Il militarismo e la guerra, per l’imperialismo, sono le condizioni indispensabili perché sopravviva la società capitalistica e si perpetui lo sfruttamento del lavoro salariato e l’oppressione della stragrande maggioranza degli uomini.

La via d’uscita sta solo nella lotta di classe del proletariato, alla scala internazionale, nella sua trasformazione in lotta rivoluzionaria per l’abbattimento del potere politico borghese e l’avvio alla generale trasformazione della società dalla soggezione alle leggi del mercato e delprofitto capitalistico all’armoniosa vita sociale della società di specie, del  comunismo.

 

(« il comunista », n° 84, Maggio 2003)

 

 

La guerra che gli mmperialismi di rilevanza mondiale, Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno scatenato contro il capitalistico e di rilevanza regionale Iraq, conferma inoppugnabilmente le tesi marxiste sull’imperialismo e sulla guerra.

 

1.--La guerra è la continuazione della politica attuata con altri mezzi, e con mezzi militari in specie. Essa è parte integrante di ogni politica che le classi dominanti attuano per conservare ed estendere il proprio potere. Il capitalismo, giunto alla sua fase di estremo sviluppo – appunto l’imperialismo, come sostiene Lenin – sviluppa enormemente il militarismo, sia dal punto di vista tecnico e tecnologico sia dal punto di vista della strategia militare. La politica di dominio, di aggressione economica e finanziaria, caratteristica di ogni classe dominante borghese, alimenta e sviluppa i contrastanti interessi che ogni potere borghese nazionale rappresenta sul mercato internazionale. Data la sempre maggiore virulenza della concorrenza capitalistica sul mercato mondiale, la politica di aggressione economica e finanziaria è destinata necessariamente a sboccare nella politica di aggressione militare. Più il sistema capitalistico si sviluppa, più si sviluppa la concorrenza sul mercato mondiale, più si acuiscono i contrasti fra gli Stati che difendono gli interessi dei propri capitalismi nazionali. Accumulandosi in un continuo crescendo i fattori di crisi in un mercato che diventa sempre più saturo di merci e di capitali, la politica di dominio delle potenze imperialistiche più importanti tende a risolversi sempre più frequentemente nella guerra guerreggiata. Ciò che non si ottiene più con la concorrenza «pacifica» si tende ad ottenere con l’imposizione militare.

 

2.--Le diverse società che hanno caratterizzato il corso storico delle organizzazioni sociali che l’uomo si è dato sono nate dalla violenza che i contrasti sociali accumulati nello sviluppo delle date società inevitabilmente producevano; e questa violenza sfociava ad un certo punto, inevitabilmente, nella guerra guerreggiata tra gruppi umani distinti. Ogni grande epoca storica caratterizzata da un’organizzazione sociale specifica (lo schiavismo contro il comunismo primitivo, il feudalesimo contro lo schiavismo, il capitalismo contro il feudalesimo e contro ogni forma sociale precapitalistica) e che rispondeva materialisticamente ad un salto di qualità tecnico e sociale della società umana, è stata generata da guerre – in questo caso rivoluzionarie. Ma ogni società di classe che si imponeva sulla società precedente portava con sé non solo i fattori rivoluzionari di sviluppo sociale ma anche i fattori di conservazione e di reazione tanto che ad un certo punto dello sviluppo storico i fattori di contrasto, tra lo sviluppo delle forze produttive e le forme politiche e sociali del loro sfruttamento, mettevano all’ordine del giorno la necessità storica di un nuovo rovesciamento delle forme esistenti perché fossero sostituite con forme più adeguate appunto allo sviluppo delle forze produttive; forme nuove, e più adeguate allo sviluppo delle forze produttive, ma esse stesse destinate a trasformarsi in forme vecchie, conservatrici e reazionarie. Questi cicli storici di rivoluzione, riformismo e reazione si sono conosciuti in tutte le grandi forme sociali finora esistite: schiavismo, feudalesimo, dispotismo asiatico, capitalismo. E ciò è determinato dalla loro comune caratteristica: essere società divise in classi.

 

3.--Fino a quando continueranno ad esistere società divise in classi, continueranno a prodursi contrasti ed antagonismi: nei rapporti «esterni» fra nazioni e stati, nei rapporti «interni» fra le classi dominanti e le classi dominate. I rapporti fra Stati, fra paesi e nazioni nell’epoca del capitalismo sono condizionati e dipendenti dalle leggi del mercato, dunque dalle leggi del capitale. Sul mercato vince chi è più forte economicamente e militarmente, perché la concorrenza che le merci e i capitali si fanno sul mercato può essere vinta solo da unità capitalistiche in grado di vendere a prezzi inferiori pur guadagnando quote di profitto maggiori dei concorrenti. La lotta di concorrenza, d’altra parte, spinge i singoli capitali (dunque i capitalisti) ad unirsi, a concentrarsi, a diventare più forti per imporre più facilmente e in tempi più veloci i propri interessi a discapito degli interessi degli altri capitali (dunque degli altri capitalisti); e spinge a cercare nuovi mercati, nuovi sbocchi alle proprie merci e ai propri capitali. Le continue rivoluzioni tecniche di produzione e di distribuzione, lo sviluppo incessante dei rapporti commerciali fra tutti i paesi del mondo, la creazione continua di «nuovi bisogni» da soddisfare con prodotti che hanno l’esclusivo obiettivo di produrre profitto, la marcia inesorabile alla sempre più gigantesca concentrazione di capitali e alla creazione di monopoli a livello internazionale, hanno in buona parte distrutto i limiti di ogni mercato nazionale trasformando il mondo in un colossale e caotico mercato mondiale nel quale vengono, di fatto, decisi i destini del mondo capitalistico e si ogni paese. Le merci e i capitali degli Stati capitalistici più forti e dei trusts più potenti dominano il mercato mondiale, perciò il mondo. Più il mercato mondiale si satura di merci e di capitali, più i profitti capitalistici delle più forti multinazionali si deprimono; e più urgente diventa per loro ripristinare le condizioni di profitto precedenti. I loro profitti, i loro interessi vengono perciò difesi con ogni mezzo politico, e sempre più spesso con l’azione militare, con la guerra: lo Stato è al loro servizio, la forza militare statale è la loro forza militare grazie alla quale imporre nuove condizioni di vantaggio sul mercato mondiale.

