Dalla spirale di massacri continui che hanno punteggiato la storia mediorientale degli ultimi cent’anni non si esce col nazionalismo, ma con la lotta per la rivoluzione proletaria e comunista

(«il comunista»; N° 179 ; Settembre-Novembre 2023)

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Con la guerra del 1967 Israele, sbaragliati gli eserciti arabi, si era impossessata, oltre che del Golan siriano e del Sinai egiziano, anche della Cisgiordania e di Gaza, dove erano stati confinati i palestinesi in seguito alle ondate di espropri iniziati nel 1948 con la costituzione di Israele come Stato indipendente – e per tutto il periodo fino agli accordi di Camp David del 1978 (coi quali l’OLP era stata costretta a riconoscere Israele come entità statale), la lotta armata palestinese, condotta dalle varie formazioni dell’OLP con l’obiettivo di costituire lo Stato di Palestina distruggendo Israele, si concludeva nel peggiore dei modi: Cisgiordania e Gaza diventavano gabbie in cui i palestinesi che non erano fuggiti in Giordania, in Libano, in Siria, in Egitto, erano di fatto imprigionati, repressi sistematicamente, sorvegliati dalle forze militari israeliane e dalle stesse forze di repressione dell’OLP (diventata poi Autorità Nazionale Palestinese), ridotti in generale ad una sopravvivenza più che precaria. La guerriglia delle varie formazioni dell’OLP, dalla sua costituzione nel 1964 in poi, si dimostrò ben presto del tutto inefficace e illusoria rispetto all’obiettivo perseguito; e non solo a causa della potente macchina da guerra di Israele, ma anche a causa delle azioni repressive di tutti gli Stati arabi in cui i palestinesi cercavano rifugio (il Settembre nero in Giordania e il massacro di Tall-el-Zaatar in Libano sono gli emblemi della «soluzione finale» con la quale ogni Stato arabo cercava di «risolvere la questione palestinese»). La pelosa solidarietà araba dei vari Stati mediorientali e nordafricani non si limitava a tenere i palestinesi il più lontano possibile dai propri territori – pur alimentando ipocritamente l’idea prima della «Grande Palestina» e poi dei «due popoli, due Stati» – ma tendeva in tutti i modi a ributtare i palestinesi in bocca al suo principale carnefice: Israele.

Nel sempre terremotato Medio Oriente, mentre era saltata completamente l’illusoria «unità araba» e la lunga stagione delle lotte anticoloniali in Africa e in Asia stava esaurendosi del tutto, si innestava in Iran la cosiddetta «rivoluzione islamica» del 1979 che fece cadere lo Scià – gendarme in seconda, per conto dell’imperialismo occidentale nella vasta area mediorientale, dopo Israele. Le vicende iraniane apparivano allora come uno scossone che avrebbe indebolito gli imperialismi occidentali, e in particolare l’imperialismo americano, e avrebbe dato nuovamente fuoco alle rivolte arabe in tutto il Medio Oriente sull’onda del fondamentalismo islamico che legava in un modo o nell’altro tutte le popolazioni dell’area. Era innegabile il colpo che la prima potenza imperialistica mondiale aveva subìto nella sua corsa al totale controllo di un’area che, gonfia di petrolio, costituiva un punto strategico di primaria importanza per ogni imperialismo. In quei decenni l’imperialismo americano aveva sostituito in quell’area il colonialismo classico inglese e francese, aveva stroncato i tentativi di inserimento dell’imperialismo russo e manovrava le sorti delle popolazioni mediorientali, e naturalmente dei palestinesi, attraverso i dollari e gli armamenti a Israele, i successivi accordi con l’Egitto e con le potenze petrolifere, soprattutto con l’Arabia Saudita. Ma tutto questo fare e disfare di trattative e di accordi non impedivano ai regimi dei paesi mediorientali di lottare gli uni contro gli altri per accaparrarsi un’ulteriore fetta di potere rispetto a quello che già si erano assicurati, usando non solo le alleanze interarabe per impedire a Israele di espandere il proprio territorio oltre la valle del Giordano e il Sinai, ma anche la lotta indipendentista palestinese (finanziata appositamente), da un lato, per tenere Israele occupato in una guerra interna e, dall’altro, per impedire alla lotta del proletariato palestinese di sconfinare dal terreno democratico-borghese al terreno della vera e cruda lotta di classe. Ciò che nessuno Stato e nessuna potenza imperialistica volevano era che il Medio Oriente si trasformasse nella culla della lotta rivoluzionaria di segno proletario!

I contadini palestinesi, violentemente espropriati della loro terra, venivano così, forzatamente, trasformati in proletari, in braccia da lavoro a disposizione di qualsiasi capitalista volesse sfruttarle, israeliano, libanese, siriano, giordano, egiziano, palestinese che fosse. Il capitalismo, questo mostruoso sistema economico e sociale di sfruttamento del lavoro umano, anche se in ritardo rispetto all’Europa e a tante altre aree del mondo, si stava radicando nei paesi arabi con tutta la cinica violenza di cui si dimostrò capace; ma, sviluppandosi, creava allo stesso tempo una massa di lavoratori salariati, di proletari, che le vicende storiche li aveva messi nelle condizioni di dover combattere contro tutto e tutti solo per sopravvivere un giorno dopo l’altro.

Dopo decenni di massacri da parte dei cosiddetti «paesi fratelli» e di oppressione diretta da parte della borghesia israeliana, il destino della popolazione palestinese e della lotta guidata dalla sua borghesia per la «liberazione della Palestina» raggiunse il suo punto più basso in assoluto: la possibilità della formazione di uno Stato nazionale palestinese che avesse le caratteristiche materiali di uno Stato indipendente sorto dalla lotta sì borghese, ma almeno nazionalrivoluzionaria (continuità del territorio, governo politico nella forma della repubblica, risorse agricole e industriali di base, mercato interno ecc.), era definitivamente tramontata. Le masse palestinesi, veri «stranieri in patria», trasformate nella stragrande maggioranza in proletari, in senza riserve, in salariati senza diritti, erano costrette a migrare costantemente da quella che un tempo era la loro terra in territori di cui altri si erano impossessati. La loro lotta, la loro resistenza, per decenni infeudate negli intrighi di una borghesia palestinese venduta ora all’una ora all’altra potenza regionale o internazionale pur di conservare un privilegio di casta, sono state tradite, sabotate, intrappolate e deviate mille volte, contribuendo in modo determinante al raggiungimento dell’obiettivo a cui tendevano tutti gli attori presenti nel Medio Oriente (sionisti, imperialisti euroamericani e russi, potentati arabi), nonostante i contrasti nei loro rapporti reciproci: disinnescare la potenziale lotta di classe del proletariato palestinese, l’unica che avrebbe potuto e, ipoteticamente potrebbe ancora, incendiare l’intero Medio Oriente nella prospettiva della sola soluzione di tutti i problemi sviluppatisi nell’area, inerenti sia le questioni «nazionali» ancora irrisolte (palestinese, yemenita, curda, per ricordare le principali), sia i rapporti di dipendenza dalle potenze imperialiste occidentali e orientali, bloccando la prospettiva della rivoluzione proletaria, la rivoluzione che non conosce confini e il cui vero motore non è l’unità nazionale ma l’unificazione di classe nella lotta antiborghese di tutti i proletariati dell’area e del mondo intero.

Ai massacri che hanno segnato la storia delle masse palestinesi dal 1920 in poi, oggi si aggiunge l’ennesima carneficina che Israele sta compiendo a Gaza dopo il micidiale attacco portato dai miliziani di Hamas il 7 ottobre scorso contro i kibbutzim israeliani al confine con Gaza (facendo oltre 1.400 morti, 3.000 feriti e prendendo 240 ostaggi nascosti poi nei tunnel di Gaza). Mentre scriviamo, a Gaza, assediata da ogni lato, si contano più di 11mila morti, bombardamenti quotidiani e ospedali distrutti; per più di venti giorni dall’inizio dei bombardamenti israeliani a Gaza, alla popolazione civile non sono arrivati cibo, acqua, medicinali, carburanti, mentre l’elettricità è stata interrotta appositamente; nelle ultime due settimane Israele ed Egitto centellinano i camion con gli aiuti incolonnati al varco di Rafah e i gazawi del nord, bombardati sistematicamente, sono costretti a spostarsi a sud andando ad ammassarsi in quello che sta diventando un enorme e invivibile formicaio.

Hamas, così come è stato l’OLP di Arafat e come è l’ANP di Abu Mazen, è un’organizzazione politica e armata borghese che usa ogni mezzo per ritagliarsi una porzione di potere in un’area in cui la legge viaggia sulle bocche dei fucili e dei cannoni (e oggi anche dei missili), ammantandosi della logora ideologia di un nazionalismo che non ha più alcun valore storicamente rivoluzionario, ma che purtroppo funziona ancora come giustificazione del suo potere e della sua guerra. D’altra parte, non si può certo pensare che Hamas non sapesse che alla sua micidiale incursione del 7 ottobre Israele avrebbe risposto come mai prima, facendo strage di una popolazione civile che non ha alcuna via di fuga, né a Nord verso il Libano, né a Sud verso l’Egitto, né tantomeno vero il mare aperto. Così, il cannibalismo israeliano va a braccetto con il cannibalismo di Hamas.

Al nazionalismo palestinese risponde il nazionalismo ebraico, al terrorismo di Hamas risponde il terrorismo di Stato di Israele, soffocando in questo modo anche soltanto l’idea di una sollevazione proletaria a Gaza come avvenne nel ghetto di Varsavia nel 1943. Il governo israeliano guidato da Netanyhau ha lanciato, dopo il 7 ottobre, l’attesa minaccia: eliminazione totale di Hamas!, sapendo perfettamente che per eliminarlo – o perlomeno per renderlo innocuo per molto tempo – dovrà radere al suolo Gaza, come fecero i nazisti col ghetto di Varsavia; sempre che gli Stati Uniti permettano a Netanyhau di perseguire un obiettivo del genere. Il fatto è che il «problema palestinese» non è confinabile né a Gaza, né in Cisgiordania, né a Gerusalemme Est e non è un problema che riguarda soltanto Israele. È diventato da molto tempo un problema internazionale, sia dal lato borghese, sia dal lato proletario. Sono le stesse vicende legate alle rivolte palestinesi e alle loro repressioni, in Israele come in ogni altro Stato arabo, che mostrano come in tutta l’area mediorientale la «questione palestinese» non è più una questione soltanto «palestinese», ma una questione internazionale.

