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Tesi e testi della Sinistra comunista - Secondo dopoguerra -1945-1955

11. Contributi alla organica ripresentazione storica della teoria rivoluzionaria marxista (1951-1952)


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Premessa

 

 

Tutto il lavoro fatto da Amadeo Bordiga e dai compagni che lo affiancarono negli incontri e nelle riunioni di lavoro nei 25 anni del secondo dopoguerra, nella convinzione di doversi mettere nelle condizioni materiali di ritracciare i collegamenti con l'incontaminata teoria marxista e con le esperienze storiche del movimento proletario internazionale e con il movimento comunista in particolare, al fine di restaurare la dottrina marxista e di tirare il bilancio dinamico della controrivoluzione che prese la particolare fisionomia dello stalinismo, non poteva diventare così basilare e vitale se non si fosse caratterizzato da due elementi fondamentali: la volontà militante di svolgerlo nonostante le estreme difficoltà determinate dalla devastazione controrivoluzionaria operata su tutti i piani – economico, politico, sociale, militare, ideologico, intellettuale, propagandistico – dalla borghesia internazionale nella preparazione e nella conduzione e nella conclusione della sua seconda guerra imperialista mondiale avviando nel secondo dopoguerra una nuova fase di espansione capitalistica e imperialistica mondiale, e nonostante la confusione e l'isolamento in cui erano precipitate le poche forze rivoluzionarie cha avevano resistito allo tsunami stalinista; e la tenace determinazione nel riconquistare il patrimonio teorico, programmatico, politico, tattico e organizzativo che le migliori e più coerenti forze del comunismo rivoluzionario – Lenin e la corrente della Sinistra comunista d'Italia – avevano prodotto nell'esperienza storica del movimento proletario comunista fino alla debacle del 1926 con l'ufficializzata teoria della «costruzione del socialismo in un solo paese» che l'ingenuo Bucharin offrì su un piatto d'argento a Stalin.

Nel 1951-52, dopo cinque anni di lavoro nella formulazione di strumenti critici e di battaglia atti a dare, all'organizzazione militante che si chiamò «partito comunista internazionalista», le basi di alta continuità, coerenza e rigore teorico su cui proseguire nell'impegnativo compito di restaurazione del marxismo e di fare in modo che il partito formale meritasse, in futuro, di essere all'altezza del partito storico, si dovette reagire con decisione al praticismo, certamente generoso, ma senza troppi scrupoli dottrinali con cui già durante la guerra, ma soprattutto nel quinquennio postbellico, i gruppi di formazione non omogenea che si richiamavano genericamente alla Sinistra comunista «italiana», si erano tuffati con risolutezza e vivacità nel vivo dell'azione, quasi assumendo che la controrivoluzione mondiale fosse stata una specie di distrazione della storia e che bastasse girarne la pagina sanguinosa per riprendere pari pari il cammino al punto di sospensione. Si riconobbe che l'organica ripresentazione della comune unitaria monolitica costante dottrina di partito, traendo dalla lezione della controrivoluzione la conferma della sua integralità ed invarianza, e ponendola, in questa integralità ed invarianza fermamente ristabilite, alla base della mai rinnegata azione – per limitato che fosse il suo raggio d'azione quanto a propaganda, proselitismo, intervento nelle lotte economiche ecc. – fosse l'esigenza più urgente ai fini di un'ulteriore, non fittiza ed illusoria, risalita dall'abisso della fase di depressione massima della curva del potenziale rivoluzionario, fase priva di vicine prospettive di un grande sommovimento sociale in cui ci si muoveva.

L'aggettivo internazionalista, apposto all'organizzazione «partito comunista», non voleva essere soltanto un punto di distinzione teorico e politico dai partiti nazionalcomunisti; era ancheil riconoscimento di tendere ad estendere l'organizzazione nata in Italia agli altri paesi.

Si trattava, in pratica, di contrapporre – a costo di dolorose amputazioni, come avvenne – il riconoscimento che la controrivoluzione staliniana, la più radicale e devastatrice della storia del movimento operaio, non ha solo spezzato fisicamente il filo storico di questo movimento, distruggendone la tradizione classista e rivoluzionaria, ma ne ha - e non poteva non farlo - distrutto e deformato le basi dottrinali e programmatiche, e coinvolto nella generale confusione anche i pochi elementi di avanguardia salvatisi dal massacro materiale e politico, rendendo tanto più urgente la rimessa in piedi, con pazienza, dell'intero patrimonio teorico del marxismo, conditio sine qua non di un'azione non disorganica, non immediatista e quindi non fluttuante del nucleo di partito che rappresentavamo, e che rappresentiamo tuttora, forzatamente ridottissimo.

