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Tesi e testi della Sinistra comunista - Secondo dopoguerra -1945-1955

2. Tracciato d'impostazione (1946)


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Le questioni di tattica per noi e per i bolscevichi

 

 

Messe dunque in ordine e definite le “categorie” di cui sulla guida del passo di Lenin abbiamo parlato (Teoria - Princìpi - Fine - Programma) possiamo circoscrivere bene e definire l’ultima: la Tattica. Sarebbe insufficiente fare tra le altre categorie e questa importantissima e delicatissima la distinzione formale: la teoria, il fine, i princìpi, il programma del partito sono “obbligatori” per tutti gli iscritti e tutte le sezioni dell’Internazionale: le direttive tattiche invece sono “facoltative”, ossia su di esse ognuno può pensare e proporre secondo varie soluzioni. Se commettessimo un tale errore di semplicismo, scivoleremmo nella falsa impostazione di quella che potrebbe essere un’altra delle categorie fondamentali del partito comunista internazionale: l’Organizzazione.

Nel marxismo come nel leninismo (che sono una cosa sola), ed in quanto in modo basilare e vitale tale dottrina storica si contrappone all’opportunismo piccolo borghese, ossia anarchico-immediatista e revisionista-socialdemocratico, fondamenti della struttura organizzativa del partito comunista sono la disciplina e la centralizzazione. Queste condizioni si risolvono nella unità di azione, senza la quale per noi deterministi perderebbe ogni senso l’unità di ideologia e di pensiero. Il partito è quell’organismo nel seno del quale non agisce la libertà di opinione e di condotta. Tale libertà soggettiva e personale contraddice al nostro fine storico, ossia non si contiene nella società comunista, in cui il problema di svincolarsi dalla necessità si pone per la prima volta nella storia in quanto non ha più a soggetto l’uomo-persona, ma l’uomo-specie. Non solo quindi nelle scelte tattiche non è libero ogni militante, ma nemmeno lo è ogni sezione locale rispetto al partito nazionale, e ogni partito rispetto all’Internazionale.

È perciò che anche le questioni tattiche non sono risolte localmente (individualmente, la cosa non è nemmeno pensabile) e neppure nazionalmente: la loro soluzione deve venire (anche nei casi in cui non fosse uniforme per tutta l’Internazionale) sempre dal centro mondiale. L’inverso di tale posizione marxista è quello che si chiama, con termine sudicio, autonomismo. Secondo tale principio, ogni gruppo locale decide le sue mosse e le attua, gode dello stesso privilegio ad esempio il gruppo parlamentare; e ne dovrebbe godere ogni partito nell’Internazionale. È la degna versione della vile norma borghese che ogni paese decide i propri “affari interni” senza controllo d’oltre frontiera. Il socialismo vecchia maniera aveva il vano motto: I socialisti non fanno politica estera. Il comunismo rivoluzionario e genuinamente marxista-leninista, quello vero del 1919, disse: I comunisti non fanno politica interna!

Quindi la distinzione esatta non è che nella tattica “ognuno fa come vuole”. Per noi materialisti, la possibilità di muovere uniti nasce sul terreno dell’azione, passa solo dopo in quello delle opinioni. La distinzione invece è un’altra: sono questioni di tattica quelle che possono essere risolte in modo non unico, ma multiplo e almeno duplice, senza che sia infranto il legame diretto con la teoria, il fine, i princìpi, il programma del partito. Ma chi valuta la scelta e la attua è sempre il centro, ossia l’organo del partito che risponde alla più larga base territoriale (prima della rivincita dei carognoni, la base era tutto il pianeta) senza che per ora ci fermiamo a discutere di strutture organizzative, di poliarchie, di oligarchie, e peggio ancora dei moderni ignobili vertici.

