Per difendersi dagli effetti della crisi capitalistica e dai continui attacchi alle condizioni minime di sopravvivenza non c’é che una strada: la ripresa della lotta di classe, contro ogni tipo di concorrenza fra proletari!

 

 

PROLETARI!

 

la crisi del sistema economico capitalistico che si è rovesciata sull’intera società ha avuto, sta avendo e avrà ancora per lungo tempo effetti disastrosi sulle condizioni di sopravvivenza delle masse proletarie. E’ un fatto che ogni proletario tocca con mano sia sui posti di lavoro, sia nella vita quotidiana. Gli stessi economisti borghesi ammettono a denti stretti che stanno navigando al buio, non conoscono le vere cause della crisi - si arrampicano a distribuire colpe al tale finanziere o alla eccessiva deregulation finanziaria -  e non sanno dire quando la crisi terminerà per lasciare il campo ad una nuova agognata «ripresa economica». Tutti però concordano che uno degli elementi che concorreranno a far riprendere la marcia dei profitti capitalistici è l’aumento della produttività del lavoro; il lavoro, inteso come mezzo utile alla ripresa economica capitalistica alla condizione di aumentare la propria produttività!

Il lavoro! Per ogni proletario il lavoro significa sopravvivenza. Nella società borghese e capitalistica non esiste altra fonte di sopravvivenza che il lavoro; ma il lavoro per gli operai, per ogni proletario, equivale alla condizione di sfruttato, di costrizione a vendere la propria forza lavoro contro salario. Nella società borghese e capitalistica non esiste altro modo di sopravvivere che comprare al mercato i generi di prima necessità per sfamare, vestire e riparare sotto un tetto se stessi e la propria famiglia; ma l’acquisto dei generi di prima necessità può essere fatto solo con denaro, e il denaro lo si può avere solo dopo essere stati sfruttati sui posti di lavoro, pubblici o privati non fa differenza.

Nella società borghese e capitalistica se non lavori sotto padrone non mangi! E’ una legge che vale per ogni proletario, ma è una legge che la classe dominante borghese ha imposto e mantiene in vita attraverso la forza: la forza dello Stato, delle polizie, degli eserciti, e di un sistema economico che non lascia scampa: o ci si piega alla legge del capitale o si subiscono le conseguenze economiche, sociali, giudiziarie che la legge del capitale prevede.

Se non lavori non mangi! Ma in questa società il lavoro chi lo dà? I padroni, lo Stato, le amministrazioni pubbliche, le società per azioni, le ditte, i commercianti, cioè tutte quelle figure o entità che possiedono e gestiscono capitali e che per valorizzare i propri capitali  sono obbligati ad impiegare forza lavoro salariata. Sì, perché ogni capitale da solo, per virtù propria, non si valorizzerà mai, non aumenterà mai di valore. Ogni capitale, anche quando nella modernissima società della finanza viene fatto circolare nei titoli di Borsa e nei gironi della speculazione finanziaria, affonda le sue vere radici nell’economia reale, nell’economia produttiva, l’economia vera, quella che sfrutta direttamente il lavoro salariato.

La crisi attuale, il cui detonatore è stata la bolla immobiliare americana, in realtà è la crisi del sistema produttivo capitalistico, un sistema spinto a produrre sempre più merci, che non si fermerebbe mai, ma che ad un certo punto viene fermato dallo stesso mercato che ne alimenta la vita.

Il mercato si intasa di merci che non possono più essere vendute al prezzo che permette ai capitalisti di intascare i loro profitti; le merci non scorrono più con la velocità necessaria vero il mercato interno e mondiale, e come un fiume che non trova più sbocco verso il mare a causa delle quantità di sassi, sabbia, fanghi, detriti che ha trascinato verso la foce, questa stessa foce si trasforma in una barriera che col tempo diventa insormontabile. Le merci diventano detriti, la macchina produttiva capitalistica entra in crisi, i capitali si volatilizzano, i profitti non si accumulano più, le aziende si ristrutturano o chiudono, gli operai diventano essi stessi una merce inutilizzabile e vengono espulsi dalla produzione.

