Il capitale sostiene il lavoro come la corda l'impiccato

(«il comunista»; N° 180 ; Dicembre 2023 - Febbraio 2024)

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Secondo l’ideologia borghese il capitale è il motore della vita sociale e, ovviamente, dell’economia. Per la borghesia il lavoro è, in sostanza, la messa in funzione di quel motore: solo il lavoro che fa accumulare capitale, che lo valorizza, ossia produce profitto capitalistico, è, per la borghesia, un lavoro produttivo. Dunque, non interessa tanto se la produzione serve davvero per la vita sociale degli uomini e per soddisfare le loro esigenze di vita, per farli stare meglio lavorando con minore fatica possibile e dedicando una parte sempre maggiore del proprio tempo a soddisfare i propri interessi dedicandosi alla conoscenza, ai viaggi, al divertimento, alle proprie passioni, ma se la produzione – non importa se utile o inutile, tossica o dannosa – e tutto ciò che le gira intorno genera, se venduta e scambiata con denaro, profitto. Il valore d’uso dei prodotti è stato trasformato in valore di scambio; il loro uso è così diventato «utile» soltanto alla condizione di poter essere scambiato con denaro. Il denaro ha quindi preso il sopravvento su qualsiasi prodotto, ed è diventato il vero padrone della vita di qualsiasi essere umano. Il mondo dei prodotti è diventato il mondo delle merci – ossia scambiabili con denaro – ed è questo mondo a condizionare la vita di tutti gli esseri umani. Lo sviluppo della produzione ha un senso per il capitalismo soltanto se sviluppa il potere del denaro, denaro che è diventato capitale finanziario e che comanda e regola qualsiasi attività umana.

L’uomo per vivere ha bisogno di mangiare, di abitare in luoghi riparati, di costruire relazioni, di comunicare con gli altri uomini e di riprodursi come qualsiasi altro essere vivente, come qualsiasi altro animale. Ma quel che distingue l’uomo, in quanto animale sociale, da ogni altro animale è il lavoro, è la capacità di intervenire sulla natura (e quindi anche sulla sua vita sociale), modificandola. Dal tempo dell’adattamento alla natura si è passati in milioni di anni al tentativo di adattare la natura all’uomo, o meglio, di sfruttare le risorse naturali per soddisfare i bisogni di vita dell’uomo, modificando il rapporto tra l’uomo e la natura e, inevitabilmente, i rapporti tra gli uomini. La storia dell’uomo è, in sintesi, la storia della sua capacità di modificare l’ambiente naturale per soddisfare i bisogni della sua vita sociale e la storia della sua vita sociale in relazione all’ambiente naturale, una storia fatta di contraddizioni, di contrasti, di scontri e di gruppi umani che, oltre a farsi la guerra per difendere un territorio, una risorsa naturale, si mescolano tra di loro trasferendosi reciprocamente esperienze, tecniche lavorative, conoscenza dei territori.

Con lo sviluppo della vita sociale e della produzione di tutto ciò che era utile ad essa, i gruppi umani si sono incontrati, incrociati, scontrati, scambiandosi esperienze, conquistando parti del mondo prima sconosciute e modi diversi di organizzare la società umana, fino a dividerla in classi sociali distinte. La produzione materiale per la vita è sempre stata al centro dello sviluppo umano, quindi al centro di questo sviluppo è sempre stato il lavoro col quale assicurare la produzione e la riproduzione della vita umana. L’economia nasce dal grado di sviluppo del lavoro sociale, e fa da base necessaria per ogni ulteriore sviluppo, definendosi in modi di produzione estesi a grandi territori e che, a loro volta, fanno da base alla divisione in classi della società. Il lavoro umano iniziò a dividersi per ragioni naturali e fisiche in compiti diversi tra uomini e donne, dando origine a forme sociali che, per brevità, chiamiamo comunismo primitivo, ossia assenza di proprietà privata, produzione e distribuzione comune in un’organizzazione sociale in cui le capacità individuali si integravano tra di loro a beneficio dell’intera comunità. Lo sviluppo dell’economia - cioè di una produzione superiore ai bisogni immediati della comunità grazie a nuove tecniche e a nuove scoperte -, insieme allo sviluppo degli spostamenti di interi gruppi umani da una parte all’altra dei continenti e dei mari, dà origine ad una organizzazione sociale verticale, militare, in grado di accelerare lo sviluppo economico e sociale soprattutto dei gruppi umani che abitano su terre fertili, ricche di acqua per l’agricoltura e di risorse naturali, a cominciare dalle foreste e dalla scoperta di minerali e di metalli utili alla fabbricazione di strumenti per il miglioramento della produzione, della distribuzione e del trasporto.

Più la produzione e la distribuzione dei beni si sviluppa, più si complica e si estende ai diversi settori economici e ai diversi continenti, e più l’organizzazione sociale trasforma la divisione dei gruppi umani in classi sociali distinte e contrapposte, in classi che posseggono terre, corsi d’acqua, coste, valli, castelli, villaggi e schiavi, cioè in classi dominanti, e classi che non posseggono nulla o quasi e perciò dominate; in classi dominanti che organizzano la difesa dei loro interessi attraverso gli Stati e la relativa forza militare e classi dominate che, in forza del loro lavoro, producono tutto ciò che serve per vivere, nei campi come nelle città e che organizzano la resistenza nei confronti delle classi dominanti. L’evoluzione della produzione, generata dalla combinazione di mezzi di produzione sempre più moderni ed efficaci e di forze lavoro sempre più associate, fa fare dei salti storici fondamentali allo sviluppo della società. Dal comunismo primitivo si giunge così alla società schiavista, poi alla società feudale e, infine, alla società capitalistica, i cui modi di produzione, raggiunto un certo apice, vengono in generale superati violentemente, nelle diverse fasi diverse e nei diversi continenti, fino al modo di produzione capitalistico che, a differenza di tutti i precedenti, ha assoggettato alle stesse leggi economiche tutto il mondo, generando una situazione storica in cui l’enorme sviluppo delle forze produttive, per ragioni esclusivamente economiche specifiche del modo di produzione capitalistico, invece di facilitare l’evoluzione sociale dell’intera umanità, la frena a tal punto da farla piombare periodicamente in situazioni di barbarie, di carestia generale. Le forze produttive – sottolinea il Manifesto di Marx-Engels – si rivoltano contro i rappporti moderni di produzione, i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. La società borghese si ritrova, così, in una situazione in cui appare improvvisamente un fenomeno mai visto in nessuna società precedente: il fenomeno della sovraproduzione. La iperfolle e anarchica produzione di merci, non trovando più alcuno sbocco nel mercato, inceppa l’intero sistema di produzione; l’enorme quantità di merci prodotte non si vende più, il loro valore di scambio è pari allo zero, provocando la distruzione di un enorme quantità di forze produttive (mezzi di produzione e lavoratori, in sintesi macchine e lavoratori salariati).

Chi sono, per la borghesia, i lavoratori? Sono tutti coloro che contribuiscono – non importa in quale misura, in quale ambito e con quale posizione rispetto al capitale – a far sì che il motore della società, appunto il capitale, funzioni al massimo, con il minimo di intoppi e di interruzioni. Ma la storia del capitalismo conosce, da quasi duecento anni, non solo una crescita eccezionale delle forze produttive, ma anche il suo contrario, la distruzione delle forze produttive come dimostrato dalle crisi di sovraproduzione che periodicamente gettano la società nella barbarie.

