La strage di lavoratori non si ferma mai

(«il proletario»; N° 13; Supplemento a «il comunista» N. 163 - Maggio 2020)

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Secondo i dati Inail – che sono sempre inferiori alla realtà poiché, esistendo una massa di lavoratori che vengono sfruttati in nero o perché immigrati “clandestini”, non tutte le imprese sono iscritte a questo istituto e non tutti gli infortuni e i morti sul lavoro o in itinere vengono denunciati – nel 2019 ci sarebbe stato un calo dei casi mortali rispetto al 2018, da 1.133 a 1.089, mentre gli infortuni, sempre nel 2019, sono stati 641,638, superiori di 915 unità rispetto ai 640.723 del 2018. In realtà, la flessione degli infortuni con esito mortale del 2019, rispetto al 2018, è ben poco rassicurante dato che gli “incidenti plurimi” (l’unico incidente può causare la morte di più lavoratori) nel 2018 sono stati 24 causando 82 vittime, mentre nel 2019 sono stati 19 ed hanno causato 44 vittime. Muoiono più uomini che donne (94% uomini, 6% donne) e si muore di più nelle attività manifatturiere (15%), nelle costruzioni (14,4%), nel trasporto e magazzinaggio (10%), e si muore di più tra i 45 e i 64 anni (63,5%)

Lo sviluppo del capitalismo non si ferma mai, nuove tecniche, nuove tecnologie e nuove operazioni  automatiche sostituiscono molte lavorazioni manuali, ma nemmeno la strage di lavoratori si ferma. Il capitale si nutre di sudore e sangue proletario; più si acutizza la concorrenza sul mercato internazionale e più preme sui lavoratori, inseguendo l’aumento della produttività che si ottiene aumentando i ritmi di lavoro e le mansioni per ciascun lavoratore, oltre che le ore della giornata lavorativa. A tutto questo va aggiunta la mancanza delle misure di sicurezza adeguate nella grandissima maggioranza dei posti di lavoro, il che contribuisce notevolmente agli infortuni e al loro esito mortale. Troppo spesso le cause di infortunio vengono adossate ai lavoratori perché distratti, disattenti o perché non si attrezzano con i mezzi e i dispositivi di “sicurezza” che i padroni mettono a loro disposizione. Nella realtà quotidiana, la pressione per aumentare la produzione nell’unità di tempo, che nel 90% dei casi è determinata dalle macchine ed è sottosposta al controllo dei sorveglianti, spinge i lavoratori ad un aumento della fatica fisica, nervosa e psicologica che influisce direttamente sull’attenzione nei movimenti, quasi sempre ripetitivi, e ciò contribuisce a mettere in pericolo i lavoratori nell’espletamento delle loro mansioni.

Di fatto, l’aumento della produttività imposto dai capitalisti significa aumento del rischio di infortunio e di morte sul lavoro!

La condizione dei lavoratori salariati non è soltanto votata a ingrassare i capitalisti arricchendoli e gonfiandoli di profitti, è anche votata a morire per farli vivere nei privilegi, per conservare il loro sistema sociale, il loro modo di produzione e, quindi, il loro regime politico, il loro Stato, aumentando in questo modo il loro potere nei confronti di tutta la classe lavoratrice.

Gli infortuni riguardano, in genere, una vasta gamma di malattie, dalle intossicazioni temporanee alle malattie professionali di diverso tipo, dalle ferite leggere alle menomazioni gravi, fino, appunto, alla morte. Ma se si considerano, ad esempio, i malati da amianto, allora la loro menomazione è terribile, perché le fibre di asbesto lavorano lentamente e silenziosamente nel tempo anche per 30-40 anni, e quando il mesotelioma si sviluppa – questo tumore attacca la membrana che riveste la parete interna di torace, addome e cuore – allora non ci sono cure che lo possano debellare definitivamente, e si muore.

In Italia sono 6.000 i morti all’anno a causa dell’amianto! Una strage a scoppio ritardato all’interno di una strage annua continua. In Italia, secondo l’Osservatorio nazionale amianto (1), «ci sono ancora 40 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto, 33 in matrice compatta e 7 friabile, in un milione di siti, di cui 50.000 industriali e 40 di interesse nazionale (di questi, 10 solo per amianto, da Fibronit di Broni e di Bari a Eternit di Casale Monferrato)» ed è questa situazione  che «sta provocando un fenomeno epidemico con 6.000 decessi ogni anno di mesotelioma (1.900), asbestosi (600) e tumori polmonari (3.600)». Nonostante questi effetti micidiali siano conosciuti nel mondo da decenni, la produzione di amianto e il suo utilizzo non si ferma: ha sempre superato i 2 milioni di tonnellate all’anno, anche se è stato messo al bando in 62 Stati, tra cui i paesi dell’Unione Europea; ma nel 2018, l’Agenzia del governo federale degli Stati Uniti (EPA), preposta alla protezione della salute umana e dell’ambiente, ha rivalutato l’amianto nell’edilizia.

In Italia, scoppiati il «caso Eternit» a Casale Monferrato, si è giunti, nel 1992, ad una legge, la 257, che vieta l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione dell’asbesto e dei prodotti che lo contengono, ma non obbliga la rimozione dell’amianto! Come dire che l’amianto provocherà ammalati e morti per secoli…

Se poi arriva un’epidemia come quella del nuovo coronavirus, il Covid-19, contro la quale i governi borghesi non hanno fatto altro che facilitarne la diffusione in tutto il mondo, si amplificano gli effetti lesivi dell’amianto. L’esposizione da amianto – che non riguarda soltanto chi lo estrae, lo lavora e lo commercializza, ma anche tutte le persone che ne vengono in qualsiasi modo in contatto – indebolisce le vie respiratorie e i polmoni, mettendo le persone più deboli in netto svantaggio nei confronti del nuovo coronavirus. Come dire: già l’amianto le portava prima o poi alla tomba, il coronavirus ne anticipa la morte; dunque, doppio omicidio.