 

4.--Come in una spirale senza fine, lo sviluppo del capitalismo produce inesorabilmente e ciclicamente crisi sempre più acute e di portata sempre più vasta; crisi commerciali, crisi finanziarie, crisi di guerra. Le enormi masse di merci e di capitali prodotte intasano i mercati, non trovano più acquirenti ai prezzi che contemplino il tasso medio di profitto e i capitalisti sono costretti a farsi la guerra, dapprima commerciale e finanziaria, infine con gli eserciti, per non farsi soffocare dalle crisi economiche. La via d’uscita alle crisi capitalistiche, in ultima analisi, è la distruzione più massiccia possibile di merci e di capitali: solo a questa condizione il capitalismo può ricominciare i suoi cicli produttivi, può rimettere in moto la produzione e la riproduzione di profitto e di capitale. Per il capitale non ha alcuna importanza se per la propria valorizzazione milioni e milioni di uomini crepano di fame, sopravvivono nella miseria più nera, vengono dilaniati da continue e sempre più devastanti guerre; tanto meno è interessato alla vita di milioni di esseri umani se questa viene sacrificata sull’altare del profitto e perché la tanto venerata economia esca dalle sue cicliche crisi. La contraddizione massima dell’economia capitalistica è che la sua vantata capacità produttiva – tecnologicamente sempre più avanzata – si scontra con i vincoli e i limiti del mercato capitalistico. L’appropriazione privata delle ricchezze della produzione sociale impedisce alla società di organizzare in modo razionale, intelligente, universalmente, la soddisfazione dei bisogni di vita del genere umano. Sono le esigenze del mercato, e non le esigenze di vita degli uomini, a dettare legge sotto il capitalismo; e a queste esigenze i capitalisti di tutto il mondo sacrificano tutte le risorse sociali: produttive, culturali, scientifiche, umane. La contraddizione massima della politica borghese è che la sua vantata democratizzazione della società, per cui tutti gli individui contribuirebbero sul piano economico, politico, scientifico e culturale, su di un piano di eguaglianza di diritti, si scontra con le esigenze materiali, e ben pesanti, della concorrenza di ogni capitale e di ogni capitalismo nazionale sul mercato. E tale scontro vanifica alla base della vita sociale e politica ogni pretesa eguaglianza, ogni ideale libertà, ogni romantica fraternità, riducendo impietosamente questi grandi ma vuoti principi dell’ideologia borghese in ipocriti simboli di una società destinata ad esplodere a causa delle sue sempre più gigantesche contraddizioni.

 

5.--La guerra è scontro fra eserciti, tra forze armate, è il massimo di violenza che i poteri statali sono in grado di esercitare e di attuare allo scopo di difendere gli interessi di cui sono il bastione armato più organizzato. Il suo raggio d’azione, le sue conseguenze, gli Stati coinvolti direttamente, possono ovviamente variare, a seconda delle cause che stanno alla base della guerra e a seconda della «posta in gioco». Ma è certo che in epoca imperialistica qualsiasi guerra borghese, anche quella che appare più locale e circoscritta, ha risvolti inevitabilmente internazionali e conseguenze che non possono essere limitate alle sole parti effettivamente belligeranti. Gli interessi di dominio nel mercato mondiale sono talmente contrastanti che nessuna grande potenza imperialistica si può permettere di rimanere lontana o indifferente rispetto a qualsiasi tipo di guerra, prenda quest’ultima le sembianze di guerre fra «etnie», come in Ruanda fra gli hutu e i tutsi, o le caratteristiche di una permanente oppressione come in Palestina, o quelle di «liberazione nazionale» come in Viet Nam, o quelle più tipicamente d’aggressione come nel caso del Kuwait, dell’Afghanistan o dell’odierno Iraq.

 

6.--La guerra borghese prepara la pace borghese; la pace borghese è un intermezzo fra le guerre borghesi (Lenin). Se la guerra è la continuazione della politica della classe dominante borghese, e della politica imperialistica in specie, è matematicamente certo che il periodo di pace che precede o che segue il periodo di guerra è in realtà un intermezzo, un periodo in cui si accumulano i fattori di contrasto e di crisi che produrranno la necessità della guerra futura, un periodo in cui, dunque, i poteri borghesi si preparano e preparano la società a nuove guerre. Considerando solo il periodo che va dalla fine della seconda guerra imperialistica mondiale in avanti non vi è stato che un continuo scoppiare di crisi di guerre nei diversi angoli del mondo; guerre di ulteriore conquista e redistribuzione dei territori fra le diverse potenze mondiali e regionali, guerre di liberazione nazionale da parte di popolazioni e paesi spinti a scrollarsi di dosso la morsa colonialista, guerre di riassetto regionale. Con l’accrescersi dei contrasti sia fra le grandi potenze imperialistiche che fra le potenze continentali o regionali, si acutizzavano inevitabilmente i fattori di scontro anche solo per qualche chilometro di confine, per una sorgente d’acqua, per un passo di montagna, per uno sbocco al mare, per una miniera, un pozzo di petrolio, una foresta o per un’isola. L’imperialismo rende la situazione di guerra come fosse una situazione normale; e rendendola «normale» tende a rendere accettabile lo sviluppo sempre più forte del militarismo. La società si è vieppiù militarizzata, si è riempita di polizie di ogni genere, di corpi militari di ogni tipo; la guerra, resa oscenamente spettacolo, nelle sue distruzioni e nei corpi maciullati entra in ogni casa attraverso la televisione assumendo il compito di abituare, anche le popolazioni non coinvolte direttamente, alle distruzioni e ai massacri. L’imperialismo è violenza diffusa anche attraverso i grandi media, è militarismo, è corsa agli armamenti, è dispotismo poliziesco; è, nei fatti, apologia di ogni tipo di violenza. In tempo di «pace» la guerra non scompare all’orizzonte, fa capolino da ogni angolo del pianeta. Il tempo di «pace» in un paese corrisponde a un tempo di «guerra» in un altro paese; sotto l’imperialismo non c’è mai pace contemporaneamente su tutto il pianeta.