Perché avvengono queste crisi di sovraproduzione? Forse perché l’organizzazione del lavoro dei proletari non è all’altezza delle richieste di mercato? O perché la produttività della forza lavoro impiegata non è sufficientemente concorrezionale rispetto alla produttività di altre aziende, di altri paesi? Oppure perché i mezzi di produzione non sono stati sufficientemente ammodernati rispetto alle tecnologie e alle tecniche più avanzate? O perché l’economia di un settore o di un paese si basa troppo su piccole e medie aziende piuttosto che su grandi aziende e su concentrazioni multinazionali?

La sovraproduzione è un fenomeno generale, ciclico, del capitalismo: vuol dire che si produce più di quanto il mercato possa assorbire trasformando in denaro le merci messe in vendita. Se non si vendono non è perché sono troppo care o perché non c’è abbastanza denaro in circolazione. Non si vendono perché la loro produzione non è calcolata sui bisogni reali di vita della specie umana, ma sulla valorizzazione dei capitali impiegati nella loro produzione, cioè sul prezzo che, calcolato all’origine, contiene il famoso plus di valore che ogni merce deve concretizzare portando al capitalista il profitto che si attende sui capitali investiti. La crisi di sovraproduzione è causata totalmente dal modo di produzione capitalistico: i valori di scambio mettono in crisi i valori d’uso che, non potendo essere venduti ai prezzi decisi dai capitalisti, per la borghesia perdono la loro qualità di «valore d’uso», diventano inutili, spazzatura da distruggere nonostante abbiano mantenuto la loro utilità intrinseca. Come si distruggono tonnellate di frutta o di latte per mantenere un prezzo di mercato adeguato al profitto capitalistico – mentre qualche miliardo di esseri umani  sopravvive nella miseria e nella fame – così si distrugge qualche miliardo di posti di lavoro e, quindi, di vite di lavoratori salariati diventati anch’essi una merce sovraprodotta, in esubero, pronta ad essere sacrificata per la sopravvivenza del capitale, in pace come in guerra.

 

UNA COSA È IL «LAVORO», UN’ALTRA IL LAVORO SALARIATO

 

I borghesi parlano sempre di «lavoro», mai di lavoro salariato che, nel modo di produzione capitalistico che sta alla base della società borghese, è in realtà l’unico lavoro che fa guadagnare i capitalisti, è l’unico lavoro che produce la ricchezza sociale. Per la classe borghese anche i borghesi «lavorano»: il loro «lavoro» consiste nel far lavorare i proletari – ossia la classe dei senza riserve, senza capitali, senza niente al di fuori della loro personale forza-lavoro – affinché il capitale investito in una qualsiasi attività economica, finanziaria, sociale, politica, militare, religiosa abbia come ritorno un vantaggio (economico, finanziario, sociale, politico, militare, religioso) per i capitalisti, per i possessori di capitali che li hanno «investiti» per guadagnarci sopra, e per tutti coloro che contribuiscono a mantenere in piedi la società capitalistica, dai preti agli intellettuali, dai politici e sindacalisti collaborazionisti ai professionisti della comunicazione, del marketing e della vendita, dai commercialisti agli avvocati, dai poliziotti ai criminali di ogni risma, ossia tutti coloro che vivono sulla ripartizione della ricchezza accumulata dal lavoro salariato per sostenere la sovrastruttura politica e sociale necessaria al mantenimento in vita del capitalismo.  

Nella società borghese, se da un lato si è semplificata la divisione in classi, caratterizzando la società capitalistica in classe borghese (dominante) e classe proletaria (dominata), da un altro lato le stratificazioni sociali sono invece aumentate, soprattutto nell’ampia fascia sociale della piccola e media borghesia. Ma, tra le diverse categorie di lavoratori, quali sono quelle che realmente producono un profitto per il capitale? Mentre i filosofi, i politici e gli economisti borghesi del Settecento e dell’Ottocento cercavano di scoprire il mistero per il quale un certo capitale investito nella fabbricazione di una determinata merce, alla fine del ciclo di produzione e vendita ne risultava aumentato – e spiegavano questo fenomeno con il gioco dei costi (delle materie prime, dei macchinari, degli edifici necessari alla produzione, della terra su cui costruire le fabbriche, dei trasporti per portare le merci al mercato e della manodopera necessaria per le diverse lavorazioni) e il gioco dei prezzi di vendita delle merci in concorrenza sul mercato con altre merci –, Marx scopriva l’origine reale del «guadagno» del capitalista. Si trattava di rendere evidente il reale rapporto tra capitale fisso (materia prime, macchinari ecc.) che il capitalista anticipava all’inizio del ciclo di produzione, e il capitale variabile (la manodopera, i lavoratori salariati) il cui lavoro era necessario per la trasformazione delle materie prime in prodottti finiti. Il «guadagno» del capitalista inizia, in realtà, fin dall’impiego del lavoro salariato sul capitale fisso. Questo «guadagno» Marx lo ha chiamato plusvalore, cioè un valore aggiuntivo al valore dei capitali fisso e variabile anticipati sulla produzione finale, programmabile fin dall’inizio del ciclo della produzione di merci, che si realizza concretamente nel mercato quando le merci vengono vendute (la classica formula è: denaro-merce-denaro¹).

Il grande segreto stava tutto nel rapporto tra il capitale fisso necessario alla produzione di merci e le ore giornaliere lavorate dai lavoratori salariati. Infatti, mentre i costi che formano il capitale fisso si trasmettono pari pari nel prodotto finito pronto per essere immesso nel mercato, nelle proporzioni ovvie a seconda della quantità di merci prodotte in ogni ciclo produttivo, i costi della manodopera erano inferiori al valore delle ore effettivamente lavorate giornalmente da ogni lavoratore salariato. Il salario non è che il corrispettivo dei beni necessari che ogni lavoratore salariato deve acquistare nel mercato per ricostituire le proprie forze, giorno dopo giorno, in modo da poter lavorare tutte le ore che il capitalista richiede per la produzione delle sue merci. Il valore dei beni necessari giornalmente al salariato è in generale inferiore, e di parecchio, al valore delle ore giornaliere lavorate. Ciò significa che il tempo di lavoro giornaliero di ogni operaio necessario all’acquisto dei beni essenziali per vivere, è inferiore al tempo di lavoro complessivo della giornata lavorativa richiesta dal capitalista; la giornata lavorativa del lavoratore salariato, perciò, è divisa in un tempo di lavoro pagato con il salario e un tempo di lavoro non pagato. E’ esattamente questo tempo di lavoro non pagato che genera il pluslavoro, quindi un plusvalore a tutto vantaggio esclusivamente del capitalista.

