Alcuni punti fermi sulla «questione palestinese»

(«il comunista»; N° 179 ; Settembre-Novembre 2023)

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PREMESSA

 

Questo articolo faceva parte della critica delle posizioni sbagliate in cui il partito era caduto nell’autunno del 1982 sulla «questione palestinese» –  da noi definita il «detonatore» della crisi generale del partito a quell’epoca – e del bilancio generale di quella crisi. In particolare si criticavano due errori di fondo: 1) considerare il «sentimento nazionale panarabo» come veicolo rivoluzionario nell’intera area mediorientale, alla condizione di camminare con gambe... soltanto proletarie; come se, in mancanza di una patria conquistata con la rivoluzione borghese anticolonialista nei tre decenni dopo la seconda guerra imperialista mondiale in cui si svolsero le lotte di «liberazione nazionale» (come in diverse colonie africane), i proletari potessero utilizzare il movimento «panarabo» per facilitare il loro movimento di unificazione contro il frammentarismo delle varie nazionalità; come se, automaticamente, i proletari potessero elevare la lotta «nazionale» alla più generale lotta di classe; 2) vincolare per principio la lotta proletaria per i suoi interessi di classe alla lotta nazionale, interessi di classe definiti soltanto sul terreno della lotta immediata e della difesa, in questo caso armata, degli interessi immediati; come se l’assenza dell’organizzazione politica indipendente di classe, cioè il partito comunista rivoluzionario – l’unico in grado di dare al proletariato l’orientamento politico e storico di classe (che contiene le indicazioni di lotta sul terreno immediato, ma non ne è il risultato automatico) – potesse essere risolta semplicemente con la lotta proletaria all’interno della lotta nazionale, pur armata, del popolo palestinese unito alle altre popolazioni arabe.

Questi errori di fondo non erano semplicemente degli errori tattici, erano la conseguenza inevitabile di una valutazione sbagliata della fase storica, delle forze sociali in campo e dei rapporti fra di loro. E, da marxisti, sappiamo che la valutazione della situazione è una questione prima di tutto teorica, poi politica e, quindi, tattica; situazione non contingente, non locale o areale, ma internazionale. Quel che la gran parte dei militanti del partito di allora aveva perso completamente di vista è che la situazione generale non cambia da contorivoluzionaria a rivoluzionaria se non scende in campo il proletariato non solo dei paesi capitalisticamente arretrati, ma, soprattutto, dei paesi capitalistici più avanzati; e se questo proletariato non abbia accumulato una solida esperienza nella lotta classista, nella lotta antiborghese per eccellenza, sia sul terreno immediato sia sul terreno politico, quindi in presenza del partito di classe – il partito comunista rivoluzionario – che abbia avuto la possibilità oggettiva di influenzare gli strati più avanzati del proletariato stesso. 

La lotta armata di un popolo oppresso contro la potenza coloniale, contro il paese o i paesi imperialisti alleati nell’opprimerlo e nello sfruttare a piene mani la propria posizione dominante, può essere tenace, durare nel tempo, ma non aprirà mai la strada alla lotta rivoluzionaria del proletariato se quest’ultimo non si sia sganciato dalle illusioni interclassiste, democratiche, nazionali, non abbia lottato in modo indipendente non solo contro i poteri reazionari e dominanti ma anche contro queste illusioni e contro le forze sociali e politiche che le alimentano e le diffondono. 

Indiscutibilmente, la «questione nazionale» è una questione particolarmente complessa, da sempre, fin dalla fine dell’Ottocento e dai primi decenni del Novecento; basta leggere Marx ed Engels sulla questione irlandese, o su India, Russia e Cina, o Lenin sulla questione dell’«autodeterminazione dei popoli» e le Tesi dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale e coloniale. Come la «questione sindacale», così anche la «questione nazionale» non troveranno mai una soluzione definitiva finché il capitalismo non sarà sconfitto.