Certo, l’assenza di uno Stato palestinese indipendente, riconosciuto dagli altri Stati e nel quale si conduca una vita sociale e politica regolata non dai continui soprusi, dalle torture, dal razzismo, dalla repressione e dalla mancanza di ogni diritto civile, per le masse diseredate palestinesi e per il proletariato palestinese pesa oggettivamente come un macigno; che, poi, il popolo palestinese aspiri, come negli altri paesi civili, a vivere non come profugo, non perennemente ai margini di una società che lo rifiuta, è del tutto naturale. D’altra parte, l’aspirazione, del tutto borghese e democratica, di uno Stato indipendente non è campata in aria, fa parte della storia della classe borghese che con la rivoluzione politica e con lo sviluppo del capitalismo ha divelto le forme sociali del feudalesimo e del dispotismo asiatico in modo certamente ineguale nelle diverse aree del mondo, ma in modo tale che oggi nessun paese, anche il più arretrato economicamente e socialmente, ha la possibilità di condurre una propria storia se non condizionato fortemente dal capitalismo mondiale e, in particolar modo dopo la seconda guerra imperialista mondiale, dalle potenze imperialiste che dominano sul mondo.

 

Torniamo a Lenin e alla «questione dell’autodecisione dei popoli»

 

Questa indiscutibile realtà porta alcune formazioni politiche che si dicono comuniste, rivoluzionarie o addirittura collegate alla (o eredi della) Sinistra comunista d’Italia, a negare che esista ancora una «questione nazionale palestinese» e a sostenere che per i proletari palestinesi, come per qualsiasi popolazione oppressa da altri popoli, questo problema non è più attuale e che perciò essi devono indirizzarsi soltanto alla rivoluzione proletaria internazionale alla quale sono chiamati tutti i proletari, di qualsiasi nazionalità, di qualsiasi paese. Vecchia posizione proudhoniana, questa, combattuta già da Marx e poi da Lenin. In pratica è come dire che, per i palestinesi non esiste il problema di lottare contro l’oppressione nazionale che subiscono e per i proletari israeliani (sia arabi che ebrei) come se non avessero il compito, prima di tutto, di lottare contro quell’oppressione esercitata dalla loro borghesia nazionale. Esistono nazioni dominanti e nazioni oppresse, e questo è, per Lenin, un punto centrale per ogni comunista perché «rappresenta l’essenza dell’imperialismo»; questa divisione tra le nazioni è «indiscutibilmente sostanziale dal punto di vista della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo. E da questa divisione deve scaturire la nostra definizione – coerentemente democratica, rivoluzionaria e corrispondente al compito generale della lotta immediata per il socialismo – del «diritto delle nazioni all’autodecisione». In nome di questo diritto, lottando per il suo riconoscimento non ipocrita, i socialdemocratici [termine del 1915 che equivale, oggi, a comunisti rivoluzionari, NdR] delle nazioni dominanti debbono rivendicare la libertà di separazione per le nazioni oppresse, perché altrimenti il riconoscimento dell’eguaglianza di diritti delle nazioni e della solidarietà internazionale degli operai sarebbe in pratica soltanto una parola vuota, soltanto un’ipocrisia». Per quanto riguarda i «socialdemocratici, cioè i comunisti rivoluzionari, delle nazioni oppresse, essi, continua Lenin, «debbono considerare come fatto di primaria importanza l’unità e la fusione degli operai dei popoli oppressi cogli operai delle nazioni dominanti, poiché altrimenti questi socialdemocratici diverranno involontariamente degli alleati dell’una o dell’altra borghesia nazionale, che tradisce sempre gli interessi del popolo e della democrazia che è sempre pronta, a sua volta, ad annettere e ad opprimere altre nazioni» (1). Ricordando le posizioni di Marx ed Engels sulla «questione irlandese», Lenin afferma che «l’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda». D’altra parte Lenin non faceva che ricollegarsi anche alla risoluzione del congresso internazionale socialista di Londra del 1896 che riconosceva l’autodecisione delle nazioni, risoluzione che veniva completata con le indicazioni tattiche che Lenin stesso puntualizzava nei testi dedicati a questa questione tra il 1914 e il 1916. I nostri innovatori del marxismo diranno: ma dal 1860-1870 di Marx ed Engels, e dal 1915 di Lenin è passata molta acqua sotto i ponti; ormai siamo in piena fase imperialista nella quale la rivoluzione borghese democratica non è più all’ordine del giorno; perciò quel che valeva allora, oggi è stato superato, non vale più. Avessero il coraggio di dirlo a chiare lettere che Marx, Engels, Lenin non potevano prevedere che il capitalismo, nella sua fase imperialistica, avrebbe reso ogni questione «nazionale» del tutto anacronistica, antistorica, superata e che il proletariato di qualsiasi nazione, non importa se dominante o oppressa, non se ne deve più occupare... Essi «dimenticano» in particolare che Marx ha sempre subordinato – ma mai cancellato – la «questione nazionale» alla questione «operaia», alla questione della «rivoluzione proletaria», cosa che è sempre valsa per Lenin e per la Sinistra comunista d’Italia.

A dispetto delle posizioni che negano il diritto all’autodecisione perché l’imperialismo avrebbe condotto i proletari di ogni paese, più ancora che nelle fasi di sviluppo capitalistico precedenti, a dover lottare direttamente per il socialismo, Lenin, dopo aver affermato che «l’imperialismo dei nostri giorni [siamo in piena guerra imperialistica mondiale, NdR] ha portato a questo, che l’oppressione delle nazioni da parte delle grandi potenze è diventata un fenomeno generale», sostiene che «il socialista [oggi diciamo il comunista rivoluzionario, NdR] di una nazione dominante, il quale, sia in tempo di pace che in tempo di guerra, non svolge la propaganda per la libertà delle nazioni oppresse di separarsi non è un socialista, un internazionalista, ma uno sciovinista!» (2). Lenin insiste e sottolinea con forza la questione della libertà delle nazioni oppresse di separarsi: «Noi rivendichiamo questo, non indipendentemente dalla nostra lotta per il socialismo, ma perché quest’ultima lotta resta una parola vuota se non è legata indissolubilmente all’impostazione rivoluzionaria di tutte le questioni democratiche, compresa quella nazionale». E, a scanso di equivoci ribadisce: «Noi esigiamo la libertà di autodecisione, cioè l’indipendenza, cioè la libertà di separazione delle nazioni oppresse, non perché sogniamo il frazionamento economico o l’ideale dei piccoli Stati, ma, viceversa, perché desideriamo dei grandi Stati e l’avvicinamento, persino la fusione, tra le nazioni su una base veramente democratica, veramente internazionalista, inconcepibile senza la libertà di separazione». Come Marx nel 1869 chiedeva la separazione tra l’Irlanda e l’Inghilterra «in nome degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato inglese, così anche noi consideriamo la rinuncia dei socialisti della Russia alla rivendicazione della libertà di autodecisione delle nazioni nel senso da noi indicato, come un aperto tradimento della democrazia, dell’internazionalismo e del socialismo» (3).

Dunque per Marx e per Lenin gli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato non possono non contenere, nel caso di oppressione nazionale, la lotta per la libertà di separazione della nazione oppressa dalla nazione opprimente. Che si tratti di una rivendicazione politica immediata e democratica è detto a chiare lettere. Ma proprio perché la lotta proletaria è contro ogni oppressione capitalistica, tanto più in epoca imperialistica, e sebbene nell’epoca imperialista le rivendicazioni democratiche possono essere «realizzate», ma in modo incompleto (sono parole di Lenin) e talvolta in modo «pacifico» (come ad esempio la separazione della Norvegia dalla Svezia nel 1905, o la separazione tra la Slovacchia e la Cechìa nel 1993), non deriva affatto che il comunismo rivoluzionario debba rinunciare alla lotta immediata e decisa per queste rivendicazioni; il vero problema è di formularle «in modo rivoluzionario e non riformista, non limitandosi al quadro della legalità borghese, ma spezzandolo; non accontentandosi dei discorsi parlamentari e delle proteste verbali, ma attirando le masse alla lotta attiva, allargando e rinfocolando la lotta per ogni rivendicazione democratica fondamentale (ad es. dal diritto di sciopero al diritto di autodecisione delle nazioni oppresse, NdR) sino all’attacco diretto del proletariato contro la borghesia, cioè alla rivoluzione socialista che espropria la borghesia». In sintesi, il diritto delle nazioni oppresse all’autodecisione non è che «l’espressione conseguente della lotta contro qualsiasi oppressione nazionale» (4).

Perché questa posizione non faccia imprigionare i proletari, e i comunisti, nella logica della politica nazionalista borghese, allontanandoli dal loro compito storico rivoluzionario, si deve tener fermo, come dice Lenin, che «il fine del socialismo consiste non soltanto nell’abolizione del frazionamento dell’umanità in piccoli Stati e di ogni isolamento delle nazioni, non soltanto nell’avvicinamento delle nazioni, ma anche nella loro fusione. (...) Come l’umanità non può giungere all’abolizione delle classi se non attraverso un periodo transitorio di dittatura della classe oppressa, così non può giungere all’inevitabile fusione delle nazioni se non attraverso un periodo transitorio di completa liberazione di tutte le nazioni oppresse, cioè di libertà di separazione» (5). Tutti coloro che non sono d’accordo con quanto afferma Lenin sono liberi di abbandonare Lenin, il marxismo e la Sinistra comunista d’Italia e andarsene nelle braccia dell’utopismo piccoloborghese «di sinistra», il quale, mentre sventola la bandiera della rivoluzione mondiale di domani che «unirà» (non si sa con quali azioni) i proletari di tutte le nazioni, oppresse e dominanti, abbandona i proletari di oggi alla divisione tra coloro che fanno parte delle nazioni oppresse e coloro che fanno parte delle nazioni dominanti, favorendo nei fatti l’oppressione nazionale.

La piccola borghesia crede nel capitalismo «pacifico», nel graduale equilibrio democratico tra tutte le classi sociali e, quindi, in una eterea eguaglianza delle nazioni senza considerare la realtà della lotta di classe e il suo acuirsi in qualsiasi regime, anche in regime democratico. Sotto l’imperialismo l’oppressione delle piccole nazioni diventa un fenomeno generale, e aumenta con lo sviluppo dei contrasti interimperialistici, aumentando nel contempo i fattori di scontro e di guerra tra nazioni, tra Stati. L’unione pacifica delle nazioni, per la quale le grandi potenze imperialiste nel 1919 costituirono la Società delle Nazioni, fallita miseramente con lo scoppio della seconda guerra imperialista mondiale, e diventata poi Organizzazione delle Nazioni Unite ereditando gli stessi ingannevoli obiettivi della pace mondiale, era ed è rimasta l’illusione tipica della piccola borghesia, ma utile all’ideologia borghese che vuole far passare il capitalismo come un sistema fondamentalmente «pacifico». Un’utopia piccoloborghese condivisa da tutte le forze dell’opportunismo politico e sindacale che influenzano negativamente le masse proletarie del mondo, alla quale i comunisti rivoluzionari devono contrapporre, come dice Lenin, la divisione del mondo in nazioni dominanti e nazioni oppresse.