Non diremo, dunque: Non può restare nel partito chi non ne condivide la dottrina i princìpi e il programma ma può restarvi chi non ne condivide la tattica. Messa la tesi in questa forma da codice personale, se ne concluderebbe che il partito ha una teoria, un fine, dei princìpi ed un programma, ma non ha una tattica e se la fabbrica secondo le opportunità, in modo che i singoli e i gruppi, mentre non possono fare come vogliono, debbano però essere predisposti a ricevere ed attuare nella loro azione qualunque tattica dal centro sia “disposta”. Questo varrebbe dire una cosa altrettanto insana quanto quella che la tattica è libera, ossia: la tattica è segreta. Speriamo che non si dica subito che stiamo esponendo la maniera di considerare le questioni tattiche propria appunto della sinistra, poniamo delle tesi di Roma del 1922, e quindi opposta a quella di Lenin. E lo mostreremo subito tornando un momento alla testè citata condizione ventunesima di ammissione: “Devono essere espulsi dal partito quei membri che respingono per principio le condizioni e le tesi dell’Internazionale Comunista”.

Dunque l’obbligatorietà - il termine non è da evitare in quanto lo abbiamo tante volte riportato da Lenin stesso - non si limita ai princìpi e al programma, ma si estende a tutte le tesi e le condizioni di ammissione stesse del 1920. Ora, in questi storici documenti vi sono indubbiamente enunciazioni fondamentali di dottrina, di principio e di programma, ma vi sono anche soluzioni, indicazioni e normative di vera e propria tattica. L’operazione storica che si svolse dal famigerato 1914 al 1919 e 1920 con la costituzione della Terza Internazionale fu un’operazione squisitamente pratica e che i nostri cordiali nemici ordinovisti chiamerebbero concreta: tagliare nel vivo della vecchia Internazionale fallita e delle sue sezioni e trarne la nuova formazione rivoluzionaria. Un tale grandioso processo storico non poteva essere lasciato alle iniziative e al capricci locali, e peggio “autonomi”, ma andava diretto con norme generali, europee e mondiali, alle quali, sebbene transitorie nel tempo e legate allo svolto di quegli anni, andava prescritta la stessa obbedienza che alle tavole teoriche del partito enunciate nel 1847 e valide come tali oggi ancora.

Fu per questo che, fra gli stridi velenosi dei traditori, Mosca, ossia il proletariato mondiale rivoluzionario, ordinò in profili rigorosi non solo la teoria ed i princìpi ma anche la grandiosa manovra di selezione che si svolgeva in tutti i paesi e contro tutte le bande dei traditori opportunisti; e le torbide eccezioni sollevate da ogni angolo sotto il solito specioso pretesto di aspetti particolari, di condizioni specifiche ed originali di questo o di quel paese, vennero stroncate senza esitazioni e con un metodo unico e centralmente dettato.

L’argomento è troppo vitale perché non vi dedichiamo almeno poche righe, anche se dovremo riprenderlo sotto un altro profilo nel capitolo che segue. Eccone un rapido tracciato: Gli Statuti adottati al II Congresso riconfermano le posizioni di principio, dettando nello stesso tempo le norme di azione e di organizzazione. Carattere insieme di principio e di tattica, oltre che di organizzazione, hanno le Condizioni di ammissione, alcune delle quali precisano e fissano l’attività da svolgere nei sindacati, nell’esercito, nelle colonie, ecc. e il lavoro illegale e clandestino. Le Tesi sui compiti fondamentali dell’IC e quelle sul Ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria completano la formulazione di punti generali di principio con una rassegna della situazione della lotta per la dittatura in tutto il mondo, specialmente in Europa, e con precise norme per l’azione nei principali paesi. Le Tesi sui sindacati e sui consigli di fabbrica sembrano di natura puramente “tattica” in quanto riguardano speciali settori dell’azione del partito; in realtà, sono tutte svolte col più stretto legame alle questioni di dottrina e di principio. Vi si formula l’obbligo per i comunisti di lavorare dovunque si trovino operai organizzati sul terreno economico, e vi si critica a fondo la visione immediatista e riformista di questi compiti. In una classica aggiunta di Lenin, che mai gli ordinovisti poterono digerire (par. II/5) si scrive che i consigli di azienda non possono in nessun caso sostituire non solo il partito, ma neppure i sindacati, e che nostro compito è di “sottoporre sindacati e consigli al partito comunista”.