Ovviamente il capitalista ha sempre avuto interesse a far lavorare i propri operai il più a lungo possibile ogni giorno. Sono stati gli stessi borghesi a sciorinare i dati di questo sfruttamento, che giungeva nell’Ottocento fino a 16/18 ore al giorno; e lo sfruttamento bestiale toccava anche i bambini e le donne, soprattutto nelle fabbriche del cotone, dei filati e nelle miniere, come ampiamente documentato per l’Inghilterra del tempo. Gli stessi borghesi si resero conto che sfruttare a tal punto i propri operai adulti e bambini, oltre a spingerli a lottare e ad interrompere il lavoro con scioperi improvvisi e a spaccare le macchine, li affaticava troppo rendendoli meno efficienti, meno «produttivi»; si presentava così quella specie di «umanitarismo» col quale si dedicava un po’ di attenzione in più alle condizioni igieniche dei posti di lavoro e a proteggere un po’ di più i bambini e le donne (come con la legge inglese del 1847 delle 10 ore giornaliere varata apposta per loro); naturalmente non c’era nessuna legge che, mentre li obbligava a diminuire l’orario di lavoro giornaliero degli operai (salvo tutte le scappatoie che sono sempre state trovate per sfuggire a quest’obbligo), obbligasse i capitalisti ad aumentare i salari degli operai... Oggi ci sono borghesie che si vantano di aver varato – e sindacati collaborazionisti di averla sostenuta – una legge per il «salario minimo» (non l’Italia), che corrisponderebbe a circa 9 euro lordi all’ora, cioè poco più di 1.500 euro lordi al mese: un salario, in realtà molto vicino alla soglia della povertà relativa che gli stessi borghesi hanno stabilito in circa 1200 euro lordi al mese per ogni nucleo familiare!

Si capisce, quindi, come la riduzione della giornata lavorativa dell’operaio, e l’aumento dei salari, siano diventati le rivendicazioni principali per tutti gli operai. Lo sfruttamento della forza lavoro salariata nelle forme più bestiali come nelle forme meno cruente è generato dal modo di produzione capitalistico che ha trasformato tutti i prodotti da valori d’uso a valori di scambio. Tutto è diventato merce, pure la forza lavoro umana che ha però una caratteristica particolare: oltre a far parte di una mercato specifico – il «mercato del lavoro» – ed essere venduta e comprata in ogni angolo del mondo con lo stesso sistema, è nello stesso tempo la vera produttrice di ricchezza sociale ed è in quanto produttrice di plusvalore che ha un peso significativo nel rapporto non solo economico, ma anche sociale, con i capitalisti che sono i proprietari dei mezzi di produzione, delle materie prime e dei prodotti finiti. Ma in questo rapporto, il peso – sia economico che sociale – della forza lavoro dipende soltanto dall’unione di classe che gli operai riescono a costruire in difesa delle loro condizioni di lavoro e di esistenza.

Il conflitto sociale tra lavoratori salariati e capitalisti, iniziato ai primordi del capitalismo in Inghilterra e propagatosi poi in tutta Europa e nel mondo, è partito a livello di singole fabbriche o di singole miniere, per poi, negli anni di sviluppo del capitalismo, tendere a diventare un conflitto più ampio di carattere classista e nazionale. Questo conflitto nasce come conflitto di interessi economici immediati e, col tempo, sviluppandosi attraverso le lotte operaie e le reazioni della classe dominante borghese sia attraverso i suoi sgherri privati, sia attraverso la forza pubblica dello Stato borghese, tende ad estendersi non solo a livello di settore economico nazionale, ma anche a livello politico immediato. La legge delle 10 ore, e poi la legge delle 8 ore, sono conquiste che la classe operaia strappa alla borghesia con lotte durissime, durante decenni e decenni, in cui la classe operaia si è organizzata in associazioni economiche di difesa immediata – i sindacati di mestiere e di industria – e poi in partiti politici che avevano il compito di ottenere l’applicazione di questa legge come di una serie di diritti (di organizzazione, di pubblicazione di giornali, di riunioni pubbliche, di partecipare alle elezioni e di essere rappresentati nel parlamento ecc.) che l’ordinamento dello Stato borghese, ad un certo punto, ha previsto formalmente per legge. Ma che queste leggi venissero effettivamente applicate, e non solo episodicamente, o non venissero abrogate nell’alternanza dei governi borghesi, poteva ottenerlo soltanto la lotta operaia organizzata, decisa e ampia.

Sono passati più di centocinquant’anni dalla legge inglese sulle 8 ore che ha fatto da apripista per tutti gli altri paesi europei, (in Italia sono passati cent’anni, visto che questa legge l’ha promulgata il regime fascista nel 1923), e stiamo verificando che, crisi dopo crisi, i regimi borghesi che si sono succeduti nei governi dei diversi paesi non sono stati e non sono in grado di assicurare ai lavoratori salariati che la loro giornata di lavoro non supererà mai le 8 ore, nonostante nei paesi capitalisti più avanzati si sia anche giunti alla settimana lavorativa di 5 giorni (per 40 ore totali), dopo essere transitati dalla settimana lavorativa di 6 giorni (per 48 ore totali). Ci sono larghi ambiti economici in cui i lavoratori sono costretti a lavorare molto più di 8 ore giornaliere, soprattutto in clima di concorrenza spietata tra imprese dello stesso settore, e non c’è nessuna legge che impedisca uno sfruttamento del genere. C’è stato un periodo in cui – a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ma prima della crisi mondiale del 1975 – gli operai venivano illusi che avrebbero potuto ottenere la settimana di 36 o di 35 ore, con la semplice pressione politica dei sindacati e dei partiti cosiddetti «operai». E una parte dell’intellighenzia borghese sbandierava questo obiettivo come una delle conquiste che soltanto il progresso economico e la democrazia potevano ottenere, grazie ai pacifici dibattiti parlamentari, mentre le organizzazioni operaie assicuravano che la diminuzione delle ore di lavoro settimanale non avrebbe intaccato la produttività del lavoro e che le imprese avrebbero potuto contare su un pacchetto di ore straordinarie mensili e annue in relazione alla loro aumentata necessità di produrre di più secondo le richieste di mercato. Ciò che in realtà passava, non era un obbligo fermo per ogni datore di lavoro, ma il fatto che ciò che era previsto dalla legge veniva adattato, modificato, se non stravolto, in sede contrattuale azienda per azienda, o settore per settore. Se, in più, si tiene conto che l’apparato economico-industriale italiano è costituito per la gran parte da aziende piccole e medie (il 95% delle imprese attive è costituito da imprese di piccole dimensioni – da 0 a 9 dipendenti –, mentre le grandi imprese – con più di 250 dipendenti – rappresentano solo lo 0,1%), è evidente che la gran parte di queste realtà sfugge ad ogni eventuale controllo in merito agli orari e alle condizioni di lavoro. Non per niente il lavoro nero si annida proprio in questa enorme massa opaca di piccole e piccolissime imprese (come succede soprattutto nelle costruzioni, la cui media di dipendenti è meno di 3 per ogni azienda, e in agricoltura con un caporalato che è ben presente aldilà della recente «legge» che lo vieterebbe...).

Se poi aggiungiamo l’emanazione di una serie di leggi e di norme che hanno esteso la possibilità di soddisfare le diverse esigenze produttive delle aziende che dipendono dall’andamento del mercato – si chiama flessibilità della manodopera che trova nei sindacati collaborazionisti dei veri campioni nella gestione di quelle esigenze – abbiamo un quadro che illustra bene come la vita delle masse proletarie, una volta che hanno perso la loro tradizione di lotta classista e le loro organizzazioni di difesa classista dei loro interessi immediati, sia completamente in mano ai capitalisti.

