè una riforma che, ad esempio, salva ancor più di prima i politicanti di ieri, di oggi e di domani dai soliti abusi e dalle solite corruzioni.

Non c’è stato nessuno come Berlusconi che, da metà degli anni ’80 del secolo scorso fino ad oggi, 2023, abbia collezionato una simile quantità di processi per le più svariate accuse: frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, corruzione, concussione, finanziamento illecito ai partiti, falsa testimonianza, prostituzione minorile, corruzione giudiziaria, concorso esterno in associazione mafiosa, riciclaggio di denaro sporco, abuso d’ufficio, diffamazione, induzione a testimoniare il falso, concorso in strage (per le stragi del 1992-93, il processo è ancora in corso) ecc. Il fatto che Berlusconi sia stato condannato soltanto in un caso (processo Mediaset, frode fiscale) a 4 anni, trasformati (grazie all’indulto) in 10 mesi di servizi sociali presso una clinica vicino a Milano, la dice lunga sull’eccezionale pressione esercitata sulla magistratura e sui partiti parlamentari, e sull’uso di tutti i cavilli di legge che solo un manipolo di avvocati superpagati era in grado di scovare, tanto da allungare i processi fino alla prescrizione dei reati commessi e da rendere nulle testimonianze pericolose o rendere accettabili testimonianze pagate appositamente. Non c’è stato nessuno come Berlusconi che, col suo fidatissimo clan, per quarant’anni, alla luce del sole, ha calpestato, distorto, stravolto e piegato le leggi dello Stato alle esigenze di un capitalismo privato che, oltre agli interessi privati delle sue aziende, aveva interesse ad avere le mani più libere possibili sia nei confronti dei limiti formali e burocratici scritti nelle leggi dello Stato, sia nei confronti di un parlamento che spesso ostacolava, con i suoi formalismi e le sue scadenze, la velocità con cui tutta una serie di leggi doveva passare per facilitare il suo giro d’affari e quello di alleati e amici, sia, e non ultimo, nei confronti dei lavoratori salariati ai quali bisognava far digerire tutta una serie di arretramenti facendoli passare per tappe necessarie allo scopo di aprire le porte del mondo del lavoro alle giovani generazioni. Il berlusconismo è consistito in sostanza in tutto questo, condito in salsa populista e, quindi, piccoloborghese, ma gestita con una certa maestrìa da un capitalista miliardario.

Dalla pubblicità e dal tifo calcistico, Berlusconi ha tradotto in gergo politico il modo semplice e diretto del venditore porta a porta, autodefinendosi rappresentante di quell’antipolitica, nata nella stagione di tangentopoli come reazione alla politica corrotta e corruttrice dei partiti della prima Repubblica, come reazione alla politica cosiddetta ideologica, e che sarà la caratteristica di alcuni movimenti politici che si richiamavano alla «vera democrazia», alla «democrazia dal basso», alla «democrazia popolare», non ultimo il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e oggi di Giuseppe Conte. Un’antipolitica che non era se non una versione confezionata intorno a slogan di facile e vasto impatto, sostituibili con grande facilità e velocità a seconda della «risposta» del mercato dei consumatori-elettori a cui erano diretti, e a seconda dell’audience che di volta in volta raggiungeva quello slogan, quell’immagine, quella trovata. In un certo senso l’antipolitica non è stata se non una conferma che i miti dell’ideologia borghese, in particolare il mito della democrazia in cui l’individuo è il perno di tutto, sono stati logorati dal sistema politico dei partiti tradizionali: i partiti, con i loro programmi validi per decenni, con la loro struttura burocratica e complicata, con le loro ideologie divisive, con le loro mille consorterie e mille «correnti» dovevano essere seppelliti e al loro posto dovevano nascere dei «movimenti», più snelli, più coinvolgenti, più popolari e meno burocratizzati e che rispondevano non a dei complessi programmi politici, ma a dei capi-popolo, a dei duci.

La società capitalistica, dal punto di vista economico-produttivo e sociale, impone uno sviluppo politico corrispondente alle sue dinamiche oggettive, alle sue determinazioni materiali e se il suo sviluppo va verso la concentrazione e la centralizzazione, verso il sistema dei monopoli, come avviene dappertutto nella sua fase imperialista, la politica borghese è obbligata a rispondere sulla stessa linea d’onda, senza perdere però la sua funzione di sostegno degli interessi, seppur contrastanti, delle diverse fazioni borghesi e, soprattutto, senza perdere la sua funzione di ingannare le masse, e il proletariato in particolare, sul ruolo che è stato loro dato nella società: di popolo bue in ogni tornata elettorale, di forza produttiva da sfruttare al massimo in ogni ciclo produttivo in cui il capitale deve essere valorizzato. Che tutto questo avvenga in tempo di pace o di guerra, in zone di pace o in zone di guerra, non è mai dipeso né da un re o da un primo ministro né tanto meno da una fatale combinazione di eventi negativi. La politica borghese segue gli eventi oggettivi dell’economia capitalistica e delle sue contraddizioni, e si trasforma in politica di guerra nella misura in cui i contrasti tra Stati non sono risolvibili in altre maniere. In ogni caso, in pace e in guerra, chi ci guadagna è sempre la borghesia, chi ci perde, e molto, è sempre il proletariato.