I borghesi, chiamandole “morti bianche”, cercano di rendere le morti sul lavoro meno brutali, meno pesanti, nel tentativo di scaricare la responsabilità sui singoli che non hanno applicato determinate misure o che non sono stati sufficientemente attenti. Che la colpa sia dei capi, dei dirigenti, degli amministratori delegati, dei padroni non c’è dubbio, anche perché sanno perfettamente che lavorando nelle condizioni in cui solitamente si lavora... il morto prima o poi ci scappa sempre. Ma la causa profonda, originaria, quella che è responsabile della continua strage di lavoratori è il modo di produzione capitalistico che punta a trarre profitto da qualsiasi attività umana, nel tempo più breve possibile, a costi minori possibili, non importa se a costo anche della vita dei lavoratori. Per il capitale, questi morti sono “danni collaterali”...

Ai proletari, in questa società in cui qualsiasi esigenza di vita è sottoposta alla legge del denaro e del mercato, il lavoro è indispensabile perché è l’unica fonte che permette loro di ricevere un salario con cui sopravvivere. Ma quel salario non costa solo fatica e sudore, costa anche umiliazioni e morte.

Per reagire a questa strage è necessario svincolarsi da tutte le pratiche che dipendono dalla collaborazione di classe e che indirizzano l’attenzione e la mobilitazione dei proletari verso un’astratta “presa di coscienza” dei capitalisti e dei loro rappresentanti politici, sollecitandoli ad adottare regole e leggi che non tengano conto solo dei profitti ma “tengano conto” anche della salute dei lavoratori e dell’ambiente di lavoro.

I capitalisti e i loro rappresentanti politici usano la forza, il potere con cui gestiscono i loro interessi di classe e in questo sono coadiuvati dal sindacalismo collaborazionista; possono accettare anche di firmare contratti, regole, leggi che salvaguardino la salute dei lavoratori – e l’hanno fatto, e in parte li rispettano se è loro conveniente – ma nella realtà è la legge della forza che seguono e che “rispettano”. E’ per questo che i proletari, solo lottando con forza, uniti, adottando mezzi e metodi che tengono conto esclusivamente dei propri interessi di classe – e la difesa della propria salute è interesse comune di tutti i proletari – hanno la possibilità di imporre ai capitalisti l’attuazione di misure di sicurezza reali ed efficaci, misure che non possono essere separate dalla diminuzione drastica della giornata lavorativa, dalla diminuzione reale dei ritmi di lavoro e del mansionario operativo, dall’aumento delle pause e, naturalmente, dalla sanificazione sistematica e continua degli ambienti di lavoro.

Queste rivendicazioni non sono sconosciute ai proletari; rispondono alle esigenze quotidiane della loro salvaguardia fisica, nervosa, psicologica, esigenze che non vengono soddisfatte spontaneamente dai padroni, ma solo sotto una forte pressione che i proletari devono esercitare con la lotta. E la forma di lotta classica per i proletari è lo sciopero, ma non lo sciopero di 1 minuto o di un quarto d’ora... L’astensione dal lavoro deve essere immediata e di tutti i lavoratori della fabbrica ogni volta che avviene un infortunio, e per tutto il tempo fino a quando la causa dell’infortunio non sia individuata e sanata; e, nel caso maledetto di infortunio mortale, sciopero ad oltranza in tutta la fabbrica obbligando i padroni ad introdurre tutte le misure necessarie perché quel tipo di infortunio non succeda più. Di promesse i padroni ne hanno fatte e ne fanno tante, ma non le mantengono mai. A loro interessa che la produzione non si fermi, infortunio o non infortunio, anche se mortale; e quando succede, intervengono all’istante per isolarlo, per coprirne le cause e per far riprendere il lavoro immediatamente perché i profitti non hanno tempo da perdere. Per i padroni il tempo è denaro. Per i proletari il tempo è la cosa più preziosa che possono conquistare perché li aiuta a salvare la propria salute e la propria vita: tempo da dedicare più a se stessi che al padrone, tempo da sottrarre alla pressione del padrone e alla sua smania di far profitti. Lo sciopero non è soltanto la forma di lotta con cui contrastare le esigenze dei capitalisti, è anche tempo proletario da dedicare ai propri interessi di classe, tempo da dedicare alla propria lotta, alla sua organizzazione e alla sua estensione, tempo per riflettere sulle proprie esigenze e sugli interessi comuni con i lavoratori di altri reparti, di altre fabbriche, tempo per discutere e decidere come impostare e continuare la lotta e di che cosa e come discutere coi padroni sulle proprie rivendicazioni.

Da decenni il sindacalismo collaborazionista ha monopolizzato la lotta operaia, l’ha piegata alle esigenze del capitale, delle aziende, dell’economia nazionale, in poche parole agli interessi del capitalismo, in cambio di promesse e di briciole che non hanno risolto nessuna situazione: gli infortuni e le morti sul lavoro sono lì a dimostrarlo ogni anno!

Non sarà mai troppo tardi per i proletari riprendere le sorti della propria lotta, fuori dalle pratiche antioperaie del collaborazionismo sindacale, organizzandosi indipendentemente dagli apparati borghesi e collaborazionisti e tornare a lottare finalmente per se stessi, per la propria salute, per la propria vita e non per la salute e la vita del capitalismo.    

 


 

(1) Cfr. www. osservatorioaminato. com/asbesto-amianto/ , e il Libro bianco delle morti di amianto, a cura dell’ONA, del giugno 2018.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

www.pcint.org

 

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