La classe borghese, pur nel suo rafforzato dominio sociale grazie anche all’opera incessante e capillare dei sindacati e dei partiti «operai» collaborazionisti, non dimentica che le masse proletarie, sottoposte ad una costrizione sempre più dura nelle loro condizioni di vita, e soprattutto in periodi di crisi economica virulenta come è già successo nei decenni scorsi e come sta succedendo anche in questi ultimi anni, possono ribellarsi anche violentemente, riguadagnando il coraggio di lottare e di scontrarsi con le forze di polizia, come è successo recentemente in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna. La classe dominante borghese ha sempre presente che uno degli strumenti fondamentali del controllo sociale risiede nell’opera collaborazionista dei sindacati tricolore e dei partiti parlamentari. La politica della collaborazione di classe che la borghesia, uscita dalla seconda guerra imperialistica mondiale, ha ereditato dal fascismo, va sempre lubrificata; il padronato deve sempre mostrare che ha a cuore il «mondo del lavoro» e lo Stato lo deve sostenere emanando anche una serie di temporanei ristori – così hanno chiamato le miserie che, durante la pandemia scorsa, i governi hanno elargito ai proletari – in modo da attenuare la tensione sociale che ogni crisi economica porta con sé; ristori sempre pronti ad essere ritirati, come è successo recentemente in Italia col cosiddetto «reddito di cittadinanza»... 

Ogni governo, non importa se di centro, di sinistra o di destra o di una delle tante combinazioni astruse di cui sono capaci i partiti borghesi, quando si insedia declama il suo programma politico nel quale non manca mai una parola di conforto per le masse lavoratrici: il ritornello di prevedere «meno tasse» è cantato in tutte le versioni possibili e, soprattutto, è indirizzato a mettere in grande evidenza la necessità di aumentare i consumi. Meno tasse e più consumi, è un binomio che ha un effetto illusorio notevole. Quand’anche ci fosse un ritocco delle tasse per i lavoratori salariati, si tratterebbe di un percentuale infinitesima, mentre per le categorie piccolo/medio borghesi e, soprattutto, grandi borghesi, anche un piccolo ritocco verso il basso delle tasse, sui grandi guadagni significherebbe sempre di cifre importanti. E non sia mai che si vada a tassare i beni patrimoniali che, guarda caso, riguardano soprattutto i grandi borghesi. Durante le crisi economiche precedenti girava lo slogan pubblicitario «fai girare l’economia», che altro non era che l’istigazione a metter mano ai propri risparmi (di chi li aveva) per consumare di più, per far guadagnare le aziende perché, se non vendevano quel che producevano, si inceppavano e scattava il ricatto della cassa integrazione se non dei licenziamenti.

Il proletariato è l’unica classe sociale che non può sfuggire al fisco, a meno che non sia obbligato a lavorare in nero per sopravvivere, e allora il peggior nemico non è rappresentato tanto il fisco, ma dalla fame e dalla miseria: le tasse che il proletario deve pagare allo Stato vengono detratte sia all’origine dell’erogazione del salario, sia quando il salario è arrivato nelle sue tasche - o, meglio, nel conto corrente bancario, che è una delle forme di maggior controllo da parte dal fisco, e che ha un costo fisso per ogni operazione, sia per ritirare il proprio denaro in contanti, sia per pagare le varie forniture di servizi. Tutte le altre categorie sociali, come dimostra la montagna di miliardi annui dell’evasione fiscale, oltre ad essere beneficiate senza dubbio più dei proletari in temini di tassazione, trovano mille sistemi per sfuggire al fisco e in una gran parte dei casi sono le stesse leggi borghesi che lo permettono. In sostanza, i proletari, oltre ad essere la classe sociale il cui sfruttamento salariale genera l’intera ricchezza sociale, sono tartassati da tutte le categorie sociali che, nella società borghese, rappresentano veri e propri passaggi obbligati nella sopravvivenza giorno dopo giorno: dai commercianti ai padroni di casa, dai capi e dai dirigenti d’azienda ai funzionari della pubblica amministrazione, dalle banche alle forze dell’ordine, dagli avvocati ai giudici. Se poi oltre ad essere un proletario sei pure disoccupato, la situazione è drammatica.

 

DALLA DISOCCUPAZIONE...

 

Nel 2022 il tasso ufficiale di disoccupazione in Italia è stato dell’8,1% (terzo paese europeo dopo Spagna e Grecia), mentre il fenomeno dei NEET (not in education, employment or training), cioè dei giovani tra i 15 e i 19 anni che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro, pone l’Italia al secondo posto in Europa dopo la Romania. La popolazione attiva, per le statistiche, va dai 15 ai 64 anni, ma negli ultimi anni sappiamo che l’età pensionabile si è alzata arrivando anche a 67 anni e potrebbe salire nel prossimo periodo fino ai 69/70 anni. Le statistiche non sono mai precise, danno solo un’idea grossolana, per difetto, della situazione reale. Le statistiche borghesi considerano occupato anche chi lavora senza contratto – al di là della posizione di dipendente o di autonomo, di lavoratore part-time, stagionale, o saltuario – e anche solo per 1 ora nell’ultima settimana di sondaggio, e non considera, ovviamente, i lavoratori in nero, immigrati o autoctoni che siano! Pertanto la reale disoccupazione in Italia è molto superiore all’8,1%. La complessiva «forza lavoro» considerata economicamente attiva viene suddivisa quindi in «occupati» e «disoccupati» (ossia, coloro che cercano lavoro, ma non l’hanno ancora trovato); mentre coloro che non sono occupati né disoccupati – cioè che non cercano lavoro – sono inseriti nella categoria degli «inattivi» tra i quali ci sono gli «occupabili» della Meloni, cioè gli adulti dai 18 ai 59 anni, senza figli minori, senza disabilità, senza over 60 anni nel nucleo familiare e non frequentatori di corsi di studi. Secondo i dati ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) gli «occupabili» in Italia sarebbero circa 660.000, perlopiù senza figli, non più giovani (il 60% ha più di 40 anni), con bassi livelli di istruzione e residenti soprattutto al Sud dove l’offerta di lavoro è perennemente molto bassa.

Avendo sempre presente una possibile esplosione sociale causata al persistere di condizioni di sopravvivenza sempre peggiori per una massa considerevole di «cittadini», dovute soprattutto alle conseguenze negative sulle fasce più deboli grazie delle crisi che hanno caratterizzato gli ultimi trentacinque anni, i vari governi borghesi hanno cercato di varare sussidi che in qualche modo attenuassero le inevitabili tensioni sociali. E così, dopo varie politiche sociali attuate in questa direzione, si arriva al Reddito di Cittadinanza (RdC), varato nel marzo 2019 dal primo governo Conte (M5S + Lega), che interessò, nel periodo 2019-2023, mediamente 3,3 milioni di persone per anno. Ma dal 2024, con la legge di bilancio del governo Meloni, il RdC è scomparso ed è stato sostituito dal cosiddetto Assegno di Inclusione che esclude dai sussidi di sopravvivenza centinaia di migliaia di persone (i cosiddetti “occupabili”), abbattendo, inoltre, il numero degli «aventi diritto» col solo drastico ritocco del cosiddetto tetto ISEE (una specie di carta di identità economica del nucleo familiare nella quale si considerano tutte le voci di presunta «ricchezza» dei componenti del nucleo familiare) che da 9.360 euro annui passa a 7.200 euro (e la chiamano ricchezza!!!). Si abbatte quindi il numero di coloro a cui in precedenza si riconosceva una miseria in più e si abbattono i sussidi previsti per coloro che sono considerati occupabili che, da 500 € mesili, passano a 350 €.