 

7.--Ma le guerre non sono tutte uguali. La contrapposizione che i marxisti mettono in campo non è fra guerra e pace, ma fra guerre che fanno fare un salto in avanti alla storia e guerre reazionarie, imperialistiche, che tendono a perpetuare la società capitalistica e il potere dominante borghese. Le guerre del primo tipo sono le guerre che i movimenti rivoluzionari conducono per prendere il potere, per difendere la rivoluzione e per estenderne gli effetti agli altri paesi (come, ad esempio, all’epoca della rivoluzione francese del 1789 e anni successivi, le guerre napoleoniche che diffusero in tutta Europa il modo di produzione capitalistico distruggendo il modo di produzione feudale). Vanno aggregate a quel primo tipo le guerre cosiddette di «liberazione nazionale», le rivolte anticoloniali, guerre di tipo certamente nazionale ma rivoluzionario che oppongono paesi oppressi ai paesi oppressori anche nel caso in cui non vi sia all’ordine del giorno il passaggio da un prevalente modo di produzione precapitalistico a quello capitalistico. Guerre, queste, che nel grande disegno rivoluzionario e marxista dei bolscevichi al tempo di Lenin, e della vittoriosa rivoluzione proletaria in Russia, dovevano contribuire ad indebolire ed attaccare le forze dell’imperialismo in una storica alleanza fra il proletariato dei paesi capitalistici avanzati, in lotta col suo disfattismo rivoluzionario e l’insurrezione sociale contro le proprie borghesie nazionali, e i movimenti nazionalisti rivoluzionari nei paesi coloniali e semicoloniali: un’alleanza inserita nella prospettiva della rivoluzione permanente, nella quale le classi operaie dei paesi capitalistici progrediti, e i loro partiti di classe, uniti politicamente nell’unico partito comunista mondiale, dovevano dirigere la rivoluzione proletaria mondiale, la dittatura proletaria internazionale, facendo fare ai paesi coloniali e semicoloniali finalmente strappati dalle grinfie delle vecchie potenze coloniali europee il salto di qualità verso lo sviluppo economico, aprendo nel contempo alla società umana lo sbocco del socialismo e del comunismo. Le guerre del secondo tipo, reazionarie, imperialistiche, sono le guerre che hanno per unico scopo l’annessione di territori o di nazioni, la sottomissione di intere popolazioni agli interessi di trusts e di potenze statali straniere, sono le guerre di rapina, le guerre fatte per una nuova distribuzione delle zone di influenza fra le potenze imperialistiche, per una nuova spartizione del mercato mondiale. Queste guerre possono essere regionali, continentali, mondiali, a seconda dei rapporti di forza fra gli imperialismi in contrasto fra di loro e della maturazione di quei fattori di crisi che, impedendo al grande capitale di valorizzarsi in modo adeguato e alla velocità ad essa necessaria, accelerano i processi di scontro.

 

8.--La contrapposizione centrale che i marxisti mettono in campo è l’antagonismo fra le classi della società, e in particolare fra il proletariato e le classi borghesi. I marxisti non si fanno deviare dalla falsa alternativa: guerra o pace, ma puntano il proprio orientamento e la propria azione sulla guerra fra le classi. Da questo punto di vista si spiega perché storicamente i marxisti sono stati sempre favorevoli alle guerre rivoluzionarie, alle guerre che facevano fare un passo avanti alla storia, ossia che avvicinavano sempre più il periodo in cui l’alternativa storica si potesse condensare in: o rivoluzione o guerra, o potere proletario o potere borghese, o dittatura del proletariato o dittatura della borghesia imperialistica. La storia delle società umane è andata avanti attraverso un lunghissimo corso di lotte fra le classi fino a raggiungere l’epoca del capitalismo che ha semplificato la divisione della società in tre grandi classi antagoniste: i borghesi, i proprietari terrieri e i proletari. Le prime due classi – che possiedono le ricchezze sociali, le famose riserve – sono legate l’una all’altra dal principio della proprietà privata e sono interessate a difendere la società esistente per mantenere i rispettivi privilegi derivanti dalle leggi che difendono appunto la proprietà privata; la classe del proletariato, dunque la classe dei senza riserve, ha storicamente interessi del tutto opposti, e non tanto perché non possiede nulla se non la propria personale forza di lavoro, quanto per il fatto di dover sopravvivere nella condizione di lavoratore salariato, ossia di farsi sfruttare per tutta la vita, giorno dopo giorno, nell’incertezza continua sia del salario che della vita.

 

9.--I marxisti sono per principio contro ogni tipo di guerra? No. Le determinazioni materiali dello sviluppo economico e sociale che ha finora caratterizzato, e caratterizza, tutte le società di classe, sono generate e generano a loro volta fattori di violenza che, a seconda del periodo storico e delle classi che ne rappresentano la forza cinetica, rompono vecchi vincoli e vecchie strutture politiche e giuridiche per dar luogo a nuove forme politiche, oppure ribadiscono le vecchie forme a vantaggio esclusivo delle vecchie classi dominanti. Nella storia vi sono state guerre progressive e guerre reazionarie. Soltanto con la fine delle società divise in classi si potrà parlare di fine della violenza, sul piano economico come su quello politico, su quello sociale come su quello militare. Fino ad allora la lotta fra le classi domina i rapporti sociali, anche quando le classi subalterne non hanno la forza di contrastare in modo adeguato e sul terreno della forza la pressione e la repressione delle classi dominanti. I marxisti non si limitano a propugnare la lotta fra le classi, ma si distinguono da ogni altro movimento politico perché propugnano – e si preparano a tale scopo – che la lotta di classe sia portata fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, fino alla rivoluzione e al conseguente abbattimento dello Stato borghese instaurando al suo posto – dunque al posto della dittatura della borghesia e dell’imperialismo – la dittatura del proletariato: la dittatura dell’unica classe rivoluzionaria della moderna società capitalistica, il proletariato appunto, la classe dei senza riserve, di coloro che non hanno nulla da guadagnare dalla società dominata dal capitale e dallo sfruttamento del lavoro salariato. La lotta fra le classi sfocia inevitabilmente, ad un certo punto del suo sviluppo e dell’acuirsi degli antagonismi sociali, in lotta rivoluzionaria, in guerra di classe. Questo salto di qualità nella lotta di classe è determinato non solo dalla presenza di un forte e organizzato movimento proletario sul terreno economico e politico immediato, ma soprattutto dalla presenza del partito di classe, quel particolare partito politico che fonda le sue basi teoriche e programmatiche nel marxismo rivoluzionario, ossia nella teoria della rivoluzione proletaria, della dittatura del proletariato esercitata dal partito di classe, della trasformazione della società attuale in società comunista. La rivoluzione, ribadirà Engels in polemica con gli anarchici, è la cosa più autoritaria che possa esistere e non potrà avere successo se non utilizzerà tutta la forza e tutta la violenza necessarie per abbattere e definitivamente vincere il potere borghese e con esso il modo di produzione capitalistico; potere e modo di produzione che non si estingueranno mai da soli.