Ma, fino ad allora, i comunisti rivoluzionari, i marxisti, non possono rispondere: ormai, con la potenza economica, finanziaria, politica e organizzativa di cui dispone, approfittando della sconfitta della rivoluzione proletaria e comunista negli anni Venti del secolo scorso, l’imperialismo ha corrotto sia le organizzazioni sindacali che i movimenti di liberazione nazionale, togliendo ai proletari un campo d’azione che nel secolo scorso poteva ancora dare una base alla loro lotta di emancipazione. C’è chi dice che l’organizzazione sindacale è ormai un arnese da soffitta e va sostituita con l’azione e l’organizzazione soltanto politica; c’è chi dice che, per il proletariato, la questione «nazionale» non è più una questione che lo riguardi e che deve soltanto preoccuparsi di prepararsi per la rivoluzione proletaria internazionale pura e semplice. Queste non sono posizioni politiche, tanto meno supportate da elementi teorici inattaccabili; sono semplici e vuote dichiarazioni che non danno alcuna risposta a problemi reali che riguardano in realtà tutti i proletari, dei paesi avanzati e dei paesi arretrati. Certo, con lo sviluppo dello sfruttamento capitalistico in ogni parte del mondo, quindi anche nei paesi un tempo alla «periferia» dell’imperialismo, la questione «nazionale» non si pone più come si poneva nell’Ottocento e nel Novecento, perché gli strati borghesi che si sono formati nei paesi di quella periferia sono diventati o una borghesia compradora, al soldo di una potenza straniera, o una borghesia con una forte spinta indipendentista da farle assumere, in un determinato periodo storico, il carattere nazionalrivoluzionario (come ad es. in Cina, in Algeria, in Congo, a Cuba, in Vietnam ecc.) a fianco della quale il proletariato, organizzato in modo classista e indipendente, aveva un ruolo da giocare come lo attuò in Russia nel 1917-1922. Ma quella fase storica, ripresentatasi in seguito alla seconda guerra imperialista mondiale, terminò a metà degli anni Settanta con l’indipendenza di Angola e Mozambico, mentre il proletariato dei paesi avanzati ha dimostrato di non avere avuto la forza di approfittare dell’indebolimento delle potenze coloniali e imperialistiche per sferrare il suo attacco alle classi dominanti dei paesi avanzati; né il proletariato delle colonie, in assenza del partito comunista rivoluzionario e della sua influenza su di esso, poteva avere la forza di aggredire la borghesia appena instauratasi dopo averla aiutata nella sua rivoluzione nazionale. E’ una forza che il proletariato non ha nemmeno oggi e per la quale ci vorrà ancora del tempo prima che torni ad essere il vero nemico di classe nelle metropoli imperialistiche.

Ciò non toglie che l’oppressione nazionale, invece di attenuarsi si è accresciuta e non solo da parte delle potenze imperialistiche, ma anche da parte delle più giovani borghesie che si sono insediate al potere in Africa, in Medio Oriente, in Asia. Se una popolazione è oppressa da altri popoli vuol dire che la questione «nazionale» continua ad essere una leva che gli strati borghesi delle popolazioni oppresse continuano e continueranno ad usare per portare i proletari dalla loro parte attraverso il nazionalismo, il mito dello «Stato indipendente», il mito della democrazia. E grazie a questa leva, le borghesie nazionali dei paesi oppressi dall’imperialismo hanno facile gioco nell’indicare l’intera popolazione del paese opprimente, proletari compresi, come il loro oppressore. E non c’è dubbio che i proletari del paese oppresso vedano i proletari del paese oppressore come complici della borghesia straniera che li opprime. Per dimostrare che questa complicità non c’è, i proletari del paese oppressore devono battersi contro la propria borghesia rivendicando che la popolazione oppressa, compresi i suoi proletari, abbia la libertà di “autodeterminarsi”. Lenin afferma che questa tattica è l’unica che permette ai proletari del paese oppressore di affiancare coi fatti la lotta dei proletari del paese oppresso nella loro lotta contro la borghesia straniera, alla condizione che gli stessi proletari del paese oppresso siano organizzati del tutto indipendentemente dalle altre forze sociali (borghesia, piccola borghesia urbana e rurale, sottoproletariato) e che perseguano contemporaneamente la lotta contro la propria borghesia nazionale, lotta nella quale potranno trovare l’unità coi proletari dei paesi oppressori per la rivoluzione proletaria internazionale, sempre che questi ultimi rompano drasticamente la collaborazione di classe con le proprie borghesie. Pretendere che i proletari dei paesi oppressi – perdipiù in una situazione generale, come quella instauratasi dopo la seconda guerra mondiale, di fortissima depressione della lotta proletaria nei paesi capitalistici avanzati – sbrighino, da soli, i compiti che riguardano il proletariato mondiale e, soprattutto, il proletariato dei paesi oppressori, è voltare le spalle ai compiti che soltanto i proletari dei paesi capitalistici avanzati devono assumere. Le lezioni della grande rivoluzione in Russia dall’Ottobre 1917, tirate dal nostro partito in tutto il periodo di restaurazione dottrinaria e di riorganizzazione del partito di classe dal 1945 in poi, dimostrano che la rivoluzione proletaria e comunista – in presenza di un partito organizzato, indipendente e influente come fu il partito bolscevico di Lenin – date determinate condizioni storiche mondiali, può scoppiare anche in un paese capitalisticamente arretrato, e vincere, ma in mancanza del decisivo apporto rivoluzionario dei proletariati dei paesi capitalisticamente avanzati con la loro rivoluzione, la vittoria conseguita, come all’epoca in Russia, è destinata, prima o poi, ad un soffocante isolamento che può portare alla sconfitta e alla controrivoluzione non solo nel paese in cui la rivoluzione aveva vinto, ma nel mondo. Nonostante la grandissima combattività e generosità delle masse proletarie russe, disposte a sopportare immani sacrifici volti all’allargamento della rivoluzione proletaria in tutta Europa – e quindi nel mondo – e nonostante la caparbietà delle forze sane del partito bolscevico e la loro decisione a resistere al potere della dittatura proletaria anche per vent’anni (Lenin), o per cinquant’anni (Trotsky), in funzione della rivoluzione internazionale, il mancato apporto rivoluzionario dei partiti proletari europei che all’epoca influenzavano e guidavano i proletariati facilitò enormemente il compito delle forze socialdemocratiche, interclassiste e conservatrici nell’intossicare e, alla fine, nel far degenerare i partiti e i movimenti proletari.