Le Tesi sulla questione nazionale e coloniale, che suscitarono un fecondo dibattito di principio diretto contro elementi centristi, regolano una grandiosa questione storica: il tema, certo, è tattico, ma si vede ancora una volta come la tattica non stia da sé, bensì poggi sui princìpi. Il dibattito sulla questione del parlamentarismo portò a concludere che eravamo tutti sullo stesso terreno di principio, magnificamente svolto nelle Tesi relative e nella loro premessa: distruggere, sabotare il parlamento. Il problema se distruggerlo, oltre che dall’esterno, anche dall’interno, era tattico, e solo la storia doveva provare se era giusto adottare la norma del “parlamentarismo rivoluzionario” (Bukharin, comunque, non poté mostrarci, come gli chiedemmo allora e poi, un bilancio non fallimentare di quest’ultimo), o quella dell’astensionismo; ma, nell’un caso o nell’altro, la sua soluzione poggiava fermamente su punti dottrinari indiscussi e indiscutibili. Per le Tesi sulla questione agraria, vale quanto si è detto per quelle nazionali e coloniali: erano risoluzioni di diretto effetto pratico di azione, ma vi si arrivò attraverso un dibattito sui princìpi e in forza di essi.

Resta così ben chiaro che tutto questo insieme di norme, il cui rispetto fu prescritto come condizione di milizia nel movimento, tocca l’intera gamma degli argomenti in cui si plasma la vita del partito, dalla dottrina all’azione; e fissa la tattica del partito nell’epoca storica su di una linea che in tutti i luoghi e tutte le nazioni dev’essere rispettata. Queste decisioni ebbero il loro immediato riflesso sul processo di formazione dei partiti comunisti, e per suo mezzo sulla lotta del proletariato. Il bilancio che oggi se ne può fare potrà dire se la scelta nei vari casi fu la migliore, ma soprattutto non può escludere che la normativa tattica debba essere unitaria e costante nel partito rivoluzionario, e non essere cosa sottaciuta o negletta.

È quindi assodato 1) che, per Lenin come per noi, non si concepisce neppure tattica che non si leghi ai princìpi cosicché essi “formano tutt’uno” (scriveva “Il Soviet” del 4.I) nel senso che sono inseparabili; 2) che, d’altra parte, compito centrale del movimento comunista - che per lui come per noi era per definizione mondiale, e mondialmente unico -, non compito locale e periferico, è stabilirne le linee maestre. Se, in tale cornice (oggi certo intollerabile, perché troppo stretta, per i teorici del policentrismo), la manovra di Lenin seppe essere mirabilmente agile (soprattutto nel senso - che per noi, ripetiamo, era ed è il nocciolo vero della “questione tattica” - del giudizio sicuro, lucido e attento dei rapporti di forza), non lo fu mai in antitesi, in dispregio e anche solo a detrimento dei princìpi.