 

10.--Per i marxisti la guerra borghese imperialistica va combattuta su tutti i fronti, sul fronte dell’aggressore come su quello dell’aggredito. Adottare tattiche del tipo «né aderire né sabotare» (forma di equidistanza che tende a lasciare completamente libere le mani alla borghesia dominante, caratteristica dei riformisti e dei collaborazionisti), o di sostegno delle borghesie «aggredite» contro le borghesie «aggressive» (forma che parteggia per l’aggredito, per il più debole contro il più forte, «per la democrazia» contro la «dittatura», che caratterizza tutti i variegati movimenti e partiti di cosiddetta sinistra in realtà affittati a frazioni borghesi contro altre frazioni borghesi), adottare tattiche di questo genere significa deviare la spontanea opposizione alla guerra del movimento proletario dall’orientamento classista per instradarlo alla coda della borghesia nazionale o di sue particolari frazioni. Combattere contro la guerra imperialistica su tutti i fronti significa innanzitutto non sostenere nessun belligerante, aggredito o aggressore che sia; significa spostare la forza del movimento proletario dal terreno dell’adeguamento passivo alla mobilitazione borghese, o della complicità e della partecipazione alla guerra che tutte le borghesie tendono ad ottenere, al terreno dello scontro di classe contro innanzitutto la propria borghesia nazionale; approfittando, sì approfittando, se la forza del movimento proletario lo consente, della crisi di guerra per scendere sul terreno dell’aperto scontro politico e sociale; accettando, quindi, il terreno della violenza che la borghesia non nasconde più, ma accettandolo sul terreno della lotta fra le classi nella chiara e netta opposizione di classe contro classe. La «difesa della patria» è parola d’ordine borghese, dato che – giusta il Manifesto del 1848 – il proletariato non ha patria, dunque non lega i destini della sua lotta alla difesa dei confini del mercato nazionale, della proprietà privata, dello Stato di classe. Il proletariato è classe internazionale, e perciò il suo movimento di lotta ha un orizzonte mondiale. Combattere contro la guerra imperialistica significa dunque combattere contro ogni forma di nazionalismo, ogni difesa della nazione, ogni difesa della «patria» appunto!

 

11.--Il disfattismo rivoluzionario è la parola d’ordine che il proletariato rivoluzionario all’epoca della prima guerra imperialistica mondiale adottò e mise in pratica sui fronti di guerra attraverso la fraternizzazione fra reparti degli opposti eserciti, le diserzioni, gli ammutinamenti. Il disfattismo rivoluzionario significa lotta contro entrambi i fronti di guerra, destabilizzare l’esercito in cui si è stati irreggimentati, disorganizzarlo, colpendo la sua unità, la sua compattezza, la forzata sottomissione agli ordini dei comandi. Ma tale tattica non nasce spontaneamente nelle file dell’esercito, e non è possibile che si attui semplicemente propagandandola tra i soldati. Essa si basa su di un altro tipo di disfattismo, quello di tipo economico e immediato. La lotta proletaria per la difesa degli interessi immediati sul terreno dello scontro di classe in tempo di pace costituisce la base materiale della capacità del proletariato di opporsi alla guerra imperialistica e di attuare il disfattismo rivoluzionario; in forza di quella lotta, di quell’allenamento, il proletariato sarà in grado in tempo di guerra – quando vigono il massimo di coercizione statale possibile e la legge marziale - di adottare metodi e mezzi di lotta che saranno la continuazione della politica proletaria di classe attuata con altri mezzi, non più legali e pacifici. E’ la storia del movimento di classe, e del movimento comunista in particolare, ad insegnare questo. Da oltre settant’anni, da quando il proletariato internazionale, e in particolare europeo, subì la sconfitta nella rivoluzione russa e nei tentativi rivoluzionari in Germania, Polonia, Ungheria, il movimento di classe proletario non ha più calpestato il terreno della lotta di classe e rivoluzionaria. E questo lungo periodo di impotenza classista ha prodotto necessariamente un disastroso rinculo del movimento proletario, facendolo risucchiare nei meandri del peggiore opportunismo, quello democratoide e nazionalista. Ciò non toglie che i marxisti – che hanno il compito di anticipare la strada che il movimento di classe proletario dovrà percorrere – hanno il dovere di mantenere chiara e ferma la rotta di classe. Al di fuori della posizione che nega la collaborazione e la complicità con la propria borghesia nazionale, in tempo di pace o in tempo di guerra, vi sono solo posizioni opportuniste, antiproletarie.

 