Il lavoro che i capitalisti offrivano fino al giorno prima scompare, viene a mancare, gli operai diventano disoccupati: mantengono sempre la propria forza lavoro, la propria capacità lavorativa, la propria esperienza, la propria specializzazione, ma se tutta questa capacità non viene impiegata e sfruttata da un capitalista, non serve a nulla: ne va di mezzo la sopravvivenza, gli operai entrano nel girone della precarietà permanente, dell’insicurezza di vita, della miseria e della fame! Il sistema economico capitalistico, potente macchina produttiva in grado di sfornare quantità gigantesche di ogni tipo di prodotto, trova ad un certo punto un limite invalicabile: la sua stessa potenza produttiva. Il capitalismo produce troppo - Marx afferma che produce troppa ricchezza per un mercato che oltre un certo limite non riesce ad assorbire tuta la ricchezza prodotta -; nel suo sviluppo storico, il capitalismo ha distrutto tutte le economie precedenti, i loro equilibri, i loro modi di garantire la sopravvivenza ai gruppi umani coinvolti, e ha trasformato miliardi di uomini in miliardi di proletari, di senza riserve. Il capitalismo se, da un lato, produce troppe merci che non si riescono a vendere, dall’altro lato produce troppa forza lavoro che non si riesce ad  impiegare nella produzione. Sovraproduzione di merci, sovraproduzione di operai! Gli operai, per i borghesi, al pari di ogni altra merce, sono sottoposti alle stesse leggi del mercato: se ce ne sono più di quelli che servono per valorizzare i capitali investiti e creare profitto, ossia più di quelli che il mercato del lavoro di volta in volta può assorbire, si buttano!

 

PROLETARI!

 

i proletari, in un mondo borghese dove solo i borghesi sono padroni dei mezzi di produzione e dei prodotti, dove per vivere si è obbligati a sottostare alle leggi schiaviste del lavoro salariato, della produttività del lavoro, della convenienza economica dei capitalisti, i proletari sono la sola classe senza riserve. Nei paesi a capitalismo sviluppato - ossia dove il meccanismo dello sfruttamento del lavoro salariato è più sviluppato e più raffinato - i proletari autoctoni, nel tempo, hanno potuto beneficiare di quantità maggiori di briciole che i capitalisti hanno trovato conveniente distribuire loro per coinvolgerli più direttamente al meccanismo di sfruttamento che ha per teatro il mondo intero.

La cosiddetta «comunanza di interessi» tra proletari e capitalisti, tra sfruttati e sfruttatori, si basa esclusivamente su di un ricatto di fondo: se il lavoro dell’operaio è più produttivo - ossia, se dallo sfruttamento del suo tempo di lavoro il capitalista trae maggior profitto -, se la produzione incontra il favore del mercato, e se il mercato «tira», ossia richiede quelle merci e quella quantità di merci prodotta, allora è soddisfatto l’interesse di entrambi: quello del capitalista che ha investito i capitali per il proprio profitto, e quello degli operai che hanno offerto la propria forza lavoro per il proprio salario. Se le cose «vanno bene», ci «guadagnano» entrambi, se le cose vanno «male», ci perde il capitalista e anche l’operaio, in proporzione: poiché siamo in società capitalistica, è il capitale che vale di più della forza lavoro, perciò i possessori di capitale valgono di più dei possessori  di forza lavoro, e quindi ci devono perdere di meno!

Ragionamenti di questo tipo li fanno tutti coloro che sono convinti che il sistema economico capitalistico sia il meglio possibile e soprattutto sia eterno. «Non avrai altro modo di produzione che quello mio», afferma il capitalismo; è il principio borghese dominante, alla stregua di qualsiasi comandamento religioso, e l’unica cosa su cui è lasciata «libertà di intervento» è la sfera individuale - la propria «coscienza», la propria «volontà» - quella che non conta praticamente nulla, mentre quella collettiva della politica borghese è già per la gran parte disegnata e scritta (difesa della proprietà privata). Non resterebbe che la sfera degli aggiustamenti temporanei, le famose riforme, con le quali la borghesia dominante illude le masse proletarie sul fatto che gli aspetti più critici e brutali del capitalismo possono essere attenuati portando dei benefici ulteriori «per tutti», dunque anche per i proletari.