Riconoscere questa divisione, dal punto di vista proletario e comunista, comporta un atteggiamento diverso per il proletariato delle nazioni dominanti e il proletariato delle nazioni oppresse: «Il proletariato delle nazioni dominanti non può limitarsi a frasi generiche, stereotipate, ripetute da ogni borghese pacifista, contro le annessioni e per l’eguaglianza di diritti delle nazioni in generale. Il proletariato non può eludere col silenzio la questione – particolarmente ‘spiacevole’ per la borghesia imperialista – delle frontiere di uno Stato fondato sull’oppressione nazionale. Il proletariato non può non lottare contro il mantenimento forzato delle nazioni oppresse nei confini di uno Stato, e questo significa appunto lottare per il diritto di autodecisione. Il proletariato deve esigere la libertà di separazione politica delle colonie e delle nazioni oppresse dalla sua nazione. Nel caso contrario (...) tra gli operai della nazione dominante e gli operai della nazione oppressa non sarà possibile né la fiducia, né la solidarietà di classe». Nella questione di cui ci stiamo qui occupando il discorso vale per il proletariato israeliano. I comunisti rivoluzionari delle nazioni oppresse, invece, «debbono particolarmente difendere e attuare l’unità completa e incondizionata, quella organizzativa compresa, degli operai della nazione oppressa con quelli della nazione dominante. Senza questo non è possibile – date le manovre di ogni specie, i tradimenti e le infamie della borghesia – difendere la politica autonoma del proletariato e la sua solidarietà di classe col proletariato degli altri paesi, poiché la borghesia delle nazioni oppresse trasforma continuamente le parole d’ordine della liberazione nazionale in un inganno per gli operai: nella politica interna essa utilizza queste parole d’ordine per accordi reazionari colla borghesia delle nazioni dominanti (...), nella politica estera tende ad accodarsi con una delle potenze imperialiste fra loro rivali per conseguire i suoi scopi di rapina» (6). Il compito dei proletari delle nazioni oppresse non è certo semplice, ma se vogliono che la loro lotta contro l’oppressione nazionale abbia successo devono imboccare la strada indicata da Lenin, altrimenti saranno costantemente imprigionati nelle spire reazionarie della propria borghesia e in quelle della borghesia dominante. Anche il compito dei proletari delle nazioni dominanti non è facile rispetto alla questione delle nazioni oppresse, perché devono superare le barriere ideologiche, politiche e sociali che le borghesie dominanti alimentano costantemente facendo perno sui privilegi economici e sui diritti civili ad essi riconosciuti (ma non riconosciuti alle popolazioni e ai proletari delle nazioni oppresse) che li privilegiano rispetto ai proletari dei paesi più deboli. Compiti diversi, visto che gli uni, per un certo tratto, devono combattere a fianco delle borghesie delle stesse nazioni oppresse contro le borghesie dominanti, per poi rivolgere la propria lotta contro le proprie borghesie nazionali, e che gli altri devono combattere contro le proprie borghesie dominanti per l’autodecisione delle nazioni da esse oppresse sapendo di poter perdere i privilegi che li differenziavano dai proletari delle nazioni oppresse, ma, proprio perché proletari, di poter contare sull’unità di classe nella prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale per la lotta contro ogni oppressione borghese. Un popolo che opprime altri popoli non può essere libero, diranno Marx ed Engels, e ribadirà Lenin. Può essere libero un proletariato che col suo atteggiamento passivo permette alla propria borghesia di opprimere altre nazioni? Ovviamente no!, perché la propria borghesia non si limita ad opprimere altre nazioni, e altri proletariati, ma continua ad opprimere e sfruttare anche il proprio proletariato autoctono anche se gli concede alcune briciole dallo sfruttamento delle altre nazioni; briciole che, peraltro, è pronta a riprendersi nelle fasi di recessione della propria economia o di crisi più gravi.

Ma Lenin non si ferma a sottolineare la necessità di considerare sempre la visione tra nazioni dominanti e nazioni oppresse. Ci dà modo di leggere la realtà imperialistica traendo le necessarie lezioni per la lotta rivoluzionaria in ogni tempo. Egli scrive che bisogna distinguere tre tipi principali di paesi (7):

«Primo. I paesi capitalisti avanzati dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, in cui il movimento nazionale borghese progressivo è terminato da lungo tempo. Ciascuna di queste ‘grandi’ nazioni opprime nazioni straniere nelle colonie e all’interno del paese. I compiti del proletariato delle nazioni dominanti sono qui precisamente identici a quelli che si ponevano nel XIX secolo in Inghilterra rispetto all’Irlanda».

Visto che l’imperialismo ha fatto diventare l’oppressione delle nazioni da parte delle grandi potenze un fenomeno generale, questo problema non è scomparso dall’orizzonte della lotta proletaria, semmai si è aggravato. Ammesso, e non concesso, che tutte le colonie si siano «liberate» dall’oppressione nazionale delle vecchie potenze colonialiste, rimane comunque l’oppressione nazionale all’interno dei paesi capitalisti avanzati (palestinesi, curdi ecc. sono lì a dimostrarlo). I compiti del proletariato dei paesi capitalisti avanzati rispetto a questo problema non è dunque cambiato.

«Secondo. L’Europa orientale: l’Austria, i Balcani e soprattutto la Russia. In questi paesi il XX secolo ha particolarmente sviluppato i movimenti nazionali democratici borghesi e acutizzato la lotta nazionale. Il proletariato non vi può adempiere il compito di condurre a termine la trasformazione democratica borghese così come non può adempiere il compito di appoggiare la rivoluzione socialista negli altri paesi senza difendere il diritto all’autodecisione. Particolarmente difficile ed importante si presenta qui il problema della fusione della lotta di classe degli operai dei paesi dominanti e degli operai dei paesi oppressi». La conclusione della prima guerra imperialista mondiale portò il crollo dell’Austria asburgica e la tormentata formazione di una serie di nazioni indipendenti in tutto l’Est europeo (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Ucraina, mentre le varie popolazioni slave del sud confluivano nella Jugoslavia e le tre Venezie venivano assorbite dall’Italia); con il 1917, in piena guerra mondiale, la rivoluzione del proletariato in Russia diede l’avvio al movimento rivoluzionario europeo e mondiale nel quale – come sintetizzato in questo secondo punto da Lenin – si intrecciavano due compiti storici, quello democratico borghese e quello proletario socialista per i quali Lenin aveva magnificamente tracciato la tattica comunista (il cui obiettivo fondamentale era la fusione della lotta di classe degli operai dei paesi dominanti e degli operai del paesi oppressi) come risulta dalle citazioni che abbiamo riportato.

«Terzo. I paesi semicoloniali, come la Cina, la Persia, la Turchia e tutte le colonie, con una popolazione di circa 1000 milioni di abitanti [all’epoca, gli abitanti del mondo erano circa 2 miliardi e mezzo, NdR]. In alcuni di questi paesi, i movimenti democratici borghesi sono appena all’inizio, in altri sono ancora lontani dall’essere terminati. I socialisti non soltanto debbono esigere la liberazione immediata, incondizionata, senza indennità delle colonie – e questa rivendicazione, nella sua espressione politica, non significa altro, precisamente, che il riconoscimento del diritto di autodecisione – ma debbono sostenere in questi paesi, nel modo più deciso, gli elementi rivoluzionari dei movimenti democratici borghesi di liberazione nazionale, aiutarli nella loro insurrezione e, se il caso si presenta, nella loro guerra rivoluzionaria contro le potenze imperialistiche che li opprimono» (i neretti sono nostri). A dimostrazione del filotempismo del nostro partito, anche questa posizione è stata da noi decisamente ribadita nel trentennio del secondo dopoguerra rispetto ai movimenti coloniali tanto da costituire uno dei motivi di scontro e di scissione con i compagni che seguirono poi il gruppo di Damen («battaglia comunista») (8). Ovviamente la vittoria della rivoluzione bolscevica nell’ottobre 1917, lo sforzo di terminare la guerra anche a costo di perdere importanti territori (vedi Brest-Litovsk 1918), la fondazione dell’Internazionale Comunista (1919), il sostegno attivo alla lotta dei popoli non bianchi (vedi il Congresso di Bakù del 1920) e la guerra civile contro le armate bianche che durò fino al 1921 ebbero un peso significativo sui movimenti democratici borghesi di liberazione nazionale. Soltanto l’alleanza tra le forze imperialiste che tentavano di soffocare la rivoluzione russa e, con essa, la rivoluzione nel mondo, e la controrivoluzione staliniana bloccarono il movimento proletario rivoluzionario in Europa, in Asia, nelle Americhe e in Africa, tanto da deviarlo completamente sul terreno del nazionalismo e dell’imperialismo borghese anche nei paesi oppressori. Il massacro dei proletari e dei comunisti cinesi insorti a Canton e Shanghai nel 1927, favorito dalla politica controrivoluzionaria staliniana, dà il colpo di grazia alle possibilità che, nello svolto storico apertosi con la prima guerra imperialista mondiale e con la rivoluzione in Russia, aveva il movimento rivoluzionario mondiale. Ciò non significa che le indicazioni politico-tattiche di Lenin siano decadute.