12.--I proletariati, irreggimentati nelle file degli eserciti borghesi e indotti a far proprie «le ragioni» delle borghesie in guerra, hanno ottenuto soltanto il ribadimento dello sfruttamento della loro forza lavoro, della moderna schiavitù salariale; di più, i proletariati dei paesi capitalisticamente arretrati o dei paesi «vinti» hanno subito condizioni di lavoro e di sopravvivenza ancor peggiori dei loro fratelli dei paesi più potenti e «vincitori», a dimostrazione che per ogni borghesia nazionale la guerra imperialistica – coinvolta non importa se da aggressore o da aggredito – è una ulteriore occasione di sfruttamento della forza lavoro, dunque di estorsione di plusvalore per di più centralizzata e particolarmente concentrata nelle mani dello Stato. La lotta contro la mobilitazione di guerra e la guerra stessa fonda le proprie radici, e quindi la propria forza, nell’aperta lotta di classe, a partire dalla lotta in difesa esclusivamente delle proprie condizioni di vita e di lavoro. La politica di guerra della classe dominante borghese di qualsiasi paese fonda le sue ragioni nella politica di dominio sulla società, a partire dall’oppressione del proprio proletariato nazionale per estendersi, grazie allo sviluppo del capitalismo, ad un sistema universale di sfruttamento e di oppressione: borghesia che opprime e sfrutta il proprio proletariato, borghesia più forte di altre che opprime e sfrutta proletariati di altri paesi, borghesia più potente e imperialistica che opprime e sfrutta non solo proletariati di molte nazioni ma interi popoli, compresi gli strati borghesi e piccoloborghesi di quei popoli. La spirale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e dell’oppressione politica., sociale, militare, è destinata ad acuire sempre più i propri effetti quanto più il capitalismo sviluppa le sue potenzialità e quanto più, in contemporanea, si sviluppano le contraddizioni economiche e sociali. Ripartire dal rapporto economico e sociale fondamentale del capitalismo: capitale e lavoro salariato, classi borghesi che si appropriano le ricchezze sociali prodotte e classi proletarie spogliate di ogni riserva, di ogni garanzia di vita e di lavoro; produzione di merci e non di beni d’uso, dunque produzione e vendita al mercato di merci per ottenere denaro, per ottenere capitale, e capitale maggiorato grazie all’estorsione di tempo di lavoro non pagato al lavoro salariato; ripartire da questo, significa comprendere le cause storiche e materiali di tutte le contraddizioni della società borghese. E’ quel tempo di lavoro non pagato che costituisce il segreto del guadagno capitalistico; il tempo di lavoro non pagato prende la forma del plusvalore ossia di quel valore in più che il capitale investito estorce al lavoro salariato, e che il capitalista chiama profitto. Nel mercato, ossia nell’unico ambito economico nel quale è possibile trasformare le merci in denaro, in cui è possibile realizzare concretamente la finalità dell’estorsione del tempo non pagato, si scontrano tutti i capitali esistenti in una lotta di concorrenza senza fine e senza scrupoli. E’ questa lotta di concorrenza che, ad un certo punto dello sviluppo capitalistico, pone il problema della soluzione drastica delle crisi capitalistiche, il problema della guerra. E per questa guerra, le classi dominanti borghesi di tutti i paesi si preparano di lunga mano, dotandosi di armamenti sempre più potenti e sofisticati. Che interessi comuni hanno i proletari con le proprie borghesie nazionali di fronte alla guerra che ormai ha tutte le caratteristiche di una guerra reazionaria, avendo completamente perso la funzione «liberatrice» di forze produttive ancora vincolate da sistemi economici precapitalistici? Nulla di comune! I proletari, al contrario, hanno tutto l’interesse a rompere quella «pace sociale» in cui ogni borghesia li prepara ai macelli di guerra; hanno tutto l’interesse a svincolarsi dall’abbraccio soffocante del patriottismo, del nazionalismo, dei falsi obiettivi di libertà e di democrazia con i quali ogni borghesia nazionale tende a legare ai propri fini la sorte delle masse proletarie. Per quanto democratica possa dichiararsi, la classe borghese dominante è essa stessa serva del capitale e delle sue leggi: se la lotta di concorrenza sul mercato mondiale impone il passaggio dai rapporti commerciali e finanziari ai rapporti di forza e militari, ogni borghesia nazionale è necessariamente spinta a togliersi le vesti della pace sociale e indossare l’armatura di guerra. Il proletariato non ha alcuna ragione per continuare a vestirsi di pacifismo e di democratica sottomissione, ma ha mille ragioni per gettare finalmente alle ortiche le illusioni di una composizione pacifica dei contrastanti interessi che lo oppongono alle classi borghesi, e imboccare la strada dell’aperta lotta di classe: non solo per non farsi massacrare nelle guerre imperialistiche, ma per farla finita con un sistema sociale e politico che altro non ha da offrire agli uomini se non sfruttamento, ogni genere di oppressione, miseria, fame, morte.

 

13.--Il proletariato, unica classe sociale rivoluzionaria della società moderna, proprio in virtù della sua caratteristica fondamentale di essere senza riserve, proprietario solo della sua forza di lavoro, e quindi nella condizione storica e materiale di non rappresentare interesse specifico alla permanenza della divisione in classi della società, rappresenta appunto la leva indispensabile perché lo sviluppo storico della società umana faccia il decisivo salto di qualità: dal regno della necessità al regno della libertà (Engels). Dalla condizione, dunque, di oppressione sociale che si declina nell’obbligo per le grandi masse alla schiavitù salariale per cui la sopravvivenza è dettata dalla necessità di sottostare a questa oppressione (fino a quando persiste il modo di produzione capitalistico e la società borghese), alla condizione di essere sociale, libero da vincoli di classe, da obblighi dettati dal potere di una classe su altre classi, libero da ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e dunque organizzato in una società di specie, in cui il fine della produzione di ricchezza sociale non è più il mercato e la valorizzazione del capitale ma la soddisfazione dei bisogni di specie dell’intero genere umano. Perché questo salto di qualità si attui debbono esistere alcune condizioni indispensabili, oggettive e soggettive. Un’economia capitalistica sviluppata, e dominante sul pianeta; un proletariato sviluppato numericamente e sufficientemente istruito dallo sviluppo capitalistico; un movimento di lotta proletaria sul terreno classista sviluppato e organizzato almeno nei paesi capitalistici più progrediti; un partito politico proletario di classe saldo teoricamente e programmaticamente e influente sul proletariato, almeno sui reparti più progrediti e coscienti del proletariato; una situazione storica dei poteri borghesi che abbia fatto maturare internazionalmente i fattori di crisi sia sul terreno economico, che su quello politico e sociale.