In tutta questa interminabile girandola di norme e di condizioni – caratteristica della burocrazia e utile a complicare ogni questione per la cui comprensione si rendono necessari dei professionisti delle varie materie (sindacalisti, commercialisti, avvocati ecc.) – che stabiliscono quale nucleo familiare avrà diritto a sussidi da 10, 16 o 30 euro al giorno, a seconda dell’età, se è un single, se vi sono minori o anziani da assistere, o se vi sono disabilità, emerge per l’ennesima volta come l’impoverimento generale della massa proletaria non sia un fenomeno eccezionale, ma una costante dell’economia capitalistica che la classe dominante borghese non può che difendere con ogni mezzo perché ne va della sua sopravvivenza.

Così i proletari vengono costretti ad occupare il loro tempo «libero» a districarsi nei meandri della burocrazia anche soltanto per sapere se si ha o no diritto ad accedere ai sussidi e in che misura e in che tempi, e a complicare sempre più la propria vita quotidiana, aggiungendo alla pena della sopravvivenza la costante precarietà della propria situazione perché di anno in anno, di mese in mese, di settimana in settimana, di giorno in giorno può cambiare, essere stravolta da una qualsiasi decisione presa dall’alto – magari con un sms o una raccomandata – da parte dell’azienda per cui si lavora, o del fisco, o del padrone di casa, o del funzionario del comune, o della finanza, o della polizia, o della banca, o dell’usuraio, insomma da parte di una qualsiasi «autorità competente» prevista in questa società per il mantenimento dell’ordine costituito e per il rispetto della proprietà privata e dei rapporti sociali previsti dalle leggi, e che rimane in piedi alla sola condizione di succhiare il sangue dei lavoratori salariati.

La disoccupazione? E’ una costante della società capitalistica. La massa di disoccupati, in ogni paese, costituisce quello che Marx chiamò l’esercito industriale di riserva, ossia la massa di forza lavoro che il capitalismo, dopo aver spogliato e diseredato grandi masse di contadini e di proletari urbani, non potendola impiegare tutta nei cicli produttivi per ragioni esclusivamente di redditività del lavoro salariato, ha gettato ai margini della società e nell’indigenza, ma dalla quale pesca di volta in volta, a seconda delle necessità di mercato, dei lavoratori a bassissimo prezzo e disponibili ad essere sfruttati a qualsiasi condizione pur di non morire di fame. Questo fenomeno si verifica quando il mercato «tira» – presenta cioè opportunità immediate di assorbimento di prodotti di un certo tipo e a determinati prezzi – e, nello stesso tempo, contribuisce ad alimentare la concorrenza tra proletari abbattendo i salari. Contro la disoccupazione il capitalismo non ha alcun serio rimedio; in periodi di espansione economica può diminuirne l’incidenza percentuale dei disoccupati sul totale della forza lavoro, in altri periodi di stagnazione e di recessione economica la disoccupazione inevitabilmente aumenta, andando a costituire un problema sociale che la classe dominante cerca di tenere sotto controllo con misure sociali che vanno dalle organizzazioni di carità ai miseri sussidi statali da distribuire soltanto a certe fasce di disoccupati e temporaneamente, dalla repressione delle loro lotte alla loro frammentazione attraverso l’erogazione di miseri salari a fronte di lavori-fantasma utili formalmente solo per giustificare il loro esborso da parte delle casse pubbliche (come succede da anni a Napoli per contrastare le violente lotte dei disoccupati). Non va dimenticato, inoltre, che una parte dei disoccupati, per sbarcare il lunario, viene assorbita nel lavoro in nero o nella criminalità organizzata che è l’altra faccia dell’economia borghese.

Più i proletari sono divisi, sottoposti ad ogni forma di concorrenza, gettati in condizioni di sopravvivenza estreme, e più i capitalisti li possono spremere fino all’ultima goccia di sudore e di sangue; e le masse di immigrati, provenienti dai paesi disastrati dalle guerre, dalle carestie, dalle crisi economiche, che giungono in Europa o negli Stati Uniti dimostrano che le condizioni di sopravvivenza in questa società possono peggiorare senza limiti. Nei paesi capitalisti sviluppati l’opulenza borghese si può permettere di pagare molto meglio la parte dei lavoratori salariati più istruita e professionalizzata trasformandola in un alleato contrapposto al resto della forza lavoro: questa vera e propria aristocrazia operaia (come l’hanno chiamata Marx ed Engels) è la vera spina nel fianco del proletariato perché è il veicolo principale dell’opportunismo collaborazionista che in essa trova la sua base materiale per dividere la classe operaia e, all’occorrenza, per contrastare anche violentemente le spinte di lotta classiste della massa operaia, autoctona o immigrata, ogni volta che trova la forza di ribellarsi alle condizioni di esistenza in cui è costretta. Nei paesi capitalisti arretrati, le borghesie dominanti, in genere, non hanno le risorse per pagare larghi strati di aristocrazia operaia, ma non per questo si astengono dall’attuare ogni forma di concorrenza tra gli operai per impedirne l’organizzazione nella lotta per un salario meno misero, per condizioni di lavoro meno schiaviste, per condizioni di esistenza meno degradanti e rischiose. Anzi, più la situazione economica e sociale interna si fa critica, più queste borghesie lasciano che le organizazioni criminali del traffico di esseri umani si occupino di canalizzare queste masse di migranti verso i paesi dell’opulenza capitalistica, togliendosi in questo modo un  problema di controllo sociale interno.  

Da quando il capitalismo ha conquistato il mondo non è il benessere delle masse umane che si è diffuso, ma il degrado, la miseria, la fame, la vita precaria per masse sempre più vaste. La classe borghese dominante, sotto ogni cielo, appare invincibile, fa il bello e il brutto tempo sia in pace che in guerra, e lo può fare, può continuare a farlo alla condizione di mantenere assoggettate le classi proletarie ai propri interessi di potere e di dominio sociale. Uno dei modi più efficaci per assoggettare le classi proletarie è di alimentare al loro interno la concorrenza più sfrenata facendo leva su ogni possibile differenza, di età, di genere, di professione, di regione, di nazionalità, di tribù, di religione, di organizzazione sociale, di appartenenza politica, di disponibilità a difendere gli interessi dell’azienda e della patria e di quante altre differenze i borghesi possono escogitare. Finché il proletariato rimarrà diviso in tante frazioni concorrenti, dovrà continuare a subire il dominio assoluto della classe borghese, conducendo una vita da schiavo e da carne da macello.     

La lotta dei proletari contro la concorrenza tra di loro che ogni borghesia alimenta in tutti i modi, è diventata la lotta per la vita o per la morte. E ogni rivendicazione che mira a unire autoctoni e immigrati, occupati e disoccupati, al di sopra di ogni differenza di età, di genere, di professionalità, di nazionalità, di religione, è una rivendicazione di classe sulla base della quale i proletari, se vogliono finalmente alzare la testa e combattere da uomini e non da schiavi, devono unirsi, organizzarsi e mantenersi indipendenti da ogni apparato borghese e collaborazionista.      