I borghesi sanno perfettamente che le cose stanno in modo del tutto diverso; sanno che il loro dominio sulla società non è un dono del cielo, non è una grazia fatta loro da un Dio: è stata una conquista storica ottenuta con la forza, la violenza, la rivoluzione, e guerre continue contro le classi dominanti precedenti.

Il dominio della borghesia sulla società è garantito esclusivamente sulla base della violenza organizzata in eserciti, polizie, corpi armati di vario tipo, e centralizzata in Stati. Le leggi fondamentali di ogni Stato borghese rispondono esclusivamente agli interessi collettivi e di classe della borghesia dominante. E se talvolta le leggi scritte recepiscono diritti e interessi non direttamente borghesi, ad esempio quelli proletari, succede soltanto per due motivi di fondo: sono state strappate con durissime lotte proletarie che hanno lasciato sul campo morti e feriti, e incontrano l’interesse borghese di pacificazione sociale attraverso la quale i borghesi ottengono ulteriori vantaggi. Gli ulteriori vantaggi sono da annoverare in quella compattezza nazionale, in quella unione sacra di tutti gli sforzi dei cittadini che serve alla borghesia dominante nazionale nella sua lotta di concorrenza internazionale; e che, nello stesso tempo, serve a conservare e rafforzare il proprio dominio interno sullo stesso proletariato. Uno schiavo contento è più produttivo di uno schiavo scontento; perciò la democrazia, che illude gli schiavi salariati di poter far pesare le proprie esigenze di vita quotidiana attraverso la propria «opinione» e il proprio «voto», è così tenuta in considerazione dal potere borghese.

 

PROLETARI!

 

il capitalismo è un sistema economico che vive sulla concorrenza; concorrenza fra aziende, fra gruppi di aziende, fra Stati, fra blocchi di Stati. Nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, cioè nella nostra epoca, la concorrenza ha ormai come normale teatro il mercato mondiale. E se le merci ormai circolano vorticosamente in ogni angolo del mondo, lo fanno anche quelle particolari merci che sono i proletari.Il destino dei proletari, moderni schiavi salariati, è sempre stato quello di dover inseguire la possibilità di sopravvivenza laddove i capitalisti chiedevano il loro impiego. Una volta strappati dalle campagne, i moderni schiavi salariati hanno iniziato la loro tormentata vita di migranti. Dapprima migravano verso le vicine città dove nascevano le fabbriche, poi in città e luoghi sempre più lontani, e in altri paesi. Costumi, tradizioni, culture, lingue, abitudini: tutto si andava mescolando, e mescolandosi si trasformavano diventando sempre più voci di un’unica civiltà: la civiltà capitalistica, la civiltà del denaro, la civiltà del profitto, la civiltà del lavoro salariato!

Ciò che accomunava profondamente i proletari nelle diverse parti del mondo, e che accomuna sempre più, non sono le «stesse» tradizioni, le «stesse» abitudini, la «stessa» religione, la «stessa lingua». Sono invece le condizioni materiali di sopravvivenza, le condizioni materiali della produzione nelle quali tutti i proletari del mondo sono obbligati a vivere!

Il colore della pelle, la nazionalità, il credo religioso, la lingua degli avi, le tradizioni lontane nel tempo, sono  caratteristiche destinate ad essere superate dalle condizioni materiali di vita nel loro processo di sviluppo da una società all’altra, da un modo di produzione all’altro. Il capitalismo, nello stesso tempo in cui crea le condizioni materiali e storiche di questo superamento, utilizza quelle caratteristiche come elementi di contrasto, di contrapposizione, di concorrenza, poichè lo scopo principale del capitalismo non è l’armonia sociale, la vita sociale solidale tra essere umani, tra esseri della stessa specie, ma l’accumulazione e la valorizzazione del capitale, cioè di una particolare forza produttiva che assoggetta alle sue esigenze di valorizzazione qualsiasi energia sociale, qualsiasi forza sociale. In tempo di crisi questo assoggettamento è ancora più evidente: tutta la società dipende dall’andamento del profitto capitalistico; non è il profitto capitalistico al servizio del bene generale della società e della soddisfazione dei bisogni dell’uomo, ma è la società degli uomini che è obbligatoriamente al servizio del profitto capitalistico.