Se l’obiettivo per Marx, sulla questione irlandese, era di educare gli operai inglesi all’internazionalismo proletario, lo stesso obiettivo valeva per Lenin e per la Sinistra comunista d’Italia. Non v’è alcuna ragione storica perché questa tattica debba essere cancellata dai compiti che spettano, prima di tutto ai comunisti rivoluzionari e, naturalmente, ai proletari più avanzati e coscienti dei loro interessi di classe. Ripetiamo: con l’imperialismo l’oppressione dei paesi dominanti sulle popolazioni dominate è aumentata, non diminuita. Il fatto che molte delle colonie esistenti nel 1920, non lo siano più – o meglio, hanno conquistato l’indipendenza politica e hanno formato i loro Stati nazionali, ma dal punto di vista della dipendenza dal mercato mondiale dominato dalle potenze imperialiste, questa non è diminuita ma si è enormemente accentuata – ha dimostrato che nei paesi semicoloniali e nelle colonie i movimenti democratici borghese, anche se rivoluzionari (rispetto alle condizioni politiche, economiche e sociali precedenti), il progresso borghese e lo sviluppo del capitalismo nazionale non hanno fatto scomparire le contraddizioni fondamentali del capitalismo: sfruttamento sempre più intenso del lavoro salariato, oppressione sistematica della donna, oppressione sistematica delle minoranze nazionali. Il lato storicamente positivo del progresso capitalistico in molte aree del mondo un tempo molto arretrate è costituito dalla trasformazione di vaste masse contadine in proletari, elevando anche in quei paesi la contraddizione sociale principale: l’antagonismo di classe tra proletariato e borghesia, consegnando in questo modo all’avvenire della lotta di classe battaglioni proletari molto più numerosi e meno intossicati dal collaborazionismo opportunista interclassista di quanto non lo siano stati e non lo siano tuttora i proletari dei vecchi ma potenti paesi imperialisti.

Lenin affermava che per l’educazione rivoluzionaria delle masse «i socialisti [cioè i comunisti rivoluzionari, NdR] dovranno spiegare alle masse che i socialisti inglesi i quali non rivendicano la libertà di separazione per le colonie e per l’Irlanda; i socialisti tedeschi i quali non rivendicano la libertà di separazione per le colonie, per gli alsaziani, per i danesi, per i polacchi, non svolgono una propaganda rivoluzionaria immediata e un’azione rivoluzionaria di massa contro l’oppressione nazionale (...); i socialisti russi i quali non chiedono la libertà di separazione per la Finlandia, per la Polonia, per l’Ucraina ecc., che questi socialisti agiscono come sciovinisti, come servi delle monarchie imperialiste e della borghesia imperialista, le quali si sono coperte di sangue e di fango» (9). Le vicende storiche successive alla prima guerra imperialista mondiale, sebbene abbiano portato all’indipendenza molte colonie e molti paesi, un tempo dominati, non hanno cancellato l’oppressione nazionale da parte delle nazioni dominanti. Alle potenze coloniali di un tempo, trasformatesi poi in potenze imperialiste, si sono aggiunti altri paesi che, come Israele, sono stati creati appositamente come gendarmi regionali per conto degli imperialisti dominanti.

L’oppressione dei popoli più deboli, che con l’imperialismo è in generale aumentata, in determinate aree del pianeta ha preso così il volto della nazione che ha sostituito il ruolo diretto del colonialismo/imperialismo precedente permettendo, in questo modo, alle potenze imperialiste che dominano realmente il mondo, di giocare la carta diplomatica del negoziato tra due popoli che nello stesso territorio – come appunto i palestinesi e gli israeliani – si contendono la reciproca indipendenza. L’ONU, fin dal 1947 deliberò la risoluzione per la costituzione di due Stati per i due popoli nel territorio chiamato Palestina, e la presentò come la soluzione del conflitto ebraico-palestinese per la quale coinvolse due paesi arabi, l’Egitto e la Giordania (che occupavano militarmente i territori abitati dai palestinesi). Perché tale risoluzione si attuasse, Egitto e Giordania avrebbero dovuto contribuire in modo decisivo perché nascesse lo Stato palestinese; in realtà, né loro né Israele – che nel 1948 si fa Stato, riconosciuto internazionalmente – vollero che nascesse quello Stato, sabotando sistematicamente ogni iniziativa volta a renderlo un fatto compiuto. Nel corso dei decenni non solo Israele, ma tutti gli Stati arabi, in cui si rifugiavano i palestinesi fuggendo dalle persecuzioni e dai massacri, continuarono a sabotare la nascita di quello Stato, trasformando la popolazione palestinese in una massa di proletari da sfruttare e, all’occorrenza, in carne da macello. Tutto ciò la dice lunga sulle dichiarazioni delle potenze imperialiste che, oltre a controllare l’ONU, controllano direttamente e indirettamente le forze politiche (e militari) coinvolte nel perenne conflitto mediorientale. L’obiettivo di paesi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, cioè dei paesi arabi più coinvolti direttamente nella lotta dei palestinesi contro l’oppressione nazionale, non è mai stato di contribuire alla nascita di uno Stato indipendente palestinese, ma quello di «distruggere» Israele, impossessarsi di porzioni del territorio di Palestina e sottomettere la popolazione palestinese che da contadina stava trasformandosi in proletaria.

Distruggere Israele? Ci provarono per ben 4 volte in 25 anni (nel 1948-49, 1956, 1967 e 1973), sia direttamente sia attraverso la guerriglia condotta dall’OLP. Non ci riuscirono, non solo perché si scontrarono con uno Stato moderno, militarmente ben organizzato e appoggiato dagli imperialismi occidentali più forti, soprattutto americano, ma perché sia nei disegni dell’imperialismo, sia in quelli degli Stati arabi già formati dopo la prima, e soprattutto dopo la seconda guerra imperialista mondiale, la costituzione di uno Stato palestinese non era in realtà prevista. Alla storiella di «due popoli, due Stati», che torna ad essere ventilata anche in questi giorni in cui Israele sta radendo al suolo una parte non indifferente di Gaza col pretesto di eliminare il terrorismo rappresentato da Hamas, non ci hanno mai creduto loro, né ci crede ormai più nessuno. La borghesia palestinese che, dopo l’OLP, si è organizzata nell’ANP col beneplacito delle potenze imperialiste, è in attesa di avere dagli USA – i veri padroni di Israele – e dai paesi arabi che sono ancora interessati a finanziarla, la possibilità di avere un privilegio in più rispetto alla misera «autonomia» che le è stata concessa finora. I proletari palestinesi non si possono attendere da questa borghesia corrotta, che si vende facilmente ora all’uno ora all’altro «compratore», nulla di diverso da quanto finora dato: l’illusione di una pacificazione con Israele attraverso l’intervento dei grandi imperialisti e, soprattutto, la realtà di un’oppressione che viene declinata in tutte le forme più orrende possibili.

Ecco perché la prospettiva che i proletari palestinesi devono imboccare, se non vogliono continuare ad essere massacrati sistematicamente sia dalla propria borghesia sia da quella straniera, a cominciare da quella israeliana, non è quella del terrorismo nazionalistico e guerrigliero, non è quella di appoggiarsi ai temporanei rivali di Israele, come l’Arabia Saudita, la Turchia o l’Iran, ma quella della lotta di classe sul cui terreno attirare la solidarietà dei proletari arabi degli altri paesi mediorientali, rivolgendosi al proletariato israeliano come fratelli di classe e non come popolazione nemica. Sarà il proletariato israeliano, nella sua maggioranza o nella sua parte decisiva – verso cui i comunisti rivoluzionari devono rivolgersi, come indicava Lenin, lottando contro la propria borghesia per il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autodecisione – a dover rispondere sul terreno della lotta proletaria di classe. Delle due l’una: o i proletari israeliani, a un certo punto del lungo conflitto israelo-palestinese, rompono la collaborazione con la propria borghesia e lottano a fianco dei proletari palestinesi nel modo in cui indicava Lenin, oppure continueranno a farsi complici dello sfruttamento bestiale dei proletari palestinesi e dell’oppressione nazionale del popolo palestinese attuata dalla propria borghesia, dichiarandosi in questo modo nemici non solo dei proletari palestinesi, ma della lotta proletaria in generale, della lotta proletaria e rivoluzionaria per l’emancipazione generale del proletariato mondiale. Fino a quando i proletari israeliani non romperanno con la propria borghesia continueranno ad essere schiavi degli interessi capitalisti in pace e in guerra, continueranno ad essere anch’essi trasformati in carne da macello al solo fine di difendere gli interessi della borghesia israeliana.

 

«Due popoli, due Stati»?

 

Come ricordato sopra, il motto «due popoli, due Stati» è stato rinnovato ogni volta che l’oppressione dei palestinesi, soprattutto da parte di Israele, portava la tensione tra i due popoli alla guerra guerreggiata: questa rivendicazione appariva come la «soluzione» delle tensioni provocate dalla questione nazionale mai risolta. Anche oggi, di fronte all’attacco terroristico di Hamas nei kibbutz israeliani, con l’orrore delle sue violenze, dei suoi morti, dei suoi feriti e degli ostaggi portati a Gaza, e alla risposta micidiale di Israele con l’orrore dei suoi bombardamenti, della strage decuplicata di civili, anziani, donne, bambini, è tornato di moda lanciare quel motto. Chi lo lancia? I pacifisti, naturalmente, gli opportunisti di tutte le tendenze politiche, le stesse potenze imperialiste e le stesse potenze regionali che in tutti questi decenni si sono mosse perché questa «soluzione politica» non si attuasse. Tutte le borghesie, coinvolte o meno direttamente nel conflitto arabo-israeliano attendono, dall’intervento delle grandi potenze imperialiste – Stati Uniti d’America, Russia, Cina, Unione Europea – il segnale perché le stragi si fermino, perché «finalmente», dopo tanti massacri, le popolazioni palestinese e israeliana trovino un punto d’incontro e comincino a vivere in pace ognuna nel proprio «Stato». Quindi, Israele dovrebbe concedere ai palestinesi la libertà di autodecidere sulla propria indipendenza, disegnando i confini del proprio Stato sul territorio che già nei decenni scorsi era stato fissato dall’ONU in territori separati (Cisgiordania e Gaza) e che finora è stato oggetto di scontri violenti, di occupazione militare con l’esercito di Israele e di ruberie da parte dei coloni israeliani; un territorio che non ha continuità e che, in realtà, sarebbe costituito da due enclavi separate all’interno dei confini dello Stato di Israele. In pratica, anche se ipoteticamente la costituzione formale di uno Stato palestinese dovesse avverarsi, grazia concessa dalle potenze imperialistiche e da Israele (ma non si sa per quanto tempo) sarebbe comunque uno Stato la cui economia continuerebbe a dipendere dalla concessione di passaggio delle merci attraverso le frontiere israeliane con il Libano, la Siria, la Giordania, l’Egitto; la cui economia sarebbe facilmente soffocata dalla concorrenza non solo di Israele ma anche degli altri Stati arabi della regione abituati finora a trattare il proletariato palestinese – che forma la stragrande maggioranza del popolo palestinese – come forza lavoro a basso costo e carne da macello nelle loro guerre di sopravvivenza, come dimostrato da Libano, Siria e Iraq, i cui Stati sono marci fino al midollo e sono mantenuti in piedi da parte degli imperialisti euro-americani e russi che si contrastano con ogni mezzo per ragioni di influenza sulla regione mediorientale strategicamente troppo importante per ognuno di loro.