L’opportunismo, e quindi la degenerazione politica e organizzativa del partito proletario e del movimento proletario che il partito influenza, fondano il loro successo sulle stesse basi materiali su cui si è eretto e si conserva il potere politico della classe borghese; esso è uno strumento ulteriore di conservazione sociale e, alla bisogna, di repressione del proletariato e della lotta rivoluzionaria. La borghesia non getterà mai la spugna, anche nelle situazioni più pericolose per il suo potere; anzi, in queste situazioni, come dirà Trotsky, la borghesia decuplica le proprie forze, non si darà mai per vinta e non tanto per una specie di infatuazione ideologica con cui si crede invincibile, quanto per la potente forza della sua economia che nel giro di due secoli ha cambiato il mondo in cui le vecchie società precapitalistiche duravano da millenni. Ecco perché la rivoluzione proletaria, che si distingue dalle rivoluzioni delle precedenti classi rivoluzionarie perché non si basa su un modo di produzione sviluppatosi nella vecchia società prima di spingere le nuove forze sociali a conquistare il potere politico affinché il nuovo modo di produzione sia libero di svilupparsi appieno; essa è essenzialmente una rivoluzione politica, in forza della quale il proletariato – cioè la classe dei produttori – dovrà spezzare il potere politico esistente al fine di trasformare da cima a fondo l’economia sociale e, quindi, i rapporti sociali esistenti. Con il capitalismo la società divisa in classi ha raggiunto il massimo di sviluppo storico possibile, sia economico che politico e sociale, ed ha dialetticamente messo le basi della sua fine; ma non morirà per una specie di esaurimento, morirà per mano della rivoluzione proletaria diretta dal partito di classe per tutto il tempo che sarà necessario perché internazionalmente la dittatura politica di classe svolga appieno il suo compito anche nella trasformazione economica della società.

Perché tutto ciò avvenga non ci vuole soltanto un proletariato che riconquisti, e superi, il livello di unificazione internazionale che stava raggiungendo negli anni Venti del secolo scorso, nei paesi sviluppati come nei paesi arretrati, ma un partito di classe che si sia temprato sul piano teorico, politico e di lotta reale e che abbia conquistato un’influenza determinante almeno sugli strati più avanzati del proletariato a livello internazionale. Obiettivo utopistico? No, la dimostrazione storica ce l’ha data il partito bolscevico di Lenin e la fondazione della Terza Internazionale con le sue tesi sul ruolo del partito comunista, sulla sua attività in tutti i campi, da quello politico-tattico a quello economico-sindacale, a quello agrario e nazionale-coloniale. La storia umana non va avanti per tappe graduali, ma per salti. «Marx – come sinteticamente scritto in un testo di partito del 1951 – non ha prospettato un salire e poi un declinare del capitalismo, ma invece il contemporaneo e dialettico esaltarsi della massa di forze produttive che il capitalismo controlla, della loro accumulazione e concentrazione illimitata, e al tempo stesso della reazione antagonistica, costituita da quella delle forze dominate che è la classe proletaria. Il potenziale produttivo ed economico generale sale sempre finché l’equilibrio non è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo periodo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa» (1).