 

14.--Alcune di queste condizioni sono presenti da molto tempo. L’economia capitalistica è sviluppata, fin troppo, e domina il pianeta. Lo sviluppo del capitalismo non può che generare un proletariato sempre più numeroso e presente in tutti i paesi del mondo, anche quelli meno progrediti capitalisticamente. I fattori di crisi a livello internazionale ce ne sono stati molti dalla fine della seconda guerra mondiale, e ce ne saranno molti ancora. Vale la pena di ricordarne in particolare alcuni: nel 1950 la guerra in Corea in cui, ad appena cinque anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, in realtà si scontravano le due massime potenze imperialiste dell’epoca, gli Stati Uniti e la Russia; tra il 1973 e il 1975, quando il capitalismo internazionale subì una crisi economica, e conseguentemente sociale e politica di vaste proporzioni, tanto che ancor oggi le economie capitalistiche ne sentono le conseguenze; o ancora tra il 1989 e il 1991, con l’implosione del gigante russo e del suo sistema di stati satelliti e con la prima guerra del Golfo. Si tratta di condizioni oggettive che tendono a ripresentarsi sulla scena storica ciclicamente con sempre più acutezza, giusta la previsione marxista. Sono assenti, invece, le condizioni soggettive, e precisamente il movimento proletario di classe sviluppato e organizzato sul terreno economico e sociale immediato della difesa delle condizioni di vita e di lavoro, e il partito proletario di classe, forte, compatto, influente sul movimento proletario. Tali condizioni soggettive sono anch’esse determinate dallo sviluppo oggettivo dei rapporti di forza tra le classi e dallo sviluppo delle contraddizioni sociali che generano la lotta di classe. La loro particolarità sta nel fatto di essere dialetticamente legate all’oggettivo sviluppo della lotta di classe: storicamente la teoria della rivoluzione proletaria, della trasformazione della società capitalistica in società di specie, è data, è il marxismo non adulterato e revisionato dai continui aggiustamenti che gli ideologi borghesi producono allo scopo di deviare costantemente il proletariato dalla possibilità di riagganciarsi alla sua teoria politica rivoluzionaria; quel che è davvero caduco, oggetto di degenerazione, sono le organizzazioni formali del proletariato, a partire dai sindacati fino al partito di classe. Sul terreno della lotta fra le classi, che è il terreno dello scontro materiale e fisico delle forze di classe, le sconfitte portano alla lunga alla degenerazione delle forme organizzate che, non rispondendo più ai dettami originali degli interessi esclusivi di classe, si trasformano da condizioni soggettive favorevoli allo sviluppo della lotta di classe e rivoluzionaria in condizioni oggettive controrivoluzionarie. Il proletariato, e con esso i pochi elementi della classe non precipitati nella degenerazione riformista e collaborazionista, hanno quindi di fronte la necessità da un lato di riappropriarsi delle armi della critica, della teoria rivoluzionaria del marxismo, unico strumento all’altezza di dettare l’orientamento, l’indirizzo, la rotta della lotta di classe proletaria a livello internazionale, e dall’altro di ritornare a lottare sul terreno della lotta di classe, ossia sul terreno dell’aperto antagonismo fra le classi, riorganizzandosi in modo adeguato e coerente sul fronte della difesa effettiva degli interessi proletari immediati, quindi sul terreno, appunto, della lotta immediata in cui coinvolgere le più larghe masse proletarie aldilà dell’appartenenza o meno di carattere politico o religioso. In assenza di queste due condizioni: il più vasto movimento proletario di difesa sul terreno della lotta immediata, e la presenza e l’attività del partito di classe nelle file del proletariato, la presenza degli altri fattori oggettivi sulla scena storica non è sufficiente perché il movimento proletario internazionale, e in particolare la rivoluzione proletaria, abbia la forza di abbattere definitivamente i poteri borghesi aprendo così la strada alla trasformazione politica e sociale dell’intera società umana.

 

15.--La guerra che gli imperialismi scatenano in ogni angolo del mondo – oggi in Iraq, come ieri in Afghanistan, in Cecenia, in Somalia, nei Balcani, in Palestina, in Congo o in Sierra Leone o in Centro America e via indietro fino al Viet Nam e alla Corea, e domani ancora in Medio Oriente, in Corea o in Indocina, a Cuba, nel Caucaso o nel Maghreb – è sempre rivestita di giustificazioni ideali: in «difesa della sovranità esistente e dell’integrità territoriale» come ad esempio nel caso della prima guerra del Golfo rispetto all’invasione del Kuwait da parte irachena, oppure in «lotta contro il terrorismo internazionale e gli Stati che lo proteggono» come nel caso dell’Afghanistan dei talebani, oppure in «difesa delle popolazioni oppresse» come nel caso della Bosnia e del Kossovo, oppure per esportare la «democrazia e la libertà» nei paesi sottoposti a «brutale dittatura» come nei casi di Panama, Grenada, Nicaragua o dell’attuale Iraq. Che siano state e siano giustificazioni infondate è evidente a tutti coloro che non si lasciano trarre in inganno dalla propaganda borghese. D’altra parte sono gli stessi gazzettieri borghesi a portare costantemente in evidenza che le «vere» cause delle guerre sono, di volta in volta, ben altre: sostituire regimi che non sono più così flessibili e malleabili come un tempo, e che quasi sempre sono stati creati e sostenuti dalle stesse potenze che poi decidono di farli cadere; mettere le mani su zone geopolitiche ritenute strategiche sia dal punto di vista dei commerci che da quello militare; impossessarsi direttamente o attraverso i grandi trusts delle fonti di materie prime strategicamente importanti per l’industria avanzata (dal petrolio al gas naturale, dall’oro ai diamanti ai minerali indispensabili per la tecnologia avanzata, dall’acqua alle terre fertili); allargare le proprie zone di influenza a detrimento degli imperialismi concorrenti; sottomettere popolazioni e intere nazioni alle esigenze del proprio dominio industriale, commerciale, finanziario creando vere e proprie «riserve di caccia». Insomma, giusta Lenin, le guerre servono per una nuova spartizione del mercato mondiale; l’imperialismo, d’altronde, proprio perché rappresenta il livello massimo e ultimo dello sviluppo capitalistico – il dominio del capitale finanziario su tutta la società – non è che la lotta di concorrenza capitalistica portata allo stadio massimo di scontro. Questo tipo di lotta di concorrenza coinvolge sempre più l’intera società. Perciò le guerre imperialistiche non si limitano più allo scontro fra «eserciti» sui «campi di battaglia»; nulla più è nettamente separato fra militare e civile, tutta la società ne viene coinvolta e sempre più i civili, gli inermi, vengono bombardati e massacrati per «ragioni militari». Da questo punto di vista, la guerra imperialistica, attuata sì con reparti professionali, ma coinvolgente sempre più intere popolazioni negli scontri militari, anticipa – in senso del tutto borghese – la guerra di classe del proletariato, la guerra della maggioranza della popolazione contro la borghesia dominante e i suoi apparati di difesa; abitua, in un certo senso, la maggior parte delle popolazioni, alla violenza, all’uso della forza, all’uso delle armi.