La facilità con cui Berlusconi e il berlusconismo si sono imposti nelle stagioni della politica italiana – anche quando Berlusconi non era al governo – è dovuta ad una politica che la democrazia borghese ha ereditato, dal secondo dopoguerra in poi, dal fascismo: la politica della collaborazione di classe. La caratteristica di questa politica sta proprio nel legare gli obiettivi e gli interessi della classe lavoratrice agli obiettivi e agli interessi della classe capitalistica, legame inteso come bene comune e che, dando per scontato, per irreversibile, che la società sia in mano ai capitalisti – che posseggono tutto –, tale bene comune (cioè il bene anche dei lavoratori) è raggiungibile e può durare nel tempo alla condizione che i lavoratori sottomettano i loro interessi specifici all’interesse generale delle aziende in cui lavorano, e del paese in cui vivono. Aziende e paese contraccambiano: le aziende sul piano della carriera personale di ciascun dipendente a seconda del «merito» dimostrato ai capi d’azienda, il paese sul piano della politica sociale, come ad esempio in tema di tasse, di agevolazioni sull’acquisto della casa ecc.; piani che non hanno migliorato le condizioni di esistenza e di lavoro dei proletari, perché di fatto, in questi ultimi trent’anni, esse sono state rese sempre più flessibili e precarie, mentre le tasse salivano e i salari scendevano.

La politica borghese non sfugge ai diktat imposti dai rapporti di forza fra potentati economico-finanziari e tra Stati, e la politica della borghesia italiana non può sottrarsi al condizionamento generato dalla sua dipendenza dall’atlantismo capeggiato dagli USA che, sull’onda della vittoria nella seconda guerra imperialista mondiale, ha imposto all’Italia una subalternità sempre più stretta, tanto più di fronte a forze sociali e politiche che tendevano a farsi portavoce, in parte, degli interessi dell’imperialismo avverso, quello russo, per il quale – soprattutto negli ultimi trent’anni – è proprio la destra cosiddetta «moderata», e Berlusconi in prima persona, ad aver sostituito le relazioni amichevoli con Mosca che un tempo erano «patrimonio» del Pci e dei loro capi. Ma quelle relazioni amichevoli rispondevano, come era logico, ad interessi privati ben precisi che non si facevano incanalare soltanto verso Mosca, ma verso qualsiasi altra capitale del potere e del denaro con cui interagire.

Ecco dunque, che il berlusconismo – la politica che mescola affarismo, opportunismo, corruzione, nepotismo, trasformismo, consumismo e ovviamente maschilismo – in un paese come l’Italia in cui il chiagni e fotti è l’arte del sistematico e ipocrita vittimismo, non muore con il primo grande delinquente che ha avuto gli onori del funerale di Stato e della giornata di lutto nazionale!

I proletari italiani, intossicati dal tifo calcistico, dalla spettacolarità e dalla strafottenza con cui i potenti vivono e crepano, sono indotti a considerare le condizioni di esistenza in cui sono costretti a vivere e le condizioni di sfruttamento cui sono sottoposti giorno dopo giorno, come condizioni permanenti il cui miglioramento dipende soltanto dal buon cuore dei capitalisti e dei politici che ne difendono gli interessi, presso i quali delegano la chiesa, i sindacati, i partiti parlamentari, di destra e di sinistra, a perorare la loro causa. Troppi anni di lotte deludenti, demoralizzanti, condotte dai collaborazionisti di ogni risma, da politicanti berlusconiani e anti-berlusconiani, pesano sulle loro spalle; la corruzione economica e materiale, e la corruzione politica e ideologica hanno prodotto un rifiuto generalizzato verso la politica nel senso dell’organizzazione delle risorse materiali e immateriali a disposizione per soddisfare i bisogni sociali di un’intera comunità; nel senso di una lotta non tra individui, tra sette, tra fazioni, ma tra classi contrapposte e antagoniste che nessuno ha inventato, ma che la stessa storia dello sviluppo economico e sociale ha prodotto. La politica è equiparata invece a interesse privato, corruzione, facile via per emergere sugli altri calpestandone diritti e bisogni: questo è il concetto di politica che la borghesia diffonde attraverso i fatti, mentre leva candidi inni alla libertà, all’uguaglianza, al diritto di una vita dignitosa...

Come nel passato, così nel presente e soprattutto nel futuro la politica proletaria ha avuto, ha e avrà un peso fondamentale non per il misero mondo inviduale, ma per l’unica lotta che potrà portare l’intera società ad uno sbocco completamente opposto a quello in cui l’ha portata finora e la porterà inevitabilmente ancora la politica borghese: la lotta proletaria rivoluzionaria, con la quale la classe produttrice per eccellenza, la classe dei lavoratori salariati, unita sotto lo stesso programma politico, guidata da uno stesso e unico partito comunista rivoluzionario, avrà come obiettivo principale l’abbattimento dello Stato borghese e di tutto il suo sistema corrotto e corruttivo di amministrare le risorse produttive e sociali, al posto del quale erigere il potere dittatoriale della classe proletaria che per finalità avrà la trasformazione da cima a fondo dell’intera società e della sua economia non più basata sul capitale e sul lavoro salariato, quindi non più sulle merci e sul mercato, ma sulla produzione di beni d’uso atti a soddisfare esclusivamente i bisogni della comunità umana. La prospettiva è quella del comunismo, come lo intendevano Marx ed Engels, e contro il quale – dal suo punto di vista, giustamente – Berlusconi, come tutta la grande borghesia di cui faceva parte, lottava con tutti i mezzi, i propri, legali e illegali, e quelli che lo Stato gli metteva a disposizione. 

 


 

(1) Cfr. https://www.quirinale.it/elementi/92089

 

18/06/2023

 

 

Partito Comunista Internazionale

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