Tra i molti testi che abbiamo scritto sulla «questione palestinese» ripubblichiamo ora questo articolo, (uscito nel 1989 ne «il comunista», n. 16, e «le prolétaire», n. 401), col quale si sintetizzano le posizioni di fondo, per noi sempre valide, sulla questione.

 


 

(1) Cfr. Teoria e azione nella dottrina marxista (rapporto alla riunione di Roma del 1° aprile 1951), 1. Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista, in «Partito e classe», n. 4 dei testi del partito comunista internazionale, 1972, Appendice, tavola II, p.131

 

 

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1) DENUNCIA DEL RUOLO DEL NAZIONALISMO PALESTINESE COME DIVERSIVO E ANTIDOTO ALLA LOTTA DI CLASSE

 

Da vent’anni quel nazionalismo è un cadavere politico, e da vent’anni quel cadavere «ancora cammina» ed appesta i proletari. Lungi dall’auspicare un suo rilancio in una versione «di sinistra», che sarebbe solo la carrozzella di ritorno del suo defunto radicalismo, scorgiamo piuttosto un elemento positivo nella attuale evoluzione moderata di tutte le sue correnti, incluse quelle più estremiste, e constatiamo il fatto  – secondo noi salutare – della capitolazione finale dell’OLP, invitando i proletari a leggervi ciò che l’evoluzione stessa delle cose grida loro: chiusa ogni soluzione di razza e nazionale, la via del vostro riscatto è la via unica della lotta di classe intransigente fino alla distruzione di tutti gli Stati della regione ed all’instaurazione della dittatura proletaria, Palestina non vincerà; vincerà la rivoluzione proletaria!

 

2) DENUNCIA DEL CARATTERE REAZIONARIO DEL MINISTATO PALESTINESE

 

Le conseguenze di una simile «soluzione» non potranno essere infatti che negative dal punto di vista dell’evoluzione della lotta di classe, sia perché essa tende a rinchiudere, per l’appunto, in un ghetto la parte attualmente più avanzata e combattiva del proletariato di tutta la regione, isolando il più possibile gli altri proletariati dal «contagio» palestinese, sia perché comporterebbe comunque un’attenuazione della pressione che le masse povere palestinesi esercitano su Israele, e quindi l’allontanamento nel tempo del momento in cui, anche lì, si infrangerà il fronte delle classi, permettendo finalmente agli operai israeliani di tendere la mano ai loro fratelli di classe palestinesi.

L’unico, eventuale portato di segno positivo della creazione di un mini-Stato, e cioè lo «smascheramento» della borghesia palestinese come classe nemica agli occhi delle masse sfruttate, non è affatto un evento automatico. Al contrario, se non ci sarà una forza politica – il partito di classe – che denunzi il nazionalismo fin d’ora e fin d’ora gli opponga una linea di classe – come purtroppo non accade nelle attuali circostanze – è inevitabile che la delusione che immancabilmente seguirà alla formazione del cosiddetto «Stato indipendente» si traduca per i proletari non nello stimolo a levarsi con rinnovata energia contro la borghesia di casa loro, ma costituisca l’anticamera di uno stato di letargia per un tempo che non è dato prevedere. Quello che possiano dire fin d’ora è che lo Stato-galera che si delinea all’orizzonte non potrà assorbire la totalità delle masse palestinese della diaspora. I palestinesi, i proletari palestinesi non potranno essere tutti ghettizzati. E questo significa che gli Stati della regione, che hanno trangugiato la Palestina (e i palestinesi) non riusciranno a digerirla, neppure grazie alla risorsa reazionaria del mini-Stato.