 

16.--Il pacifismo, e tutti i movimenti che si rifanno alla teoria della «pacifica convivenza» fra le classi, del dialogo fra le classi e fra gli antagonismi, tenta di dare una risposta all’interventismo militare sul piano non solo religioso e morale, ma anche politico. Che sia una riposta borghese, e nella fattispecie piccoloborghese, alla guerra, alle sue devastazioni e ai suoi massacri, è dato dal fatto che eleva il principio della coscienza individuale all’altezza del potere divino, un potere che pretendendo di essere al di sopra di tutto e di tutti pretende di essere in grado di sanare qualsiasi tipo di contrasto. Il pacifismo non ha mai messo in discussione il modo di produzione capitalistico, non ha mai messo in discussione le leggi del mercato, del capitale, del lavoro salariato; esso ha accettato la società capitalistica com’è, nelle sue fondamenta economiche e nei suoi risvolti politici, culturali, militari. Non esiste, in realtà, un fondamentalismo pacifista, se non in qualche illusa comunità dei «figli dei fiori». Il pacifismo condivide con il riformismo la convinzione che attraverso la pressione delle masse, naturalmente con mezzi del tutto pacifici, sia possibile far capire ai governanti, ai potenti, a chi ha il potere economico e politico concreti in mano, che la strada per attenuare i contrasti, smussare gli spigoli, fermare il corso delle contrapposizioni prima che esplodano appunto in violenza e guerra, sia quella del dialogo, del negoziato, della mediazione. La mentalità che il piccoloborghese sviluppa nel corso della sua grama vita di «voglio ma non posso» fonda le sue radici nella condizione sociale di essere sì borghese, quindi padrone, proprietario di qualche riserva, difeso e garantito dalle leggi in quanto proprietario, ma nello stesso tempo collocato fra i grandi borghesi, i grandi capitalisti e il proletariato, la classe dei senza riserve, dei senza garanzie; collocato in mezzo fra le due classi che nella realtà sociale capitalistica sono determinanti, sono produttrici della ricchezza sociale: il capitale, da un lato, il lavoro salariato dall’altro. Il piccolo borghese non ha forza di classe propria, premuto com’è dall’alto dalla grande borghesia che detiene il vero potere politico ed economico in mano, e dal basso dal proletariato che detiene la forza lavoro, dunque la forza sociale che viene sfruttata per estorcerne il plusvalore. Il piccolo borghese fa parte di quello strato che il marxismo ha chiamato delle mezze classi, che pencolano – a seconda delle modificazioni nei rapporti di forza fra proletariato e borghesia – verso una o l’altra classe sociale principale. Il dialogo, la mediazione, la concertazione, la collaborazione sono tutte attitudini necessarie alle mezze classi che, in quanto tali, vivono grazie alla ripartizione del plusvalore estorto al proletariato e nello stesso tempo sotto la protezione delle leggi borghesi che difendono la proprietà privata e l’appropriazione privata. Il pacifismo è dunque il logico e naturale ideale per le mezze classi, poiché essendo anch’esse al servizio del capitale e delle sue esigenze di sopravvivenza ma nella condizione di poche riserve e minuscole proprietà, credono di poter ottenere maggiori vantaggi e maggiori garanzie in una situazione di pace sociale piuttosto che in una situazione di guerra nella quale il pericolo di perdere per sempre le poche riserve e le minuscole proprietà è molto alto. Il pacifismo piccolo borghese e laico si lega molto bene con il pacifismo religioso, in quanto l’ideale comune è che una forza al di sopra delle parti (per gli uni lo Stato, per gli altri Dio) se invocata nei modi adeguati può intervenire per impedire la guerra o fermarne il corso. L’illusione che esista una forza al di sopra delle classi, neutra, e per di più così potente da fermare le forze sociali che si scontrano militarmente facendole regredire nei propri alvei originali, è particolarmente legata all’illusione democratica secondo la quale sono le coscienze degli individui che muovono il mondo. Ma il pacifismo, come del resto la democrazia, si è sempre arreso, alla fin fine, alla forza, trasformandosi di volta in volta in indifferentismo o in interventismo. Altra cosa è la prospettiva di pace che alberga negli ideali della maggioranza delle popolazioni. La solidarietà, l’aiuto, la protezione verso i più deboli, caratteristiche di ogni mammifero, fanno parte anche del dna del mammifero-uomo. Ma la società umana, sviluppatasi in grandi gruppi organizzati in società divise in classi sociali, ha ridotto le caratteristiche di solidarietà e di comunanza ad accessori di una vita sociale improntata esclusivamente alla difesa di privilegi, di garanzie, di proprietà. Bisognerà rompere definitivamente con la divisione della società in classi contrapposte perché le caratteristiche della società di specie liberino finalmente tutto il loro potenziale di armoniosa vita sociale.

 