Se divergenza ci fu coi bolscevichi - e non saremo noi a negarne l’esistenza - essa non riguarda né poteva riguardare il necessario e strettissimo collegamento fra termini diversi come i princìpi e la tattica; gli è - e fu una disgrazia che i bolscevichi non capissero la nostra insistenza su tale punto - che la questione non poteva considerarsi risolta né nell’immediato, cioè nei confronti di partiti nati immaturi o appena appena nascenti, né a lunga scadenza, con l’affidarsi all’indiscussa e sovrana maestria di un capo (o di uno stato maggiore formatosi alla sua scuola) nel tener fisso l’occhio alla bussola dei princìpi pur navigando nel difficile mare della contingenza e nel riconoscere nelle svolte turbinose di questa, nel cosiddetto “imponderabile”, il filo di situazioni sicuramente previste e dei mezzi non meno sicuramente previsti per fronteggiarle. La questione della tattica, cioè appunto del muoversi sul piano locale e temporale in armonia con l’impostazione strategica generale della battaglia, quindi dei suoi obiettivi, servendosi di mezzi che per quanto variabili non siano mai incompatibili col risultato da conseguire, è certo la più ardua per il partito della rivoluzione comunista; ma lo è e lo sarà tanto più in quanto la si lasci aperta, il che significa affidarne la soluzione a comandanti e sottocomandanti che si suppongono premuniti contro la caduta in gravi deviazioni da uno speciale addestramento... ginnastico. L’impiego dei termini militari come appunto strategia e tattica non deve indurre in errore: il partito non è un esercito di cui si possano muovere a piacere i soldatini facendoli sparare cannoni che sono comunque, nei due campi avversi, gli stessi, come suppergiù lo è il terreno sul quale la manovra tattica si svolge; qui né le armi sono neutre, buone per l’un esercito come per l’altro, e tali che il loro maneggio non influisca su chi le usa, né è indifferente il terreno sul quale si tratta - e tanto basta - di vincere una battaglia; al contrario, “l’esercito” deve qui operare con armi proprie, o finirà, magari vincendo, per aver... cambiato bandiera, cioè dottrina, fini, princìpi, e deve poter scegliere il terreno adatto non solo per battere fisicamente l’avversario, cosa che è solo una parte della vittoria finale, ma per batterlo in un certo modo piuttosto che in altri, e soprattutto per uscire dallo scontro eguale a se stesso, anzi rafforzato, nel possesso della sua armatura teorica, programmatica ed organizzativa, e di un’influenza reale su tutti gli altri fattori in gioco: parti esitanti della stessa classe operaia, frammenti di altre classi e semiclassi, settori “neutri” della complessa realtà politica e sociale ecc. Noi ignoravamo così poco l’incidenza di tutte queste variabili, che ne tentammo una sistemazione organica nelle Tesi di Roma del 1922, preoccupandoci soprattutto - a dimostrazione anticipata che non eravamo e non siamo i teorici né della impazienza né della offensiva ad ogni costo - di situazioni di faticosa preparazione all’attacco, invece di quelle, relativamente facili, di attacco ormai scatenato; e da allora nulla ci ha mai potuti convincere (tutto, semmai, ci ha confermati, alla prova dei troppo celebri fatti, nella convinzione contraria) che una sistemazione dei problemi tattici fosse impossibile o andasse a detrimento della necessaria prontezza, rapidità e perfino agilità di manovra; che un partito per definizione chiuso nella teoria, nei fini, nei princìpi, dovesse o potesse invece essere aperto nella loro applicazione pratica - e aperto fino al limite, non certo protetto da misure organizzative come la più tarda e sciagurata “bolscevizzazione”, della indifferenza.

Noi - tanto per fare degli esempi “concreti” - eravamo e siamo così poco amanti dei “salti nel buio”, dei putsch a giusta ragione paventati da Lenin per i giovani ed inesperti partiti dell’Occidente, che, in risposta a coloro i quali traevano pretesto dalla precipitosa ritirata del KPD, dopo l’avventura di Kapp, per esaltare la cautela del PSI “nel non accedere alle impazienze che potrebbero far precipitare l’azione in un movimento prematuro destinato all’insuccesso e a consolidare per conseguenza le forze della conservazione borghese”, scrivevamo: “Noi non abbiamo alcuna fretta né alcuna impazienza, giacché sappiamo che nessuna rivoluzione è stata fatta né sarà mai fatta dalla volontà di uomini o di gruppi”, ma aggiungevamo che questa certezza ci imponeva con urgenza un compito attivo: quello di preparare l’organo-guida della rivoluzione, il partito, ed armarlo di tutte le sue risorse ideali e materiali (1). Eravamo e siamo così poco fanatici della “torre d’avorio”, che potevamo sottoscrivere il riconoscimento da parte del partito tedesco della mancanza della “necessaria premessa” alla dittatura proletaria nel 1920 avanzato: la premessa cioè di “un forte partito comunista, sostenuto dalla coscienza rivoluzionaria della popolazione lavoratrice”, senza sbandare però nel senso della “leale opposizione” ad un “governo operaio”(vedi oltre): e del resto, perché saremmo stati proprio noi, un anno dopo, senza aspettare l’imbeccata di Mosca, a batterci per il fronte unico sindacale in Italia? Eravamo così estranei allo sciocco dispregio dei mezzi legali di azione eventualmente “offerti” dall’avversario, non per suo diletto e piacere ma per necessità, che, nel respingere la partecipazione alle elezioni e al parlamento, chiedemmo che ci si avvalesse però di tutti i mezzi e le forme di propaganda consentiti, comizi elettorali in primis, per illustrare le ragioni e perorare l’efficacia politica dell’astensionismo, come d’altra parte eravamo tanto estranei al dilettantismo barricadiero del massimalismo o del falso comunismo di parlamentari convertiti sulla via di Mosca-Damasco, che, chiamati a dirigere il PCd’I nei primi due anni di vita, fummo gli unici, in Occidente, ad organizzare un apparato illegale a prova di bomba - e ce ne diede atto, fra i pochissimi elogi amministratici, la destra di Tasca e Graziadei, vestale dell’”agilità” da scimmiette in contrapposto alla nostra rigidità da elefanti (2). Il problema per noi era e resta quello di fissare un limite - e un partito internazionale deve saperlo segnare in modo netto - oltre il quale la manovra si converte da mezzo utile e indispensabile in mezzo inutile e dannoso, l’orrore del putschismo diventa, come nel KPD 1920, legalitarismo imbelle, il parlamentarismo rivoluzionario precipita come nel PCF in cretinismo parlamentare, la ricerca della necessaria influenza tra le masse diventa codismo, e viceversa la giusta consapevolezza della propria natura di partito di attacco, e di attacco permanente, alla società borghese diventa garibaldinismo idiota, rifiuto perfino della battuta d’arresto, non diciamo poi della ritirata, strategica o tattica che sia, come nel KPD 1921; il limite oltre il quale, insomma, si espone il movimento alla rovina. Nella guerra militare e civile si “rischia”, certo, ma non come al gioco d’azzardo: la scienza e l’arte della guerra consiste appunto nel sapere prima fin dove è lecito rischiare. Nell’esercito si può saperlo senza dirlo; non così nel partito politico rivoluzionario, nel quale non solo si deve sapere dov’è il limite, ma bisogna dire a tutti, chiaramente, dove l’organizzazione l’ha fissato.