Se le borghesie imperialiste non hanno alcun interesse a concedere ai palestinesi – direttamente o per interposto potere locale – la libertà di costituirsi in repubblica indipendente (se l’avessero voluto ne avrebbero facilitato  la formazione come hanno fatto per gli altri Stati), tanto meno ce l’hanno la borghesia israeliana e le borghesie arabe le quali, invece, dopo decenni di scontri e di guerre perse con Israele, sono scese a più miti consigli, considerando più vantaggioso avere delle buone relazioni con Tel Aviv, piuttosto che scontrarsi militarmente.

Stando così le cose, con un proletariato palestinese che si è svenato in una lotta di resistenza borghese senza sbocchi, con un proletariato israeliano compatto nella difesa dell’esistenza di Israele e con i proletariati dei paesi arabi pesantemente condizionati dalle lotte a sfondo islamico, è davvero difficile immaginare che da quella tormentata terra possa sorgere un movimento proletario rivoluzionario che sia in grado di prendersi in carico anche le conquiste democratiche che le rispettive borghesie non sono state capaci di condurre in porto. Sembra perciò che la parola d’ordine della libertà di autodecisione dei popoli sia storicamente tramontata per sempre perché è assente la lotta proletaria che avrebbe la forza di portarla avanti e utilizzarla per poterla togliere di mezzo dai suoi obiettivi storici rivoluzionari dopo aver provato che, per il futuro, la cosa più importante e fruttuosa nello scontro con la borghesia è la lotta internazionalista e non nazionalista.

Certo, se si dà per assodato che la depressione sociale e politica che il proletariato dei paesi dominanti sul mondo sta attraversando da più di ottant’anni difficilmente sarà superata, e che le sconfitte dei proletariati dei paesi dominati hanno tagliato le gambe ai movimenti rivoluzionari sorti nelle colonie e nei paesi oppressi, rendendo questi proletari ancora più schiavi del capitale e delle rispettive borghesie di quanto non fossero in precedenza, allora va archiviata la preparazione rivoluzionaria del proletariato internazionale prevista dal marxismo, affidandosi ai piccoli passi teorizzati dal riformismo classico con i quali poco per volta, pezzetto per pezzetto ci si illude di poter... cambiare il mondo. Se invece si guarda il cammino storico dello sviluppo del capitalismo in tutto il mondo e si mettono a fuoco i punti forti e i punti deboli della sua fase imperialistica – cosa che si può fare soltanto maneggiando il marxismo come teoria dell’evoluzione della società umana, come teoria della lotta di classe che ha storicamente uno sbocco determinato da tutto il suo corso precedente – allora la fiducia che i comunisti rivoluzionari hanno nel futuro avvento del socialismo non si basa sulla speranza che, per una particolare combinazione astrale, nasca il grande condottiero che affascinerà le vaste masse proletarie del mondo e le guiderà verso «il sol dell’avvenire», né si basa sull’idea che le numerosissime masse proletarie esistenti al mondo non attendono altro che vi sia un «partito» che illuminerà le loro coscienze e le convincerà che la loro strada non è quella indicata dalle borghesie e dalle forze opportuniste ma quella indicata dai comunisti rivoluzionari e che, in particolare, le masse proletarie devono pensare soltanto alla loro rivoluzione non sprecando energie, forze e tempo per occuparsi anche delle questioni politiche immediate – come ad esempio la questione «nazionale» che, guarda caso, non riguarda più direttamente i popoli bianchi presso i quali si è sviluppato il capitalismo, ma i popoli non bianchi, colonizzati e oppressi dai popoli bianchi – perché quelle questioni verranno automaticamente risolte dalla stessa rivoluzione internazionale...

Noi, nelle riunioni di partito dal 1951-52 in poi, abbiamo sistematicamente ripreso la grande questione nazionale e coloniale ricollegandoci alle Tesi del II congresso dell’Internazionale Comunista – tesi che non abbiamo mai dato per superate – che, a loro volta, erano il frutto di un lavoro teorico nel quale Lenin dedicò molti scritti proprio all’autodecisione dei popoli e al comportamento che dovevano avere i proletari dei paesi colonizzatori e i proletari dei paesi colonizzati dai popoli bianchi. Il tema era ed è che non possiamo dare per superata la questione «nazionale», e quindi l’autodecisione dei popoli, sebbene venisse posta dalla lotta contro l’oppressione nazionale anche in un caso su mille. Ecco perché, affrontando la «questione palestinese» (ma anche quella «curda» e le altre) noi, da comunisti rivoluzionari conseguenti, non la cancelleremo dalla nostra propaganda, inquadrandola necessariamente nella lotta generale contro il frazionamento delle nazioni, ma per la loro fusione.

 

Per l’unità tra proletari delle nazioni dominanti e proletari delle nazioni oppresse

 

Che la rivoluzione proletaria, se guidata dal partito comunista rivoluzionario – come fu guidata in Russia dal partito bolscevico di Lenin –, apra la strada alla soluzione di tutte le contraddizioni e di tutti i problemi che la società borghese non ha risolto – ma che, anzi, col tempo li ha aggravati – è una grande e magnifica affermazione perché attraverso di essa, e la dittatura proletaria a cui deve portare la rivoluzione, sarà possibile attuare il compito storico, che spetta soltanto alla classe proletaria mondiale, di superare tutte le contraddizioni della società borghese e del capitalismo, facendola finita con ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di ogni oppressione e avviando l’umanità verso la società di specie, verso il comunismo integrale.

Ma i veri problemi politici per i proletariati che subiscono, insieme all’oppressione salariale, anche l’oppressione nazionale e razziale da parte dei popoli dei paesi oppressori, quali sono? Come arriveranno alla rivoluzione contro la propria borghesia e contro la borghesia del paese dominante? Che rapporti di classe dovrebbero instaurare col proletariato del popolo oppressore? In che modo il proletariato del popolo oppressore può dimostrare al proletariato del popolo oppresso di essere un alleato di cui fidarsi e con cui ingaggiare la stessa lotta di emancipazione?

Dato che ogni azione politica delle classi sociali fonda le sue radici nella realtà economica e sociale esistente, e che l’azione politica delle classi subalterne è inevitabilmente influenzata e condizionata dalla politica delle classi dominanti, è altrettanto inevitabile che l’azione politica delle classi dominate – per essere efficace e corrispondente agli interessi propri delle classi dominate – sia materialmente antagonista agli interessi delle classi dominanti. In un mondo in cui domina la classe borghese, i suoi interessi specifici, da un lato, si scontrano con gli interessi specifici delle borghesie straniere (la lotta di concorrenza e le guerre fra di loro lo dimostrano da sempre), dall’altro lato spingono ogni borghesia a lottare contro le proprie classi subalterne. Ma la lotta che i contadini poveri, i proletari, le masse diseredate conducono contro l’ordine stabilito per sottrarsi al feroce dominio che mette a rischio la loro vita quotidianamente, non ha possibilità di successo, anche solo parziale, se non è sferrata sul terreno dello scontro violento, sul terreno della lotta di classe. Come ha sempre sostenuto il marxismo, la lotta di classe è lotta politica, impegna le classi antagoniste a combattere sul terreno in cui si decidono le sorti del potere politico. E su questo terreno, la borghesia di un paese – come la storia della lotta fra le classi, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni ha dimostrato – nella sua lotta contro la sollevazione delle masse diseredate, e ancor più contro l’insurrezione proletaria, non solo usa tutti i mezzi economici, sociali, religiosi, politici, militari a sua disposizione, ma può contare sull’alleanza con le borghesie degli altri paesi tutte le volte che l’incendio sociale scoppiato nel «suo» paese ha la potenzialità di estendersi negli altri paesi. Per il proletariato, in un certo senso, vale la stessa cosa: la lotta che esso ingaggia in un paese contro la sua borghesia nazionale ha una possibilità di successo a condizione di essere affiancata dalla lotta proletaria negli altri paesi, in particolare nei paesi capitalistici più forti e che usano questa loro forza per aiutare la borghesia (o le borghesie) sotto attacco proletario.

Un esempio pratico. Il proletariato palestinese – ammesso che i fattori oggettivi locali e internazionali facciano scoppiare le contraddizioni accumulate in Israele e nel Medio Oriente e che da questo scoppio si generino nel suo movimento di lotta delle scintille di classe che portino anche una piccola minoranza di elementi proletari alla formazione del partito comunista rivoluzionario – come si dovrebbe muovere per far sì che la sua lotta imbocchi la via della rivoluzione Come dovrebbe rapportarsi al proletariato israeliano che fa parte del popolo che lo opprime da decenni e che grazie a questa oppressione riceve in cambio un trattamento privilegiato rispetto ai proletari palestinesi ed anche a quelli arabo-israeliani? E’ evidente che fino a quando i proletari dei paesi che opprimono sistematicamente i palestinesi, in quanto palestinesi e in quanto proletari, a cominciare dai proletari di Israele, non dimostreranno con i fatti di lottare anch’essi contro l’oppressione nazionale antipalestinese, i proletari palestinesi non potranno mai considerare i proletari israeliani, e i proletari degli altri paesi, come propri alleati; li vedranno sempre come complici dei nemici, in sostanza come nemici tanto quanto i governanti israeliani e degli altri paesi dominanti. Il popolo israeliano, da quando Israele si è costituito in Stato indipendente, ha fondato la sua «libertà», la sua «democrazia», la sua «indipendenza» sull’oppressione del popolo palestinese; ha sviluppato la sua economia su tale oppressione, ha svolto e svolge il ruolo di gendarme per conto dell’imperialismo americano e dei suoi alleati in tutta l’area mediorientale dimostrando di essere in grado di opprimere e reprimere ogni forza che si oppone al suo ruolo di gendarme dell’imperialismo: è di fatto uno dei principali baluardi della reazione borghese. Ma, come diceva Marx, un popolo che opprime altri popoli non può essere libero; è un popolo schiavo del capitalismo, schiavo di un modo di produzione che condiziona ogni attività economica, politica, sociale a tal punto da trasformarlo in uno strumento dell’oppressione capitalistica. L’unica «libertà» che le classi dominanti dei popoli oppressori si prendono è la libertà di sfruttare le classi subordinate, di schiacciarle e reprimerle tutte le volte che si ribellano allo stato di cose esistente, è la libertà di opprimere, appunto, i popoli più deboli. Che «libertà» hanno le classi subordinate, le classi dominate, i popoli oppressi? Nessuna, se non quella conquistata soprattutto dalla lotta della classe proletaria nella misura in cui costringe le classi borghesi dominanti a cedere su determinate rivendicazioni democratiche, di cui fa parte anche l’autodecisione. I comunisti rivoluzionari sono perfettamente coscienti che tali rivendicazioni politiche non sono un assoluto, ma – come dice Lenin – «una particella del complesso del movimento democratico», e precisa: «oggi: del complesso del movimento socialista mondiale». Una particella, dunque qualcosa che, in determinate situazioni, può anche entrare in contraddizione con tutto il «complesso del movimento socialista mondiale», quindi deve essere respinta (10). Si tratta di valutare quelle «determinate situazioni», e qui ci può aiutare solo il metodo marxista che esamina tutti gli aspetti economici, sociali, politici, di rapporti di forze e storici delle situazioni.