17.--La guerra imperialistica, aldilà delle giustificazioni con cui viene rivestita e che – come la nostra corrente politica ha previsto fin dalla fine della guerra del 1939-45 – spinge le borghesie più forti a propagandarla con argomenti dell’antidittatura, dell’antitotalitarismo, svela in realtà tutto il contenuto della dittatura del capitale sulla società, della dittatura dell’imperialismo su ogni potere borghese anche il più democratico; svela il totalitarismo delle leggi del capitale e del suo modo di produzione e riproduzione non solo sull’economia in generale ma sull’intera società, nonostante tutti i tentativi propagandistici della borghesia di coprire questa cruda realtà con le illusorie argomentazioni sulla eguaglianza degli uomini, sull’eguaglianza dei diritti, sul fondamento democratico dello Stato moderno. Per quanto intelligenti siano le moderne bombe americane che dovrebbero colpire chirurgicamente l’obiettivo prescelto, «solo» obiettivi militari, esse hanno provocato e provocano sempre migliaia di morti fra la popolazione civile: molto «democraticamente» colpiscono tutti gli individui che incontrano nel loro impatto, tutti egualmente morituri. Le stragi di civili hanno sempre fatto parte della guerra: civili o militari, se collocati nel campo avverso sono sempre nemici e vanno distrutti; è una vecchia strategia militare quella di fiaccare la tenuta e lo spirito combattivo delle truppe colpendo i civili alle loro spalle, le loro famiglie, i loro figli. Questo metodo, che la propaganda della moderna borghesia democratica ha sempre fatto passare come appartenente solo alla barbarie medievale o schiavista, è in realtà assurto all’ennesima potenza proprio sotto i regimi borghesi che, utilizzando nella guerra tutta la capacità distruttiva che la moderna industria capitalistica è in grado di sfornare, non si sono mai fatti scrupolo di usare i massacri di civili e di popolazioni inermi pur di vincere la guerra. E gli esempi non si fermano a Dresda, a Hiroshima o Nagasaki. Che cosa c’è di più totalitario del bombardamento delle città? Che cosa c’è di più dittatoriale dell’ordine di fare fuoco? La propaganda borghese dell’antitotalitarismo, di fronte alla massiccia e cieca distruzione di beni e di uomini che provocano i bombardamenti, può solo ripiegare sul cordoglio per l’avvenuto… «incidente», mostrando la sua reale incapacità di spiegare e giustificare la propria guerra; a meno di addossare la «colpa» dei bombardamenti al nemico che non si vuole arrendere incondizionatamente. Da qualsiasi lato la si voglia guardare, la giustificazione antitotalitaria della guerra non regge. Regge, invece, con più coerenza, la giustificazione contraria: la dichiarata dittatura imperialistica – come a suo tempo il fascismo e il nazismo – liberatasi dei vincoli propagandistici e istituzionali della democrazia, si propone apertamente per quello che è: dittatura, appunto, coercizione, negazione delle libertà individuali, concentrazione di tutti i poteri nelle poche mani borghesi, propensione all’esercizio aperto e dichiarato di ogni forma di violenza di cui lo Stato dispone, aperta accettazione della lotta di concorrenza sul mercato mondiale fino alla guerra guerreggiata. La politica della borghesia fascista differisce dalla politica della borghesia democratica solo nel metodo di governo, non negli obiettivi perseguiti che sono sempre la difesa dei privilegi sociali delle classi dominanti e la sottomissione forzata delle classi proletarie. Dal punto di vista proletario, dal punto di vista della lotta di classe, l’aperta dittatura capitalistica e imperialistica ha il vantaggio di scoprire il vero volto del capitalismo e delle classi dominanti, avendo provveduto da se stessa ad eliminare il castello di ipocriti istituti democratici. Va però collocato storicamente il passaggio da parte borghese dal metodo democratico al metodo fascista di governo. Il metodo democratico è quello che più di ogni altro garantisce alla classe dominante borghese la pace sociale, la collaborazione delle organizzazioni di massa del proletariato, la sottomissione volontaria del proletariato alle esigenze del capitale e della borghesia dominante (vedi Lenin, Stato e rivoluzione). Il metodo fascista è quello che la borghesia dominante adotta in una situazione storica in cui il metodo democratico non riesce a piegare le masse proletarie alle esigenze del capitale deviandole dallo sviluppo del movimento di classe verso la sua trasformazione in movimento rivoluzionario; gli esempi storici (in Italia, in Germania) dimostrano che il metodo fascista è stato adottato dalla borghesia dominante a fronte di un proletariato sfiancato sì dalla democrazia borghese ma non vinto e ancora potenzialmente rivoluzionario, perciò pericoloso per i poteri borghesi. Ma con la seconda guerra imperialistica mondiale, aldilà della propaganda che inebriò di osanna le grandi masse per la vittoria della democrazia sul fascismo, la vittoria del raggruppamento più potente di Stati imperialisti aprì la strada ad una sempre più diffusa fascistizzazione della società (ed è ciò che la nostra corrente politica ha fin da allora sostenuto); da allora le democrazie si blindarono sempre più, si armarono sempre più, pronte a gestire il potere con metodi sostanzialmente fascisti (concentrazione in poche mani e nello Stato del potere economico e politico, collaborazionismo interclassista al massimo livello, poteri decisionali al di fuori dei parlamenti, sostegno diplomatico e armato degli interessi del proprio capitalismo nazionale sul mercato mondiale, ecc.) ma ricoperti da spesse mani di vernice democratica. Il parlamentarismo, l’elettoralismo, tornarono a svolgere la funzione del rincretinimento organizzato dei crani, influenzando il proletariato a tal punto (in forza della presa che l’opportunismo stalinista prima, e post-stalinista poi , garantiva sulle masse proletarie) da farlo trasmigrare dalla partecipazione e dalla complicità di classe nella guerra imperialistica alla collaborazione attiva nella ricostruzione postbellica. L’abisso interclassista in cui è sprofondato il proletariato mondiale è particolarmente profondo, e ciò spiega l’immane fatica che i proletari fanno nel riconoscere il terreno della lotta di classe come il proprio terreno di lotta. Ma la storia della società divisa in classi è fatta di antagonismi di classe, di contrasti insanabili, di scontri ad ogni livello. La forza, la violenza, la dittatura sono stati fattori di storia per tutte le classi rivoluzionarie del passato. Lo saranno tanto più per la classe rivoluzionaria della società moderna, il proletariato, che verrà spinto inesorabilmente sul proscenio della lotta di classe per la vita o per la morte, con una differenza sostanziale da tutte le classi rivoluzionarie precedenti: il proletariato sarà l’ultima classe sociale che storicamente ha la necessità di utilizzare la forza, la violenza, la dittatura per aprire al genere umano la strada verso la fine definitiva di ogni divisione di classe, di ogni antagonismo di classe, di ogni lotta di concorrenza, di ogni guerra. Con la vittoria definitiva della rivoluzione proletaria, e quindi con la trasformazione della società attuale in società comunista, in società di specie, scomparirà ogni materiale fattore di contrasto fra gli uomini, ogni anche larvato sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

 

 

Partito comunista internazionale

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