Senza il lavoro salariato, senza lo sfruttamento del proletariato, il capitalismo non starebbe in piedi. Certo, lo sviluppo tecnico e scientifico di tutta una serie di lavorazioni e macchinari, se da un lato ha aumentato la capacità produttiva delle aziende, dall’altro ha aumentato la produttività del lavoro e, perciò, in proporzione ha diminuito il  numero di operai necessari per produrre la stessa quantità di merci di prima. Per quanto si sviluppi il capitalismo, per quanto si sviluppi l’industria, il capitalismo non riuscirà mai ad impiegare nella produzione tutta la quantità di proletari che il suo stesso sviluppo genera. Tendenzialmente, più aumenta la produttività del lavoro, più diminuisce il numero di proletari necessario alla produzione. Se poi si apre un periodo di crisi di sovraproduzione come l’attuale, e la produzione rallenta pesantemente -cosa che il marxismo ha previsto fin dalle sue origini non come episodio eccezionale, ma come ciclicità costante dello sviluppo capitalistico -, allora il numero di proletari non impiegati nella produzione del profitto è destinato ad alzarsi notevolmente: la disoccupazione aumenta, l’esercito industriale di riserva si ingigantisce. E l’orizzonte non è il settore industriale, o la data azienda o il paese, ma è il mondo intero. Il capitalismo più si sviluppa, più aumenta la valorizzazione del capitale e quindi la ricchezza, e più sprofonda le masse proletarie nella disoccupazione, nella miseria, nell’indigenza. Troppa ricchezza da una parte - dalla parte della minoranza della popolazione - troppa miseria dall’altra - dalla parte della maggioranza della popolazione!

I capitalisti hanno un solo credo: accumulare profitti, e per realizzarlo hanno una sola ricetta: aumentare la produttività del lavoro!

Questa esigenza potrebbe apparire come un vantaggio per gli operai, ma in realtà diventa un’ulteriore schiavitù perchè nel capitalismo aumento della produttività significa aumento del tasso di sfruttamento della forza lavoro salariata.

In tempo di espansione economica, il capitalismo è in grado di distribuire qualche briciola dei propri profitti alle masse lavoratrici; i salari dunque aumentano, aumentano i consumi e si crea quella piccola riserva che corrisponde al famoso «conto in banca» o alla casa «di proprietà». Ma basta che il capitalismo entri nel periodo di crisi per far scomparire per una parte di piccoloborghesi e di proletari - in genere quelli che nel tempo hanno goduto di qualche privilegio da «aristocrazia operaia» - quella piccola riserva. E’ così che una parte degli strati di piccola borghesia e degli strati alti del proletariato, precipita nella più cruda situazione di pura sopravvivenza.

Accanto a questo fenomeno di più generale proletarizzazione emerge sempre più un altro fenomeno, quello della più acuta concorrenza fra proletari. E’, quest’ultimo, un fenomeno non dovuto necessariamente alla forte immigrazione dai paesi della periferia dell’imperialismo che conosciamo nell’ultimo decennio in Italia, in Spagna, in Austria e che già si era radicato nei paesi imperialisti di più vecchia data come la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti (vera terra d’elezione per l’emigrazione da tutto il mondo), la Germania.

La migrazione interna allo stesso paese, di proletari che dalle regioni del sud trasmigravano nelle regioni del nord alla ricerca di un lavoro, è fenomeno consolidato. Ed è su questa circolazione della forza lavoro che i capitalisti hanno sempre contato, perché grazie a questa migrazione potevano mettere in concorrenza diretta i proletari del sud, provenienti dalle campagne con meno pretese salariali e più bisognosi, coi proletari del nord, proletari da generazioni e più abituati a lottare contro i padroni per ottenere condizioni di lavoro meno brutali.

A questo tipo di migrazione si è aggiunta un’altra migrazione, quella da molti dei paesi della periferia dell’imperialismo, e non soltanto quelli più vicini all’Europa, o agli Stati Uniti. Da paesi sconvolti da carestie, da interminabili guerre alimentate dagli imperialismi d’Europa o d’America, da paesi in cui la sete di profitto dei grandi trust internazionali ha prodotto disastri economici e ambientali, da paesi che magari per una breve stagione si sono illusi di poter progredire economicamente grazie alle risorse naturali (petrolio, gas, minerali, legno pregiato, ecc.) e che invece sono ripiombati in uno stato di vero sottosviluppo in cui la civiltà industriale dei paesi capitalisti più «progrediti li ha irrimediabilmente gettati.