 

3) DENUNCIA DELLA TATTICA ULTRA PACIFISTA SEGUITA DALL’OLP DURANTE L’INTIFADA, MA ANCHE PRIMA, COME ORGANIZZAZIONE DELIBERATA DEL MASSACRO DEI PROLETARI PALESTINESI

 

L’OLP, in altre parole, sta lasciando fare ai macellai israeliani lo «sporco lavoro» di massacrare, sfinire moralmente ed economicamente i diseredati dei territori occupati. Se si arriverà all’agognato mini-Stato, ci si arriverà solo una volta che il proletariato palestinese sia stato bastonato e prostrato a sufficienza dai fratelli israeliani. Perciò il cammino verso il traguardo dello «Stato indipendente» è percorso dall’OLP al rallentatore. Anche lo sconcio di questa «normalizzazione» programmata delle masse povere palestinesi va denunciato senza esitazione e tentennamenti.

 

4) RIBADIMENTO DEL FATTO CHE LA RIVOLUZIONE PROLETARIA IN TUTTA LA REGIONE RAPPRESENTA L’UNICA VIA PER LA RISOLUZIONE ANCHE DELLA QUESTIONE NAZIONALE PALESTINESE

 

Nel senso che solo la dittatura proletaria sarà in grado di assicurare ai palestinesi, qualora lo desiderassero ancora, il diritto di organizzarsi in uno Stato indipendente. Il che non esclude, ma implica che il Partito si adopererà per propagandare e sostenere la prospettiva opposta, e cioè quella della libera unione dei proletari delle diverse nazionalità anche in Medio Oriente in uno Stato proletario il più vasto possibile.

 

5) RIBADIMENTO DELLA NECESSITA’ DELLA FORMAZIONE DEL PARTITO POLITICO DI CLASSE SULLA BASE DEL PROGRAMMA, DELLE TESI E DEGLI INSEGNAMENTI DEL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE, fissati, coerentemente col marxismo intransigente, negli anni Venti nei primi tre congressi dell’Internazionale Comunista.

Formazione che non può avvenire se non in aperta rottura con le false vie emancipatrici di tipo democratico, pluralistico, autonomistico, pacifico; che non può avvenire se non collegando le scintille di coscienza di classe che la lotta del popolo palestinese ha provocato e provoca con il saldo programma comunista e la dottrina marxista riconquistati e restaurati dalla Sinistra comunista nelle sue battaglie di classe contro lo stalinismo e ogni variante opportunista di segno socialdemocratico, popolare, nazionale che fosse; che non può avvenire se non ricongiungendosi con il filo storico e di attività militante che la Sinistra comunista, in particolare italiana, ha difeso nel corso della ricostituzione del massimo organo politico della moderna classe rivoluzionaria, il partito, comunista e internazionale.

Nello stesso tempo, il ribadimento del fatto che la lotta contro l’oppressione nazionale dei proletari palestiensi passa attraverso una via opposta a quella del nazionalismo, anche se radicale. Si tratta cioè della battaglia che va inquadrata e combattuta sul terreno della più generale lotta di classe: spostando la lotta antiborghese dal terreno per la «conquista di una patria» al terreno della lotta antiborghese contro ogni discriminazione tra i proletari delle diverse nazionalità e fedi religiose sul piano salariale, normativo, dei diritti sindacali e politici.

 

6) RIBADIMENTO DEL FATTO CHE I «NATURALI» FRATELLI DI CLASSE DEL PROLETARIATO PALESTIENSE, I PROLETARI ARABI DELL’INTERA REGIONE, NON TROVERANNO MAI LA STRADA DELLA SOLIDARIETA’ CLASSISTA e della loro stessa emancipazione dal giogo di borghesie nazionali vampire e repressive (come hanno dimostrato più fatti – dalla rivolta del pane in Tunisia agli scioperi in Egitto, alle agitazioni operaie in Marocco alla più recente rivolta proletaria in Algeria), Se non taglieranno definitivamente i legami ideologici, pratici e organizzativi con le «proprie» borghesie e piccole-borghesie che hanno utilizzato e utilizzano contro i proletari e le plebi diseredate il «panarabismo», il feticismo religioso, le falsissime «vie nazionali al socialismo» ridicolmente rappresentate da campioni del doppio gioco come Gheddafi o da democraticissimi presidenti assassini come Chadli Benjadid.