Ricollegandosi a Marx ed Engels, Lenin ha ripreso la questione dell’auto-determinazione dei popoli dando al partito bolscevico e ai comunisti di tutti gli altri paesi una direttiva politico-tattica che, come abbiamo ribadito, non ha perso il suo valore visto che, con lo sviluppo dell’imperialismo, l’oppressione nazionale da parte dei paesi più forti nei confronti delle popolazioni e dei paesi più deboli non è scomparsa, ma si è aggravata. Negli anni della prima guerra mondiale e della rivoluzione proletaria che in Russia raggiunse la vittoria, la questione «nazionale» era ancora vivissima e storicamente decisiva in gran parte delle aree del mondo dominate dal colonialismo europeo. Continuò ad esserlo ancora negli anni della seconda guerra imperialista mondiale e nel suo dopoguerra, come dimostrarono le lotte di «liberazione» contro le potenze coloniali europee soprattutto in Asia e in Africa. Il grande disegno rivoluzionario di Lenin e dell’Internazionale Comunista che vedeva un allacciamento estremamente positivo fra la rivoluzione proletaria in Europa e in America – cioè nei paesi imperialisti più sviluppati – e la lotta di indipendenza politica dei popoli coloniali contro gli stessi paesi imperialisti che erano anche le maggiori potenze coloniali, segnava l’alba della rivoluzione mondiale guidata dal proletariato in tutti i continenti. Che la controrivoluzione abbia sconfitto il movimento proletario rivoluzionario e il partito comunista che era alla sua guida, è un fatto ineccepibile; ciò non toglie che nelle lezioni da trarre dalla controrivoluzione non si può cancellare l’esistenza dell’oppressione nazionale che molti popoli, e quindi molti proletariati, subiscono sotto il tallone di ferro delle potenze imperialistiche e delle loro ramificazioni regionali.

E’ innegabile, per noi, che oggi, con lo sviluppo del capitalismo in molte delle aree del mondo che ottant’anni fa erano del tutto sottosviluppate, e con la formazione di molti Stati almeno formalmente «indipendenti», la questione «operaia», la questione «proletaria», primeggi su ogni altra questione sociale. Ed è innegabile, proprio perché lo sviluppo del capitalismo ha comportato la formazione di masse proletarie molto più numerose di un tempo, che la questione della «rivoluzione proletaria» si è resa più attuale in molti paesi che un tempo avevano storicamente il problema di attuare ancora la rivoluzione borghese, economicamente e politicamente borghese. I contrasti interborghesi e interimperialistici sono comunque cresciuti coinvolgendo numericamente più paesi anche sul piano della forza militare, come d’altra parte le guerre locali, regionali, areali dimostrano da ottant’anni a questa parte. I contrasti interborghesi incidono inevitabilmente anche sui diversi metodi oppressivi, aggravando ogni tipo di oppressione, dunque anche quella nazionale e razziale. E’ perciò assurdo che coloro che si proclamano comunisti, per di più rivoluzionari, sostengano che la «questione nazionale» non è una questione di cui oggi i comunisti si devono preoccupare, quando è evidente anche ad un cieco che i palestinesi, i curdi, gli yemeniti, gli uiguri e cento altre popolazioni vengono schiacciate sistematicamente sotto l’oppressione nazionale.

I proletari palestinesi, curdi, yemeniti, uiguri e delle altre popolazioni oppresse hanno anch’essi il compito storico di lottare per la rivoluzione proletaria comunista, perché subiscono le stesse condizioni di lavoratori salariati sotto lo sfruttamento capitalistico come e più ancora dei proletari dei paesi oppressori e perché la lotta fra le classi che si è sviluppata negli ultimi due secoli nei paesi capitalisticamente più avanzati è la stessa che si è sviluppata e si sviluppa anche in quei paesi. Ma l’oppressione specificamente nazionale che subiscono domina inevitabilmente sulla loro vita quotidiana e ne condiziona la lotta di opposizione perché questa oppressione riguarda materialmente anche tutti gli altri strati della loro nazionalità, borghesi e piccolo borghesi, urbani e rurali; ed è questa specifica condivisione che unisce oggettivamente nell’immediato proletari e borghesi della popolazione oppressa.

La lotta dei proletari palestinesi, o delle altre nazionalità, contro l’oppressione nazionale poteva (e potrebbe) avere una prospettiva storicamente più valida e risolutiva combattendo, sì, su un terreno immediatamente nazionalrivoluzionario, ma inserito nella prospettiva della rivoluzione proletaria, prospettiva che richiede da sempre un’organizzazione politica e pratica del tutto indipendente da ogni altra forza sociale perché, come sosteneva Lenin, il loro compito non si esaurisce nella lotta contro la borghesia straniera per l’indipendenza nazionale, ma prosegue nella lotta contro la propria borghesia che – salita eventualmente al potere del nuovo Stato indipendente grazie alla vittoria della lotta nazional-rivoluzionaria – sarà essa stessa a sfruttare e reprimere direttamente le masse proletarie e contadine povere, sostituendosi alla borghesia straniera cacciata dal paese. La rivoluzione in Russia del 1917 lo ha dimostrato senza ombra di dubbio e così, in seguito, la rivoluzione in Cina, in Algeria, a Cuba, in Congo ecc. L’alleanza tra proletariato e borghesia della nazionalità oppressa aveva ragion d’essere nella misura in cui questa borghesia combatteva sul terreno nazionalrivoluzionario contro l’oppressione esercitata dalla borghesia straniera; ma non aveva più nessuna ragione di continuare quando le vicende di questa lotta mostravano coi fatti che il compito primario di questa borghesia era quello di schiacciare il proletariato, e i contadini poveri, in condizioni di sfruttamento se possibile peggiori delle condizioni precedenti. E non c’è dubbio che, da tempo, le lotte condotte dalla borghesia palestinese o curda o di qualsiasi altra nazione oppressa non hanno più le caratteristiche delle lotte nazional-rivoluzionarie come quelle dell’Algeria o del Vietnam; ciò non toglie che l’oppressione nazionale esercitata dalle borghesie dei paesi dominanti continui anche su di loro e che, in una futura situazione di crisi generale dell’imperialismo, in determinate aree in cui l’oppressione nazionale grava da molti decenni su popolazioni che continuano a ribellarsi ad essa, si ripresentino condizioni sociali in cui non solo il proletariato, ma anche alcune frazioni borghesi vengano spinte sul terreno della lotta nazional-rivoluzionaria.

La situazione che vissero la Germania nel 1850, la Russia nel 1917, la Cina nel 1927 e poi nuovamente nel 1949, e i paesi coloniali negli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso, potrebbe ripresentarsi, certamente con aspetti particolari diversi, ma ponendo i comunisti rivoluzionari e i proletariati di fronte sostanzialmente agli stessi problemi di fondo: se il mondo è diviso in nazioni dominanti e nazioni dominate – e con lo sviluppo dell’imperialismo questa divisione si è aggravata, rendendo ogni tipo di oppressione sociale, quindi anche quella «nazionale», sempre più intollerabile – quali sono i compiti del proletariato dei paesi dominanti e quali i compiti del proletariato dei paesi dominati? In che modo il proletariato dei paesi dominanti potrà dimostrare ai proletari dei paesi dominati di non essere complice dell’oppressione nazionale esercitata dalla propria borghesia imperialistica se non lottando contro di essa perché, prima di tutto, riconosca il diritto di separazione della nazione oppressa? Rifacciamo il caso della lotta per l’aumento del salario e per l’abolizione del salario: vi sono stati e vi sono dei comunisti che sono convinti che i proletari non debbano lottare per una rivendicazione immediata come l’aumento del salario perché in questo modo confermerebbero il regime capitalistico di oppressione salariale, mentre dovrebbero lottare direttamente e solo per la rivendicazione massima, cioè per l’abolizione del salario, il che vuol dire lottare direttamente e solo per il socialismo. Questi «comunisti» dimenticano uno degli insegnamenti marxisti fondamentali della lotta proletaria di difesa immediata delle condizioni di esistenza: il risultato più importante di questa lotta non è l’aumento in sé del salario, o qualsiasi altra rivendicazione immediata, che la borghesia può sempre rimangiarsi, ma la solidarietà di classe generata da questa lotta se condotta con mezzi e metodi classisti, dunque la coscienza di far parte di una classe che ha la potenzialità e la forza di porsi obiettivi più elevati di fronte ad una classe dominante che impone il suo dominio sociale attraverso la violenza della repressione a difesa di interessi che sono antagonisti a quelli proletari: la coscienza, appunto, dell’antagonismo di classe, sul quale il partito di classe fa leva per educare il proletariato a lottare non solo per rivendicazioni immediate, non solo contro la concorrenza tra proletari, ma per obiettivi politici più elevati fino alla conquista rivoluzionaria del potere politico centrale. Senza questi passaggi materialisticamente obbligati, dettati dai rapporti di forza esistenti tra la classe dominante borghese e la classe proletaria, il proletariato sarà sempre prigioniero non solo dell’ideologia borghese, ma anche dei metodi e mezzi politici e sociali che la borghesia adotta, e fa adottare, affinché i proletari abbandonino la prospettiva classista e rivoluzionaria, o non si avvicinino nemmeno a prenderla in considerazione, e abbraccino la prospettiva democratica e riformista perché tutta interna al dominio di classe della borghesia dominante.

 

Per l’internazionalismo proletario

 

 Lo sviluppo del capitalismo dopo la prima guerra imperialista mondiale e, soprattutto, dopo la seconda guerra imperialista mondiale, ha fatto superare in molti paesi, un tempo molto arretrati, la fase in cui economicamente e politicamente all’ordine del giorno c’era la rivoluzione borghese e le rispettive borghesie avevano il ruolo di guidare le masse proletarie e contadine in questa rivoluzione. Ma in moltissimi casi le borghesie delle piccole nazioni, delle nazionalità oppresse venivano comprate dalle borghesie delle grandi nazioni dominanti, o si affittavano a loro, diventando nei fatti un’ulteriore forza oppressiva e repressiva del proprio proletariato, confermando in questo modo la prospettiva di Lenin secondo la quale il proletariato doveva avere una sua organizzazione di classe e una sua prospettiva politica di classe del tutto indipendenti da ogni altra forza sociale, interna ed esterna, e perseguirla affiancato nella stessa lotta di emancipazione soltanto con i proletariati di tutti gli altri paesi. Prospettiva per la quale era nata l’Internazionale Comunista, poi distrutta dalla controrivoluzione staliniana.