Ed è vero che il II Congresso (ed altri successivi a maggior ragione, via via che prendeva piede la moda delle tattiche ondeggianti) munì l’Esecutivo mondiale di ferrei poteri d’intervento nel caso di sbandate o anche solo di autorizzazioni ad allentare i lacci delle clausole, tanto “rigide” da suscitare gli strilli indignati di mezzo mondo socialista (anche se, per forza di dialettica materialistica, troppo “molli” per noi), delle “condizioni” di ammissione. Ma con questo il problema non era chiuso: il centro dirigente non è al riparo da deviazioni più che non lo sia la “base”, o lo è alla sola condizione di essere a sua volta vincolato da una normativa superiore, stabile e impersonale, la stessa che tutto il partito riconosce e rispetto alla quale esistono funzioni e quindi autorità diverse all’”alto” e al “basso” della piramide, proprio perché non v’è diversità di movimento fra l’uno e l’altro, non v’è per nessuno l’accidente del caso, dell’imprevisto o, se si vuole (tanto per fare una concessione del tutto esteriore ai sempiterni timorosi della prevaricazione dei capi), dell’arbitrio.

Fissare il limite tattico è codificare non tanto quello che si deve fare, quanto quello che non si può fare senza recare grave pregiudizio alla compattezza e omogeneità dottrinale, programmatica e organizzativa di quella milizia che è il partito, chiunque lo diriga, qualunque maestro di teoria e di azione la storia generi dal suo seno come accade - si disse di Lenin - solo “ogni cent’anni”. Di questa compattezza e omogeneità, il centralismo - se occorre, nelle mani di uno solo - è condizione necessaria ma non sufficiente; e a questa insufficienza non è mai un rimedio la famosa “consultazione”; lo è solo il possesso, comune a centro e base, di un metro di orientamento unico, che il primo è tenuto ad applicare e la seconda non ha ragione di respingere - se lo respingesse, si metterebbe fuori dall’organizzazione - perché l’ha accettato e lo riconosce come proprio; nel che è anche il motivo della nostra critica al “centralismo democratico” e della nostra invocazione di un “centralismo organico”.