 

... ALLA POVERTÀ

 

Tutti i governi, nel momento in cui si insediano, promettono di combattere la povertà, le ingiustizie sociali, le diseguaglianze; promesse che fanno la stessa fine di quelle relative alle tasse... In questa società la povertà da che cosa è causata? Dal fatto che una consistente quantità di nuclei familiari non possono contare su salari (o stipendi, come amano dire i professionisti delle statistiche) sufficienti ad una vita dignitosa. Ma chi eroga i salari? I capitalisti, le aziende, non importa se pubbliche o private, che offrono alla propria forza lavoro (dipendente o «collaboratrice») condizioni salariali insufficienti per vivere. Nessun lavoratore «sceglie» la povertà come condizione di vita; la classe dei capitalisti, da parte sua, non si sente obbligata ad assumere tutta la forza lavoro disponibile sul mercato del lavoro, e tanto meno a pagarla con un salario più alto di quello che riesce a imporre secondo i rapporti di forza esistenti tra capitalisti e proletari. Così il posto di lavoro – dato che solo vendendo ai capitalisti la propria forza lavoro, i proletari possono avere un salario –  diventa l’oggetto del ricatto che sta alla base del rapporto di lavoro tra capitalisti e proletari: se il proletario lavora, mangia, sennò fa la fame. Il progresso economico, la crescita economica, che l’intera classe dominante borghese non fa che proclamare come l’unica via per il benessere «di tutti», in realtà dimostra, sempre e comunque, che il benessere riguarda esclusivamente la classe borghese, non la classe proletaria. 

Una piccola comparazione tra i dati di PIL/per abitante del 1997 e quelli del 2021, in Italia (in dollari USA) ci dice: da 19.020 si è passati a 35. 473 (+87% circa); nello stesso periodo la popolazione attiva è passata da 22.723.000 a 24.921.000 (+9,6%), i disoccupati sono passati dall’11,3% al 9,5%, quindi una piccola parte di disoccupati sembra essere stata assorbita dal lavoro, ma sappiamo che il lavoro è in realtà diventato sempre più precario, e pagato tendenzialmente sempre peggio. Infatti, secondo i dati Ocse, l’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari, nel 2020, sono diminuiti rispetto al 1990. Mentre i salari in Germania sono aumentati del 33,7%, in Francia del 31,1%, in Austria del 24,9%, in Belgio del 25,5%, in Spagna del 6,2%, per non parlare dei paesi nel Nord e dell’Est Europa che registrano aumenti dal 63% della Svezia, al 96,5% della Polonia, al 112,4% della Repubblica Ceca, per arrivare al 200,5% della Lettonia e al 276,8% della Lituania, l’Italia registra un -2,9%!

Se poi si calcola l’incidenza dell’inflazione sul valore reale dei salari (le variazioni dell’inflazione dipendono da molti fattori legati all’andamento economico non solo interno, ma del mercato mondiale), in assenza della famosa «scala mobile» che in qualche modo tamponava l’aumento dei prezzi sui beni di prima necessità, la situazione è ancora più drammatica: nel 1990 era del 6,5% annuo, per andare al 2,2% del 2004 e all’1,2% del 2018, ma per salire all’8,1% del 2022 e al 5,7% del 2023 (dati Istat). I salari, perciò, non solo sono diminuiti mediamente del 2,9% in termini nominali, ma sono diminuiti notevolmente in potere d’acquisto!

Ovvio, quindi, che in Italia il tasso di povertà assoluta (cioè coloro che dispongono meno di 2 euro al giorno per «vivere») nel 2022 tocca, sempre secondo le statistiche ufficiali, 5,7 milioni di persone (quasi il 10% della popolazione totale); se poi si aggiunge il tasso di povertà relativa (cioè le famiglie di due componenti che dispongono meno di 1.100 euro al mese) si toccano quasi altri 10 milioni di persone: così la situazione si presenta drammatica per più di 15 milioni di persone. Ma l’aumento dell’inflazione degli ultimi due anni ha gettato nella povertà altri 3/4 milioni di persone il che porta il totale a 19/20 milioni di persone che non riescono a vivere dignitosamente, conducendo una vita stentata e di miseria nera.    

Se la civiltà di un paese viene valutata dalla vita dignitosa che dovrebbe essere assicurata a tutti secondo la Costituzione repubblicana, viviamo in un paese che si gloria di essere tra le prime 12 potenze del mondo, ma a spese di un’ampia massa di proletari sfruttati fino all’ultima goccia di sudore e di sangue e poi gettati nella miseria più nera.

Il lavoro è una delle priorità di ogni borghese: certo, lo è nella misura in cui chi lavora, cioè la classe salariata, produce plusvalore e, quindi, profitto per i capitalisti, nella misura in cui i loro capitali continuino ad aumentare e contrastino la concorrenza sempre più internazionale. La repubblica italiana è fondata sul lavoro, recita la Costituzione democratica: certo, è fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato; più intensivo è lo sfruttamento del lavoro salariato e più la repubblica dei capitalisti è in buona salute. Ma è la salute dei proletari che ci va di mezzo, e ci va di mezzo non solo perché i salari non sono sufficienti per far vivere dignitosamente le famiglie operaie, ma anche perché il lavoro imposto dai borghesi significa rischio permanente di intossicazioni, di infortuni e di morti sui posti di lavoro o nei tragitti percorsi per andare e tornare dal lavoro.

Grazie alle innovazioni tecniche e alle nuove tecnologie, e grazie alle ricollocazioni delle attività economiche nei paesi in cui la manodopera costa molto meno che nel paese d’origine, nelle fabbriche necessitano di un numero molto inferiore di operai rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa. Per la stessa quantità di produzione ci vogliono meno operai, perciò la disoccupazione in realtà non sparisce grazie alle nuove tecnologie, ma rimane una presenza costante e tendenzialmente in aumento. Teoricamente, proprio grazie alle innovazioni tecniche applicate alla produzione, le ore di lavoro necessarie per la stessa quantità di produzione precedente diminuiscono nettamente, perciò lo stesso numero di proletari occupati in precedenza potrebbe lavorare giornalmente un bel po’ di ore in meno. Ma il capitalista ragiona in un altro modo: mantiene lo stesso numero di ore giornalie di lavoro per ogni lavoratore, taglia l’organico, licenzia gli operai in esubero e, grazie appunto alle innovazioni tecniche applicate alla produzione, nello stesso tempo di lavoro giornaliero produce una quantità di merci molto superiore che in precedenza. Anche soltanto mantenendo per gli operai occupati i salari invariati, ha un immediato guadagno: ha risparmiato sui costi della manodpera, ed ha aumentato la quantità di merci prodotte, diminuendo di fatto il loro costo per unità di prodotto. Perciò sul mercato ci può andare con un prezzo concorrenziale rispetto alle altre aziende produttrici. Figuriamo poi se riesce ad abbassare i salari degli operai che sono rimasti in azienda!

In questa società chi dà il lavoro è soltanto il capitalista o il suo «sostituto» nella Pubblica amministrazione; ed ogni capitalista, nonostante la concorrenza con tutti gli altri capitalisti dello stesso paese e dei paesi stranieri, ha il preciso interesse di risparmiare il massimo possibile su tutti i costi della sua azienda, ma soprattutto sul costo della manodopera perché è da questa che estorce il plusvalore. Nelle 8 ore di lavoro giornaliero, con i metodi moderni di lavorazione ci vuole meno tempo di lavoro necessario per il sostentamento dell’operaio, mentre più tempo di lavoro non pagato va a beneficio del capitalista.

Più la manodpera è sottoposta al ricatto del posto di lavoro, e quindi del salario, più il capitalista può piegarla alle sue esigenze. Ma per piegarla alle sue esigenze il singolo capitalista non usa soltanto il ricatto sociale attuato da tutti i capitalisti e dalla società capitalista nel suo insieme, usa anche l’arma della collaborazione di classe.