Da comunisti rivoluzionari siamo per l’internazionalismo proletario, propagandiamo l’internazionalismo proletario e dobbiamo dimostrare col nostro programma e con la nostra  politica e tattica di dare all’internazionalismo proletario una dimostrazione pratica soprattutto rispetto ai proletari delle nazioni dominate, delle nazioni oppresse. Da comunisti rivoluzionari siamo contro l’oppressione delle piccole nazioni esercitata dalle grandi borghesie imperialiste e, al contempo, contro la grettezza delle piccole nazioni, il loro isolamento, il loro particolarismo; lottiamo perché ogni interesse particolare, quindi anche l’interesse nazionale, sia subordinato all’interesse generale del movimento proletario mondiale, al quale movimento i proletari dei paesi imperialisti sono tenuti a dare il contributo maggiore, proprio perché fanno parte delle nazioni che dominano il mondo.

Questi concetti sono espressi chiaramente da Lenin, il quale non manca di sottolineare che: «L’importante non consiste nel sapere se prima della rivoluzione socialista si libererà un cinquantesimo o un centesimo delle piccole nazioni, ma ciò che importa è che il proletariato nell’epoca imperialista, per ragioni obiettive, si è diviso in due campi internazionali, dei quali l’uno è corrotto dalle briciole che cadono dalla tavola della borghesia delle grandi potenze – tra l’altro, anche come risultato del duplice o triplice sfruttamento delle piccole nazioni – e l’altro non può liberare se stesso senza liberare le piccole nazioni, senza educare le masse nello spirito antisciovinista, cioè anti-anessionista, cioè nello spirito dell’ «autodecisione»». Ed ecco la sua staffilata ai comunisti a parole rivoluzionari internazionalisti, nei fatti complici dell’imperialismo e della sua politica di oppressione delle piccole nazioni:

«L’educazione internazionalista degli operai nei paesi dominanti deve avere necessariamente come centro di gravità la propaganda e la difesa della libertà di separazione dei paesi oppressi. Altrimenti non v’è internazionalismo. Noi abbiamo il diritto e l’obbligo di trattare da imperialista e da furfante ogni socialdemocratico [ogni comunista, NdR] di un paese oppressore che non faccia questa propaganda. Si tratta di una rivendicazione incondizionata, quantunque fino all’avvento del socialismo la separazione sia possibile e «realizzabile» in un caso su mille» (11). E sottolineiamo tre volte: si tratta di una rivendicazione incondizionata, quantunque fino all’avvento del socialismo la separazione sia possibile e «realizzabile» in un caso su mille!!! Lenin parla dell’avvento del socialismo che, sappiamo bene, riguarda il movimento proletario internazionale, la rivoluzione mondiale, i paesi del mondo e di un traguardo non ancora raggiunto da nessuna parte; parla della libertà di separazione dei paesi oppressi come di una rivendicazione incondizionata, una rivendicazione da sostenere anche se fosse realizzabile in un caso su mille! Ovviamente, e Lenin continua a mettere in guardia ogni comunista, perché il sostegno della parola d’ordine della libertà di separazione, dell’autodecisione di un popolo oppresso, deve essere sempre subordinata alla lotta generale del proletariato per il socialismo e va comunque calibrato secondo una valutazione della situazione storica delle condizioni particolari del paese o dei paesi oppressi in cui è rivendicata l’indipendenza, la libertà di separazione, e se questo obiettivo è realizzabile o meno attraverso guerre o rivoluzioni. Quindi, aldilà dei particolarismi della tal piccola nazione, ciò che deve guidare l’atteggiamento dei comunisti rivoluzionari, del partito di classe, in questa questione è appunto l’internazionalismo, quindi la lotta che unifichi i proletari delle nazioni che opprimono e delle nazioni oppresse, una lotta – come già detto – con la quale il proletariato della nazione che opprime deve dimostrare nei fatti di non essere parte attiva nell’oppressione nazionale, o indifferente rispetto all’oppressione nazionale che la propria borghesia esercita su popoli più deboli.

 

I compiti dei proletari dei paesi imperialisti

 

Pur essendo conclusa la grande fase delle lotte anticoloniali del primo trentennio del secondo dopoguerra mondiale, le questioni «nazionali» in molte aree del mondo sono ancora ben presenti e di certo costituiscono un intralcio all’affermarsi della prospettiva proletaria di classe. La forza ideologica e politica della borghesia condensata nella rivendicazione dell’indipendenza nazionale e della democrazia attraverso la quale tutti gli strati del popolo vengono illusi di avere la possibilità di esprimere le proprie esigenze e di soddisfarle sostenendole attraverso le varie istituzioni democratiche, poggia sulla forza economica del capitalismo nazionale e internazionale. Ma sotto l’imperialismo capitalistico la democrazia liberale ha perso completamente il suo valore politico; però, basandosi sulla forza economica e militare delle potenze imperialiste del mondo, mantiene ancora viva la sua influenza ideologica illudendo le masse proletarie non solo dei paesi imperialisti, ma anche dei paesi oppressi, di poter eliminare o attenuare in modo consistente le diverse forme di oppressione sociale attraverso, appunto, la negoziazione, la contrattazione, il «dialogo» civile e pacifico con cui è possibile, secondo i borghesi, superare i contrasti più acuti e porre fine alle guerre. Sono cent’anni e passa che la storia dei contrasti interborghesi si svolge attraverso guerre commerciali, forti contrapposizioni politiche e guerre guerreggiate, gravando soprattutto sulle condizioni di esistenza delle masse proletarie che tendenzialmente peggiorano sempre più, il che dimostra che nessun dialogo fra le classi «risolve» le contraddizioni sociale e nessun dialogo fra Stati annulla o riduce in modo consistente gli attriti e i contrasti che lo stesso sviluppo del capitalismo genera continuamente.

Questa è una ragione di più, e non di meno, perché i proletariati dei paesi imperialisti – che, volenti o nolenti, godono, sebbene soltanto delle briciole, dell’oppressione sempre più cieca e violenta esercitata dalle proprie borghesie imperialiste sui paesi più deboli – debbano dimostrare ai proletariati dei paesi più deboli e delle nazionalità oppresse di essere dalla parte degli oppressi, di lottare perché le forme di oppressione delle proprie borghesie imperialistiche finiscano, a partire dalle più intollerabili come quella nazionale, che è, insieme a quella religiosa e quella esercitata nei confronti della donna, tra le più radicate nella lunga storia delle società divise in classi.

Sostenere, quindi, che la classe operaia non deve occuparsi più, oggi, della questione «nazionale» – dunque di politica immediata – è lo stesso, come affermava Marx nel 1870, scrivendo a Paul e Laura Lafargue (12), che negare di doversi occupare della questione dei salari, alla maniera dei vecchi socialisti, col pretesto che «si vuole abolire il lavoro salariato. Combattere con i capitalisti per il livello del salario, vorrebbe dire riconoscere il sistema del salario!». Quel che qui non si capisce è che «ogni movimento di classe in quanto movimento di classe è ed è sempre stato necessariamente un movimento politico». Occuparsi di politica, per i comunisti, per i marxisti, significa considerare la realtà dialettica su ogni questione che riguarda la società, che è una realtà contraddittoria che si sviluppa, come ricorda Lenin, a salti, in modo catastrofico, rivoluzionario, dunque non lineare, non graduale, non rettilineo. Come dalla lotta economica di difesa immediata il proletariato non sviluppa il proprio movimento gradualmente, linearmente, nella lotta sul piano politico generale di classe, ma lo fa nella misura in cui, nello scontro con la borghesia e attraverso l’intervento e l’influenza determinante del partito di classe nel suo movimento, acquisisce la prospettiva di rottura sociale e rivoluzionaria come la sua unica prospettiva di sviluppo storico, così nella lotta sul piano politico immediato, per rivendicazioni politiche che non sono in assoluto incompatibili con il sistema politico borghese – dai diritti di organizzarsi in sindacati, in partiti politici, di riunirsi e di manifestare, di sciopero, di stampa fino al diritto di autodeterminazione dei popoli e della loro separazione in Stati indipendenti (diritti che in determinate congiunture storiche possono essere conquistati addirittura senza scontri di classe violenti) –, il proletariato ha tutto l’interesse a eliminare dal terreno della propria lotta classista tutti gli ostacoli ideologici e politici che la borghesia costruisce appositamente per deviare, indebolire, paralizzare, annichilire il suo movimento di classe. E non c’è dubbio che la questione «nazionale», proprio in forza di un’oppressione specifica che continua ad essere esercitata dalle borghesie più potenti, costituisca un enorme ostacolo ancor oggi alla ripresa e allo sviluppo della lotta classista del proletariato, sia nei paesi capitalistici più deboli, sia nei paesi imperialistici.

Il salto dalla lotta immediata, economica e politica a livello aziendale e nazionale, alla lotta politica di classe, dunque generale e a livello sovranazionale e mondiale, non avviene se non in corrispondenza di una profonda rottura sociale alla quale può provvedere non solo la lotta di difesa economica condotta con mezzi e metodi della lotta di classe (dunque incompatibili con la pace sociale e la collaborazione interclassista), ma lo sviluppo della lotta politica indirizzata all’unificazione della classe proletaria al di sopra non solo delle categorie, dei settori, dei generi e dell’età ma anche delle nazionalità e dei confini in cui ogni Stato borghese fa di tutto per imprigionare i propri proletari. Lottare contro l’oppressione nazionale dei paesi dominanti significa anche lottare nella prospettiva dell’unificazione dei proletari di ogni paese contro il dominio di ogni singola borghesia e delle borghesie unite nella lotta contro i proletari di tutto il mondo.