I migranti che sfidano qualsiasi rischio per la loro vita pur di raggiungere i paesi più industrializzati, sono figli di una disperazione che ha cause ben precise e che possono essere riassunte in una parole: profitto capitalistico. Tutti i paesi imperialisti più forti sono ormai coinvolti sistematicamente nei disastri ecoambientali provocati in mezzo mondo; tutti i paesi imperialisti più forti sono i protagonisti dichiarati o nascosti delle guerre che insanguinano da decenni territori vasti come continenti (basti pensare all’Africa). E tutti i paesi imperialisti più forti si fanno una spietata concorrenza, armi alla mano (non importa se maneggiate per procura da mani locali), per controllare una miniera, un fiume, un porto, una montagna, gettando nella fame, nell’esodo e nella morte centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini. E’ da questi veri e propri inferni che i nuovi migranti arrivano sulle nostre coste, nelle nostre città, alla ricerca di una sopravvivenza meno tormentata.

Noi proletari dei paesi imperialisti più forti, dei paesi che sono i maggiori responsabili delle guerre, della fame, delle miserie di intere popolazioni, se non vogliamo essere complici non solo dello sfruttamento che subiamo direttamente dai nostri capitalisti di casa, ma anche della vita infernale e delle orribili morti cui vanno incontro i fratelli di classe dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Oriente Estremo o dell’America Latina, noi proletari dell’opulento Occidente dobbiamo reagire virilmente sull’unico terreno nel quale si decidono le grandi questioni sociali: il terreno dello scontro aperto e dichiarato contro la borghesia dominante.

Non proletario europeo contro proletario immigrato extraeuropeo, ma proletari europei e immigrati extraeuropei uniti in un’unica lotta contro la classe dominante borghese che è il vero nemico di classe!

Proletari di tutto il mondo unitevi!, è stato il grido di battaglia del comunismo rivoluzionario fin dai tempi di Marx, e il 1° maggio di ogni anno avrebbe dovuto far sentire questo grido di battaglia in tutto il mondo, chiamando a raccolta le masse proletarie di ogni paese in un’unica grande e potente lotta per la propria emancipazione dalla schiavitù salariale.

Da allora, a parte le gloriose parentesi dei tentativi rivoluzionari nelle capitali europee del giugno 1848, della Comune di Parigi del 1871 e, in particolare, della rivoluzione d’Ottobre in Russia che scosse dalle fondamenta il capitalismo mondiale nel 1917 e tenne testa alle potenti armate imperialiste per tre lunghi anni; da allora, le classi borghesi dominanti hanno ripreso non solo il controllo del proprio dominio su ogni paese, ma sono riuscite a iniettare nelle vene del proletariato il potente veleno paralizzante dell’opportunismo.

I proletari hanno dimostrato nel passato di sapere e voler combattere sul proprio terreno di classe contro forze che appaiono molto più organizzate e forti. Ma l’hanno potuto dimostrare  quando, liberatisi dalle illusioni e dalle influenze nefaste dell’opportunismo pacifista e democratico, hanno riconosciuto nei proletari di ogni paese l’unico alleato fidato, nelle borghesie di ogni paese il nemico e l’alleato del nemico di classe, nelle forze riformiste, opportuniste, democratiche, socialscioviniste o avventuriste, i complici delle borghesie travestiti da operai, da rivoluzionari, magari da «comunisti».

 

PROLETARI!

 

Da decenni le forze dell’opportunismo vi hanno abituati a credere alle menzogne della democrazia borghese, a credere che i sacrifici che vi obbligavano a fare oggi servivano per ottenere domani dei benefici. Da decenni le forze del collaborazionismo sindacale e politico vi hanno abituati a credere che la lotta di classe, lo sciopero deciso e senza tentennamenti, la risposta dura agli attacchi dei padroni e dello Stato borghese alle vostre condizioni materiali di vita e di lavoro, fossero metodi antiquati e ormai inefficaci; e che era molto più produttivo spostare il perno dello scontro di interessi fra proletari e borghesi dal terreno della lotta di classe, diretta e a viso aperto, al terreno del negoziato, degli accordi fra le parti, della concertazione di obiettivi «comuni» ai quali i proletari dovevano sentirsi «cointeressati».