 

Il «fattore nazionale arabo», che per un certo periodo storico – dal disfacimento dell’impero turco alla seconda guerra mondiale – poteva essere uno degli elementi unificanti di popolazioni di nomadi e mercanti più che stabili e contadine, ha del tutto esaurito ogni sua anche lieve «potenzialità» di progresso storico nella vasta area che copre il Nord dell’Africa, dall’Atlantico verso oriente fino al Vicino Oriente compreso. L’ha esaurita in forza di una serie di elementi che comprendono il tipo di sviluppo capitalistico in quest’area – arretrato quanto ad impianto industriale e agrario, modernissimo quanto ad estrazione di minerali, gas e petrolio e quanto a capitale bancario –; il tipo di ripartizioone del territorio in Stati nazionali fondata più su confini determinati dall’occupazione delle potenze coloniali e imperialistiche che dall’assetto naturale di popolazioni indigene, peraltro caratterizzato perlopiù da nomadismo; il tipo di classi borghesi (più «compradore» che industriali) generate dallo sviluppo contrastato del modo di produzione e delle forme del capitalismo, e dalla persistenza di residui feudali, teocratici, tribali mai debellati completamente. La formazione stessa di un proletariato poco concentrato nelle fabbriche e nei complessi industriali e più sparpagliato in territori vasti e inospitali ma essenziali per le risorse del sottosuolo, rispecchia un processo di sviluppo dei vari paesi dell’area assolutamente dipendente dal mercato mondiale e dai prezzi delle materie prime che soltanto i grandi paesi capitalisti possono trasformare, e tendenzialmente instabile al proprio interno e nei rapporti interstatali nell’area.

Ma, per quanto deboli siano le classi borghesi e proletarie dell’intera area, il salto storico nel capitalismo è stato ormai fatto e ciò che la realtà – per quanto instabile – degli Stati borghesi arabi attuali presenta, è la realtà degli interessi di classe di borghesie nazionali, aldilà dell’ormai impotente «fattore arabo», ognuna protesa a far profitti sui «propri» proletari arabi come sui proletari coereani, indiani, pakistani o africani immigrati nei ricchi paesi petroliferi.

 

7) RIBADIMENTO DEL FATTO CHE NON SI POTRA’ GIUNGERE AD UN UNICO FRONTE DI LOTTA CHE AFFRATELLI I PROLETARI EBREI DI ISRAELE E I PROLETARI PALESTINESI FINCHE’ I PRIMI NON SPEZZERANNO NEI FATTI I LEGAMI CHE LI TENGONO AGGIOGATI AL CARRO DELLA LORO BORGHESIA;

 

e che il passaggio indispensabile perché i proletari israeliani rompano con al loro borghesia è rappresentato dalla desolidarizzazione con l’oppressione nazionale che essa seguita a perpetrare nei confronti dei palestinesi. Non c’è peggiore disgrazia per un popolo che l’averne assoggettato un altro, diceva Marx a proprosito dell’oppressione inglese sull’Irlanda. Per uscire dalla loro situazione, disgraziata dal punto di vista della lotta di classe, i proletari israeliani ebrei dovranno porsi sul duplice terreno della lotta contro le discriminazioni che colpiscono i proletari arabi e palestinesi sui luoghi di lavoro e nella vita sociale (e quindi contro il confessionalismo dello Stato ebraico) e della difesa del diritto di tutti i palestinesi a formare un proprio Stato indipendente in terra di Palestina.

 

8) IL FATTO CHE LA NECESSARIA SOLIDARIETA’ DEI COMUNISTI D’OCCIDENTE E DEI PROLETARI D’OCCIDENTE COI PROLETARI PALESTINESI non significa affatto – come ritengono i «sinistri» tipo Autonomia, trotskisti o altro – gridare più forte degli altri «viva la lotta per l’indipendenza nazionale palestinese», ma significa lavorare per la ripresa della lotta di classe qui da noi e per la formazione di un partito comunista compatto, potente, internazionale.

 

E’ questa infatti l’unica via per tendere una mano fraterna ai proletari palestinesi, dato che l’aiuto che noi possiamo dare loro o consiste nell’offrire alla loro lotta un punto di riferimento visibile e di battaglia antiborghese cui agganciarsi in una prospettiva che sia classista, internazionalista e rivoluzionaria, o è pura demagogia.

Comprendere, dunque, che il proletariato palestinese – e con lui i proletari di tutta la regione investita dalla lotta nazionale palestinese – sarà inevitabilmente prigionero dei metodi, degli obiettivi e dei mezzi organizzativi funzionali agli interessi solo borghesi nazionali, finché un movimento sociale di segno proletario nei paesi imperialisti – nei nostri paesi occidentali – non rialzi la testa impegnando la «propria» borghesia nazionale nei diversi paesi finalmente sul terreno della lotta di classe.

 

 

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