 

LA COLLABORAZIONE DI CLASSE PROTEGGE SOLO I CAPITALISTI, MANTENENDO SCHIAVE LE MASSE PROLETARIE

 

Dalla fine della seconda guerra mondiale, la borghesia si è trovata a fronteggiare lotte operaie molto meno temibili di quelle dei primi decenni del Novecento, innanzitutto perché le organizzazioni classiste operaie di difesa immediata come la CGL – cancellate dal fascismo – sono state sostituite da organizzazioni collaborazioniste, pienamente integrabili, e oggi più che mai integrate, nello Stato borghese. Poi perché il Partito comunista d’Italia, vera guida rivoluzionaria del proletariato italiano, è stato indebolito e infine sconfitto, prima ancora che dal fascismo, dalla politica degenerativa della Terza Internazionale che si illudeva di recuperare il terreno rivoluzionario, in Europa, negli anni 1922-23, attraverso una serie di espedienti tattici (come, ad es., il fronte unico politico) che nella realtà facilitavano la confusione e il disorientamento del proletariato rispetto alla rivoluzione. La corrente politica della Sinistra comunista d’Italia, a cui noi ci richiamiamo direttamente, fu la sola ad opporsi con forza teorica e politica ai cedimenti dell’Internazionale e, infine, allo stalinismo; ma, isolata internazionalmente e colpita organizzativamente dal fascismo e dallo stalinismo, dovette subire, insieme al proletariato rivoluzionario russo ed europeo, la sconfitta più tremenda che potesse succedere.

Già nell’opera di restaurazione teorica del marxismo e di ricostituzione dell’organo rivoluzionario per eccellenza, il partito di classe, sostenemmo che il fascismo aveva perso la guerra militarmente, ma aveva vinto politicamente. Il fascismo non è mai stato un passo indietro della storia ma una delle forme politicamente centralizzate dello sviluppo del capitalismo in imperialismo, attraverso le quali forme – e in Germania col nazismo raggiunge il più alto livello organizzatiovo e sociale del suo sviluppo – si attuava la tendenza centralizzatrice del capitalismo stesso. Non è per nulla secondario il fatto che, dal punto di vista sociale e militare, il fascismo riuscirà a sconfiggere il movimento proletario dopo che le forze socialdemocratiche e riformiste avevano diviso, deviato e paralizzato ampi strati del proletariato consegnandoli alla reazione controrivoluzionaria della borghesia disorganizzati e politicamente disarmati. Nello scontro storico tra le forze della rivoluzione e le forze della controrivoluzione ebbe un ruolo decisivo lo Stato nella sua funzione di difensore armato non tanto di questo o quell’imprenditore industriale, di questo o quel proprietario terriero, ma della classe borghese nel suo insieme e, quindi, della sua sovrastruttura politica centrale. Prima di tutto la borghesia dominante, finita la prima guerra mondiale, cercava di uscire dalla situazione di estrema precarietà politica in cui era piombata data la situazione di crisi economica e sociale che si era creata con le immani distruzioni di guerra e dato il montare potente del movimento rivoluzionario in tutta Europa dopo la vittoria bolscevica nell’Ottobre 1917. E fu esattamente negli anni subito dopo la fine della guerra mondiale, 1918-1923, che si giocarono le sorti della rivoluzione proletaria in Europa – in Italia, in Germania, in Ungheria, in Polonia –, gli anni in cui le diverse borghesie utilizzarono contro il proletariato, e con diversi gradi di efficacia, la reazione brutale delle forze dello Stato, le milizie paramilitari come le squadre fasciste, l’arma economica dell’affamamento dei proletari delle città, e l’arma politica del parlamentarismo democratico e del riformismo socialdemocratico con cui illudere il proletariato riguardo alla possibilità di uscire dalla tragedia della guerra attraverso una ricomposizione sociale dei contrasti di classe che avevano generato la crisi rivoluzionaria. In Italia, prima, e poi in Germania, il fascismo fu la risposta più efficace alla difesa degli interessi di di classe della borghesia: sia dal punto di vista della guerra di classe condotta dalla borghesia contro il proletariato, sia dal punto di vista della politica sociale borghese, una volta sconfitto il proletariato rivoluzionario. Questa politica sociale non era che l’attuazione delle misure sociali avanzate da anni dal riformismo socialista, organizzate e strutturate nella collaborazione di classe istituzionalizzata, decretata da leggi dello Stato. Ecco la grande novità del fascismo, ed ecco che cosa la democrazia post-fascista ha ereditato dal fascismo. Per la borghesia non si trattava soltanto di sconfiggere la sollevazione proletaria contro il suo potere, si trattava anche di condurre il proletariato a condividere gli interessi economici dei capitalisti, che avevano urgenza di metter mano alla ricostruzione post-bellica, offrendogli in cambio una serie di «garanzie» economiche (gli ammortizzatori sociali) che lo proteggesse dalle conseguenze più dure dell’economia capitalistica disastrata dalla guerra.  

Il risultato che il fascismo aveva ottenuto con la repressione del movimento proletario di classe, in un primo tempo con la collaborazione delle forze dello Stato centrale democratico, poi, una volta sbarazzatosi e del pericolo della rivoluzione proletaria e delle pesanti istituzioni democratiche che rallentavano il corso di ripresa politica ed economica del paese, come Stato centrale, era appunto quello di piegare le masse proletarie alle esigenze immediate e generali del capitalismo. Nessun passo indietro della storia, tutt’altro: un balzo avanti nello sviluppo imperialistico del dominio capitalistico che, come dimostrava Lenin, era una tendenza storica inevitabile dello sviluppo del capitalismo che poteva essere fermata, e capovolta, soltanto dalla rivoluzione proletaria, dalla rivoluzione comunista a livello internazionale. Una volta sconfitta questa rivoluzione, l’imperialismo capitalistico non poteva che sviluppare le sue caratteristiche fondamentali: la concentrazione dei capitali, la centralizzazione politica (meglio se mascherata da una democrazia che, in realtà, di «liberale» non ha più nulla), l’oppressione sempre più pesante non solo delle masse proletarie di ogni paese, ma di interi popoli.

Tutto l’impianto sociale della borghesia imperialistica si basa sulla collaborazione di classe con la quale la borghesia dominante non si impedisce di passare, in tutti i momenti in cui ritiene di dover intervenire per scoraggiare anche solo i primi tentativi di ripresa della lotta classista del proletariato, alle maniere forti, alla repressione più brutale, dimostrando in questo modo che è dal movimento di classe del proletariato rivoluzionario che essa teme di perdere il suo potere. Non c’è dubbio che la borghesia, per far funzionare la politica della collaborazione di classe, deve appoggiarsi ai partiti «operai», o che perlomeno abbiano una certa influenza sulle masse operaie, affinché non lascino scoperta la funzione che la politica svolge comunque sulla parte più combattiva e socialmente impegnata del proletariato – cosa che non esclude, anzi, una ripartizione di compiti con le chiese e con le rispettive religioni. E non c’è dubbio che, per far funzionare la collaborazione di classe la borghesia deve far svolgere una serie di compiti sul terreno immediato, e non solo economico, dalle organizzazioni sindacali operaie che storicamente segnano comunque un importante livello organizzativo di un parte considerevole di proletari. Queste associazioni economiche del proletariato, proprio perché storicamente hanno svolto una funzione non solo di difesa degli interessi immediati operai, ma anche, nella misura in cui sono influenzate in modo determinante dal partito proletario rivoluzionario, di organizzazione dell’offesa sociale contro le associazioni dei capitalisti e contro il loro Stato, sono sempre state oggetto di influenza da parte delle forze della conservazione sociale. La loro importanza nello svolgersi dei conflitti sociali è stata tale che la borghesia dei paesi capitalisti avanzati, non potendole cancellare completamente, ha cercato di influenzarle e anche quando non ci riuscì – come negli anni in cui il fascismo dovette distruggerle – si prese la briga di organizzarle direttamente imponendo ai proletari di iscriversi ad esse.