Gli opportunisti sono veri e propri luogotenenti della borghesia nelle file del proletariato (Lenin), e fino a quando sarà data loro fiducia e obbedienza i proletari non avranno alcuna possibilità di difendersi efficacemente dagli attacchi del padronato e della classe borghese nel suo insieme.

Non è solo una questione di «crisi», per cui i padroni appaiono con meno risorse a disposizione per cui sarebbe inutile e illusorio chiedere aumenti salariali e altre concessioni che comportino spese consistenti anche da parte dello Stato (come ad esempio l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari, e il salario medio pieno a tutti i disoccupati).

La questione non è sapere se il padrone, o lo Stato, dichiara di poter concedere o no quella determinata richiesta: è una questione di forza, e sempre è stata una questione di forza! Nella misura in cui il proletariato è debole, diviso, frammentato, timoroso, confuso, rispettoso delle regole imposte dalla borghesia e succube dell’influenza delle forse dell’opportunismo sindacale e politico, questo proletariato non otterrà mai nulla che non sia quanto il padrone di schiavi sia disposto o meno a dare.

La vera questione, ed è di questo che padroni, piccoloborghesi, bonzi sindacali e politicanti parlamentari, governanti, preti e timorati di dio hanno una fottuta paura, la vera questione è: quando il proletariato, nelle sue avanguardie, nei suoi strati più combattivi e sensibili alla causa di classe, si accorgerà di possedere una forza straordinaria, potentissima, in grado di sbrecciare qualsiasi ostacolo posto sul suo cammino storico di classe? Il proletariato rappresenta il lavoro vivo, la vera produzione di profitto: i capitalisti possono avere a disposizione quantità inenarrabili di mezzi di produzione, di impianti, fabbriche, macchinari,  materie prime, mezzi di trasporto, ma se non sfruttano su quei mezzi di produzione, su quegli impianti, in quelle fabbriche, quei macchinari per la trasformazione delle materie prime l’unica vera energia viva, e cioè il lavoro salariato, gli operai, potrebbero buttare via tutto perché da solo il profitto non si produce. Non esiste l’autoproduzione di profitto capitalistico: deve essere estorta dal lavoro salariato quella quota di plusvalore, sempre più alta, che corrisponde al tempo di lavoro non pagato con salario. E’ da qui che «misteriosamente», il capitale investito cresce di volume, e quindi di valore.

I proletari più anziani sanno, per esperienza, che non basta lottare sul terreno di classe, quindi con mezzi e metodi di classe - che non dipendono dalle compatibilità con gli interessi delle aziende, degli utenti, dei consumatori, dei cittadini, della patria, ecc. - ma che bisogna lottare in modo organizzato, con organizzazioni che non dipendano esse stesse dagli apparati delle grandi centrali sindacali tricolore e che siano effettivamente indipendenti dagli interessi, privati e pubblici, del capitalismo.

Il Primo Maggio è stato rinnegato da molto tempo da tutte le forze del collaborazionismo sindacale e politico.  E’ stato trasformato in una processione, in una sfilata di sbandieratori, completamente devitalizzato.

Il Primo Maggio potrà essere riconquistato come data in cui i proletari di tutto il mondo celebrano la loro unità di classe solo quando la lotta di classe tornerà a vivere nelle vene del proletariato, quando le rivendicazioni gridate con forza e sostenute con dura lotta senza confini si presenteranno realmente unificanti e a difesa esclusiva degli interessi proletari:

 

·     Diminuzione drastica della giornata di lavoro!

·     Aumento consistente di salario, più alto per le categorie peggio pagate!

·     Stesso salario a uomini e donne, ai proletari autoctoni e ai proletari immigrati!

·     Assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori temporanei, precari, stagionali! Salario pieno ai cassintegrati, agli operai in mobilità, ai disoccupati!

·     Regolarizzazione di tutti gli immigrati! No al controllo dell’emigrazione! No alle espulsioni dal territorio nazionale! No  alle discriminazioni verso gli «stranieri»!

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

Primo Maggio 2009

www.pcint.org

 

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