L’obiettivo storico rivoluzionario del proletariato non è quello di sostituire lo Stato borghese, dopo averlo abbattuto, con un altro Stato di classe; è invece di eliminare dalla faccia della terra ogni divisione sociale in classi, perciò ogni Stato, ogni forza armata eretta a difesa della classe dominante, ogni privilegio di classe, ogni oppressione. Ma per arrivarci, non in un paese solo, che non è storicamente possibile, ma internazionalmente, il proletariato deve condurre la lotta rivoluzionaria per un periodo non breve, unito ai proletariati degli altri paesi – dominanti e oppressi – con la quale imporre il proprio dominio di classe, la propria dittatura di classe, per poter intervenire con tutta una serie di misure politiche, economiche e sociali indirizzate alla trasformazione economica e sociale dell’intera società umana combattendo in modo deciso la resistenza che le classi borghesi e piccoloborghesi opporranno inevitabilmente e violentemente alla loro scomparsa.

La tesi marxista afferma che la preparazione rivoluzionaria, la direzione della rivoluzione e l’esercizio della dittatura del proletariato devono avvenire sotto la guida del partito di classe, del partito comunista rivoluzionario, massimo organo rivoluzionario preposto storicamente a questi compiti. E fa parte di quella preparazione rivoluzionaria l’applicazione di una tattica politica che consideri le questioni sociali irrisolte da parte della borghesia – come, ad esempio, la questione nazionale per i popoli oppressi – come questioni di competenza della lotta rivoluzionaria del proletariato a cui dare indicazioni che favoriscano l’unità dei proletari delle nazioni dominanti e delle nazioni oppresse.

Il partito di classe – e la storia delle lotte di classe, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni lo dimostra – non possiede la bacchetta magica con la quale sollevare il proletariato di un particolare paese o di tutti i paesi in un unico movimento rivoluzionario mondiale; il partito di classe del proletariato non è un apprendista stregone come è stata la borghesia rispetto allo sviluppo incontrollato delle forze produttive nel suo sistema economico. Esso dovrà dirigere la lotta anticapitalistica e antiborghese in ogni ambito e in ogni questione sociale che la società borghese non ha risolto, non poteva e non potrà risolvere date le contraddizioni congenite del suo sistema economico e sociale.

E se si dovesse rendere necessario, nell’interesse della dittatura proletaria conquistata in un determinato paese – come è successo in Russia negli anni della rivoluzione bolscevica guidata da Lenin – dimostrare ai proletari delle nazioni oppresse ancora influenzati dalle rispettive borghesie che l’autodeterminazione dei popoli non era una promessa fasulla, ma una promessa che la dittatura proletaria (a differenza della dittatura borghese) manterrà concretamente, la separazione nazionale non verrà impedita. Resta il fatto che assieme a quella promessa, i comunisti rivoluzionari appartenenti a quella nazione non hanno mai smesso di propagandare tra le masse proletarie la necessità della loro preparazione politica e della loro organizzazione indipendente da ogni altra forza sociale; che avrebbero continuato a lottare a fianco del proletariato contro la borghesia con lo stesso fine dei proletari degli altri paesi: abbattere il potere borghese, anche se appena instaurato col proprio contributo e instaurare la propria dittatura di classe affiancandosi alla dittatura proletaria eventualmente già in essere in altri paesi. L’esempio l’ha dato la «doppia rivoluzione» in Russia: nel periodo del «doppio potere»: da un lato il governo Kerensky e i suoi sostenitori (borghesi russi, europei, guardie bianche e opportunisti) e dall’altro i Soviet degli operai, dei soldati e dei contadini poveri sotto la direzione del partito bolscevico, si contendevano la vittoria contro lo zarismo; il governo borghese di Kerensky si fermava alla tappa nazionale borghese, ovviamente, e avrebbe continuato la guerra imperialista iniziata dallo zarismo; il proletariato, diretto dai bolscevichi, era pronto a portare la rivoluzione molto più lontano e si batté contro il governo borghese per instaurare la propria dittatura di classe, facendola finita con la guerra imperialista e lavorando per la rivoluzione proletaria internazionale. Quel che è importante ancor oggi, sebbene la questione della «doppia rivoluzione» non sia più all’ordine del giorno negli stessi termini del primo e del secondo dopoguerra imperialista, è non nascondersi il fatto che i proletari delle nazioni oppresse subiscono ancora un fortissimo condizionamento sul piano ideologico e politico da parte delle proprie classi borghesi e tendono a vedere anche nei proletari dei paesi oppressori i propri nemici. Finché questa situazione non si chiarisce, finché i proletari del paese oppressore non rompono drasticamente con la propria borghesia rendendosi organizzativamente e politicamente indipendenti da essa, sarà quasi impossibile che i proletari delle nazionalità oppresse riescano là dove i proletari dei paesi oppressori non sono riusciti.

E qui sta la grave responsabilità che hanno i proletari dei paesi imperialisti, dei paesi oppressori. Finché non daranno un taglio netto alla collaborazione di classe con le proprie borghesie continueranno ad apparire, ed essere, complici dell’oppressione, e quindi dei massacri ordinati da queste borghesie al solo scopo di imporre il proprio dominio sia sulle masse delle nazioni oppresse sia sulle masse proletarie autoctone. Ecco perché, per la borghesia israeliana e le borghesie arabe che condividono con essa il timore dello scoppio della lotta di classe che per protagonista principale potrebbe avere il proletariato palestinese, i proletari palestinesi sono il bersaglio preferito di ogni oppressione, di ogni massacro. Non è Hamas che la borghesia israeliana, per bocca di Netanyhau, vuole davvero eliminare: negli anni precedenti ha usato Hamas contro l’ANP e potrebbe farlo nuovamente in avvenire, anche se cambiasse sigla, perché il suo obiettivo è dividere i proletari palestinesi, metterli gli uni contro gli altri, mettere i proletari palestinesi contro gli altri proletari arabi e, soprattutto, tenerli lontani dalla possibilità – che oggi in verità sembra remota – di contagiare con la loro lotta il proletariato israeliano, il proletariato arabo-israeliano in particolare, aumentando in questo modo la potenzialità della lotta di classe contagiando anche i proletari degli altri Stati arabi.

Oggi non possiamo sapere in quale paese, o in quali paesi, saranno mature le condizioni oggettive e soggettive perché la rivoluzione proletaria non solo scoppi, ma vada fino in fondo vittoriosamente. Ma i comunisti rivoluzionari, nella vitale ricostituzione del partito di classe senza il quale nessun movimento proletario rivoluzionario avrà un futuro, non possono e non devono sfuggire ad alcuna questione politica che la società borghese pone sul terreno sociale dei rapporti capitalistici di produzione e di forza. E come dimostrano le guerre e gli scontri armati che hanno punteggiato gli ultimi cent’anni, opponendo i grandi paesi imperialisti alla moltitudine di piccoli paesi oppressi in questo mondo capitalistico, la questione «nazionale» resta una questione politica alla quale non si può dare una risposta del tipo: l’imperialismo ha vinto, dunque non ci si deve più occupare di questioni politiche immediate come queste; occupiamoci della grande questione politica della rivoluzione proletaria mondiale...

Il partito di classe è la coscienza storica della lotta di classe del proletariato internazionale, è l’organo-guida che unisce dialetticamente coscienza di classe e volontà rivoluzionaria senza il quale il proletariato di qualsiasi paese del mondo, pur lottando strenuamente contro le classi dominanti che lo opprimono, sia sul piano economico immediato, sia su quello politico-militare più ampio, non riuscirà mai a trasformarsi da classe per il capitale a classe per sé, a classe rivoluzionaria. Nel tormentato e accidentato cammino verso la rivoluzione proletaria mondiale, i problemi economici, sociali e politici immediati non scompaiono, ma insistono con un peso e una forza sempre maggiori, tendendo a paralizzare e spezzare la lotta proletaria fin dalla sua base materiale: la lotta di resistenza alla pressione capitalistica, la lotta di difesa economica immediata che, se condotta con mezzi e metodi classisti, rappresenta la base stessa della potenziale lotta politica rivoluzionaria. E’ sul terreno della lotta di difesa immediata, economica e politica, che il proletariato saggia la sua forza, la sua solidarietà di classe, e si organizza in modo indipendente dalla borghesia e da qualsiasi altra forza di conservazione sociale (prime fra tutte le forze opportuniste); che il proletariato, da un lato mette alla prova la sua capacità di durare nello scontro con la borghesia dominante oltre alle battaglie sconfitte, dall’altro lato ha la possibilità di conoscere il partito di classe, le sue indicazioni, il suo programma, la sua volontà di sviluppare la lotta classista sul terreno immediato e di unificare i proletari combattendo la concorrenza fra di loro, la sua dedizione alla causa storica della classe proletaria senza mai perdere gli obiettivi finali della lotta proletaria pur combattendo a fianco dei proletari nella lotta quotidiana di resistenza al capitalismo. Guai al partito di classe che abbraccia l’idea di facilitare il suo compito rivoluzionario saltando la lunga fase delle battaglie sul terreno immediato che non sono soltanto di carattere economico e sindacale ma anche politico, come nella questione dell’oppressione nazionale e di un internazionalismo che, per non rimanere una parola vuota, deve concretizzarsi in azioni e indicazioni per le quali non si deve inventare una nuova politica, una nuova tattica: basta seguire Marx, Engels, Lenin e, ci permettiamo di aggiungere, Bordiga come esempio di intransigenza teorica da cui discendono indicazioni politiche e tattiche che vanno a confermare il marxismo battendosi contro ogni aggiornamento, ogni innovazione, ogni adattamento a situazioni particolari...

 


 

(1) Cfr. Lenin, Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni, ottobre 1915, Opere, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 21, p. 374.

(2) Ibidem, pp. 375, 377.

(3) Ibidem, p. 378.

(4) Cfr. Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, (Tesi), gennaio-marzo 1916, Opere, Editori Riuniti, vol. 22, Roma 1966, pp. 149, 150.

(5) Ibidem, p. 151.

(6) Ibidem, p. 152.

(7) Ibidem, pp. 155-156.

(8) Sono molti i testi di partito dedicati alla questione nazionale e coloniale, ma qui vogliamo segnalare in particolare i Fattori di razza e nazione nella teoria marxista, del 1953 (in «il programma comunista», dal n. 16 al n. 20 del 1953, poi in volume, Iskra Edizioni, Milano 1976) e Le lotte di classi e di Strati nel mondo dei popoli non bianchi, storico campo vitale per la critica rivoluzionaria marxista, del 1958 (in «il programma comunista», dal n. 3 al n. 6 del 1958, poi in Reprint «il comunista», luglio 1985).

(9) Cfr. Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, cit. pp. 157-158.

(10) Cfr. Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione, luglio 1916, Opere, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 22, p. 339.

(11) Ibidem, pp. 341, 344.

(12) Cfr. K. Marx a Paul e Laura Lafargue, Londra, 19 aprile 1870, Opere complete, XLIII, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 728.

 

 

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