La democrazia post-fascista si distingue dal fascismo perché ammette la «libertà» di organizzazione sindacale, e politica, ma questa «libertà» non è reale poiché le leggi che ne prevedono l’attuazione sono totalmente ispirate alla collaborazione di classe, perciò, ogni organizzazione sindacale, piccola o grande che sia, per essere riconosciuta dalle «controparti» – capitalisti privati o pubblici che siano – ed avere un «potere contrattuale» deve rientrare nei canoni previsti dalle leggi borghesi. Ciò dimostra, per l’ennesima volta, che l’organizzazione sindacale degli operai è importante per gli operai ma anche per la borghesia, tanto che essa non si è limitata ad influenzarla dall’esterno, ma si è preoccupata di organizzarla fin dall’inizio – finita la seconda guerra mondiale – in modo che nascesse già come un’organizzazione integrabile nello Stato, come un’organizazione tricolore. Ovvio, per i comunisti, che anche sul piano della lotta di difesa immediata degli interessi operai e della sua organizzazione di tipo sindacale saranno soltanto i rapporti di forza tra proletariato e borghesia a decidere se, e fino a quando, gli operai accetteranno di essere irreggimentati in organizzazioni sindacali tricolori che gestiscono per conto dei capitalisti e dello Stato borghese le loro condizioni di lavoro e di vita. Finora i rapporti di forza sono ancora a favore della classe dominante borghese, ma sarà l’aumento delle contraddizioni sociali e il peggioramento delle condizioni di esistenza del proletariato che porteranno i proletari ad usare la propria forza sociale per modificare i rapporti di forza con la borghesia e a ricostituire le organizzazioni sindacali rosse, del tutto indipendenti da ogni apparato borghese o collaborazionista.     

I sindacati, pur essendo organizzazioni operaie, sono costituiti e organizzati in modo tale che la lotta classista dei proletari iscritti può sorgere soltanto alla condizione di spezzare la disciplina e i vincoli di queste organizzazioni che impediscono la lotta operaia indipendente dagli apparati e dalle esigenze dei capitalisti e del loro Stato.

Dopo decenni di politica opportunista e collaborazionista dei sindacati, e dei partiti cosiddetti «operai», la collaborazione di classe – che il fascismo adottò come politica sociale per tacitare i bisogni più urgenti della classe proletaria in un periodo in cui questa stessa classe aveva dimostrato di avere la forza non solo di lottare per i suoi interessi immediati, ma anche per la rivoluzione antiborghese e anticapitalistica, applicando una serie di misure sociali che andarono sotto il nome di ammortizzatori sociali – è diventata una politica che porta al proletariato soltanto svantaggi sia economici che sociali. Tutte le «garanzie» contenute negli ammortizzatori sociali con i quali il fascismo voleva attenuare le tensioni sociali, costringendo però gli operai a collaborare con i padroni e lo Stato, con il passare degli anni di piena democrazia sono state via via rimangiate, ridotte al lumicino (basti pensare alla scala mobile che non esiste più). Quel che il fascismo aveva dovuto promettere e mantenere ai proletari affinché non si rivoltassero ancora contro lo Stato, in piena democrazia post-fascista, col passare del tempo, non era più necessario: la borghesia poteva pian piano smontare il castello di ammortizzatori sociali, adottato all’inizio, perché aveva al suo fianco le grandi organizzazioni sindacali e i grandi partiti «operai»: aveva vinto su tutta la linea; la depressione della lotta operaia era assicurata, anche nei casi in cui dagli spiragli aperti dalle crisi dell’economia capitalistica soffiava il vento della lotta classista, come nel 1980 con lo sciopero ad oltranza dei 35 giorni alla Fiat.

Ma il fatto stesso che la borghesia investa in modo continuo e strutturato, sia economicamente che socialmente e politicamente, nel mantenimento in vita delle burocrazie sindacali, la dice lunga sulla necessità da parte borghese di controllare capillarmente la massa proletaria; i sindacati, essendo organizzazioni di operai, sarebbe un grave errore abbandonarli al totale controllo della borghesia senza che i comunisti lottino contro questo controllo e, soprattutto, per la ricostituzione dei sindacati operai rossi. La lotta classista operaia non potrà rinascere se non attraverso l’indipendente riorganizzazione degli operai su piattaforme di lotta che tendano alla loro unificazione, con rivendicazioni che interessino esclusivamente le condizioni di lavoro e di vita dei proletari. La mescolanza tra gli interessi delle aziende e dell’economia nazionale e gli interessi dei proletari ha fatto prevalere l’interesse del capitale sull’interesse del lavoratore salariato. Questi interessi sono incompatibili, sono in netto e perenne contrasto. E’ soltanto a vantaggio della classe dominante borghese intenderli come compatibili, condivisibili. D’altra parte, l’antagonismo che la classe dominante borghese mostra e pratica ogni giorno nei confronti della classe proletaria, non è mai sparito dall’orizzonte, né vicino né lontano, della società attuale. Ogni misura che i governi borghesi adottano nei confronti della classe lavoratrice è ispirata a questo antagonismo: non per nulla i loro obiettivi costanti sono la crescita economica, la produttività del lavoro, risparmiare sui costi di produzione (sia dei mezzi di produzione che della forza lavoro), battere la concorrenza delle altre aziende e degli altri paesi; e in nome di questi obiettivi chiedono ai proletari – di fatto, impongono ai proletari – di collaborare stringendo la cinghia, facendo la «loro parte» (lavorando più intensamente e a minor costo, naturalmente) e rivolgendosi allo Stato tutte le volte che vengono gettati sul lastrico perché le aziende in cui lavoravano non sono più in grado di sostenere il loro costo (cioè non incassano abbastanza profitti); da quello stesso Stato i capitalisti si attendono facilitazioni di ogni genere perché le loro aziende siano remunerative – ossia facciano profitti – e perché chiuda gli occhi su ogni genere di sfruttamento illegale della forza lavoro, come se lo sfruttamento legale fosse una manna per i lavoratori salariati.

Da questo vero e proprio inferno i proletari non usciranno mai rivolgendosi alla democrazia, al buon cuore dei governi e dei capitalisti; non usciranno mai dando ascolto ai partiti e ai sindacati che usano un linguaggio «operaio» al solo scopo di rafforzare la loro funzione conservatrice in questa società, contrattando privilegi e prebende con la grande borghesia, che ha davvero il potere in mano, offrendole la collaborazione di classe delle masse proletarie. Il futuro del proletariato non sta soltanto nella ripresa della lotta indipendente di classe, sta anche nell’iniziare a sottrarre il collo dal cappio nel quale il capitalismo, aiutato dai boia delle forze della conservazione sociale, ha infilato le teste di tutti i proletari.

 

 

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