Se ne vuole la conferma pratica? Nel 1920, i nostri dubbi potevano legittimamente essere posti a tacere di fronte alla “garanzia” di uno stato maggiore efficiente per provata esperienza come quello bolscevico: se noi li ripetemmo (e ci rammaricammo di passare per... uccelli del malaugurio) è perché avevamo fissi gli occhi, da buoni materialisti dialettici, alle eventualità non del “presente” ma dell’”avvenire”, nel cui grembo è riposta, accanto alla vittoria, anche la sconfitta e con essa lo stritolamento o, che è peggio, lo sbandamento degli stati maggiori; e ricordammo che perfino in campo militare la morte o lo sfacelo di questi non è un dramma, disfatta contingente a parte, se e fino a quando sussistono le forze molto più grandi, decisive ed imperiose che fanno il nerbo di uno stato, per non parlar di una nazione. E l’avvenire che cosa ci ha detto, se non che, nel giro di pochi anni, sull’onda delle tattiche disancorate il partito della rivoluzione non solo cambiò volto (che potrebb’essere stato il prodotto, come fu in gran parte, di circostanze obiettive), ma nella dégringolade non si lasciò dietro neppure un brandello di gomena per la risalita dalla china almeno di un’esile pattuglia di militanti della vecchia o della giovane guardia? È così che si pagava lo scotto di una “elasticità” troppo facilmente scambiata per “libertà tattica”!

Si tratta di questioni e discussioni di natura eminentemente pratica, fondate su precise previsioni degli effetti nelle diverse ipotesi di applicazione: oggi non è difficile verificare a quali risultati abbia condotto l’esperienza degli eventi. Si sono sperimentate, l’una dopo l’altra, le tattiche che noi non volevamo: è stato tolto ogni limite, non solo il nostro, e l’effetto è la rovina del movimento, l’abbandono della sua stessa teoria, la distorsione del suo fine, lo sfiguramento del suo programma, l’abiura dei suoi princìpi. Occorre altro per stabilire che la “libertà tattica” è madre, necessariamente, della libertà tout court; quella “libertà” di non essere più vincolati da nulla contro la quale fin dalle prime pagine del Che fare? si scaglia Lenin? L’avevamo preannunciato nel capitolo di apertura; l’abbiamo ripetuto ora che abbiamo potuto dimostrare, testi alla mano, come ai nostri occhi l’esito fosse scontato. E non dice nulla il fatto che coloro i quali, Maddalene pentite, aderirono a Livorno non avendo ancora assimilato la teoria, i princìpi, i fini, i programmi dell’internazionale nei suoi giorni di indimenticabile splendore, e subendone come folgorati l’inesorabile guida, siano poi venuti in avanscena, esecutori finalmente convinti per avervi ritrovato se stessi, quando Mosca liquidò senza volerlo né saperlo gli uni e gli altri e gli altri ancora in nome di un empirismo tattico senza più confini, acquistando, come si è detto di Gramsci e Togliatti, “statura internazionale” nella stessa misura in cui il Comintern l’andava perdendo?

Vogliamo concludere con una frase lapidaria nascosta nelle pieghe dello stesso Che fare? di Lenin? Nella sua battaglia in difesa del “dogmatismo” contro la “libertà di critica”, si incastona come un gioiello il teorema formulato nel nr. 4 dell’Iskra: “Quel piano sistematico di azione, illuminato da princìpi fermi e rigorosamente applicato, che è l’unico che meriti il nome di tattica (3). La tattica un “piano sistematico” che tragga lumi da “princìpi fermi” e sia applicato con rigore? Addio allora “libertà di movimento”! Certo.

Appunto questo volevasi dimostrare...

 


 

(1) Nota su L’atteggiamento dei comunisti tedeschi ne “Il Soviet” del 16.V.1920 in risposta al “Corriere Biellese”. Si vedano anche le Tesi della Frazione.

(2) Schema di tesi della minoranza del CC del P.C.d’I in vista della Conferenza nazionale di Como, in “Lo Stato operaio”, II, n. 6 del 15.V.1924, punto 30. Con la scimmietta e l’elefante, Bukharin soleva raffigurare nei suoi schizzi durante le riunioni dell’Esecutivo dell’Internazionale la posizione di Graziadei, ritenuta almeno in questo la più “bolscevica”, da un lato, e quella di Bordiga e della Sinistra “italiana” dall’altro.

(3) Che fare? Editori Riuniti, Roma 1972, pag. 81.

 

 

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