Combattere l'immediatismo, l'attivismo, per una prassi fuori da sbandamenti, oscillazioni o anche solo meccaniche ripetizioni di formule e parole d'ordine tanto corrette in fasi ardenti come quelle del primo dopoguerra, quanto insufficienti o addirittura negative in una fase di rabbiosa controrivoluzione e di profonda atonia della lotta classista proletaria. L'impegno, dunque, doveva essere, per la grandissima parte, nell'opera di restaurazione integrale della teoria e su di essa poggiare saldamente la prassi.

Questo lavoro non si svolgeva – e non si msvolge nemmeno oggi – sullo sfondo di un movimento reale cui appoggiarsi e dal quale attingere vigore, come era accaduto a Lenin e ai bolscevichi  a cavallo tra il primo conflitto mondiale imperialistico e il suo dopoguerra. Come tutti i periodi successivi a brucianti sconfitte, il secondo periodo postbellico – se affrontato con coraggio nella sua realtà di cataclisma immane e, come tale, ad effetti lunghi e difficili da riassorbire – offriva tuttavia all'avanguardia comunista il punto di vantaggio di un bilancio materiale da cui trarre non solo la conferma, ma la possibilità di una più completa e intransigente formulazione delle classiche tesi marxiste in tutti i campi, nella stessa misura in cui la controrivoluzione all'insegna del «socialismo in un solo paese» si era potuta affermare con tale potenza distruttiva alla sola condizione di distruggere, insieme al partito della rivoluzione proletaria mondiale, l'intero arsenale delle sue armi critiche e di battaglia, dalla teoria a quelle della tattica e dell'organizzazione.  

Questo punto di vantaggio si sarebbe irrimwediabilmente perduto qualora si fosse sacrificato ad un'azione purchessia il compito primordiale della «ripresentazione della visione integrale della storia e del suo procedere, delle rivoluzioni che si sono succedute finora, dei caratteri di quella che si prepare e che vedrà il proletariato moderno rovesciare il capitalismo e attuare forme sociali nuove», o se si fosse atteso dai fatti nella capricciosa forma fenomenica della loro apparizione e successione un nuovo vero da sostituire anche solo parzialmente all'antico, per rimontare con esso la china di rapporti materiali di forza ferocemente negativi.

Non si trattava di rassegnarsi all'impossibilità attuale dell'azione di partito dei periodi di maturazione delle condizioni favorevoli alla lotta di classe e alla rivoluzione.

Prendere atto delle condizioni tragicamente sfavorevoli per la lotta di classe e rivoluzionaria non significava rinchiudersi in una «torre d'avorio» dedicandosi esclusivamente allo studio  del marxismo in attesa... di tempi migliori; significava, proprio grazie al bilancio dinamico delle controrivoluzioni, trarre tutte le lezioni da essa e preparare il partito non soltanto dal punto di vista teorico-programmatico, ma anche politico-tattico-organizzativo ad essere la guida del movimento proletario quando le condizioni generali si sarebbero presnetate favorevoli allo svolto storico rivoluzionario. Il marxismo, come ci dava gli strumenti per una valutazione corretta del periodo storico nel rapporto di forze tra le classi e tra gli Stati, così ci dava la certezza dello sbocco storico inevitabile della lotta di classe: la caduta del capitalismo a livello mondiale, attraverso l'abbattimento degli Stati che maggiormente lo difendono e lo conservano, da parte del movimento proletario rivoluzionario guidato internazionalmente dal suo partito di classe, come era nei propositi per nulla campati in aria dell'Internazionale Comunista di Lenin.

Per fare il corretto bilancio della rivoluzione e della controrivoluzione era necessario reimpossessarsi della teoria marxista attraverso un lavoro a carattere di partito, ossia di una compagine fisica di militanti spinti a trovare una omogeneità programmatica, politica e organizzativa che soltanto la restaurazione della teoria marxista poteva dare. Senza teoria rivoluzionaria – dunque senza la teoria marxista – non esiste movimento rivoluzionario del proletariato. Parole di Marx, di Engels, di Lenin, di Trotsky e di Bordiga. Ma ci permettiamo di allargare il concetto allo stesso partito di classe: Senza teoria marxista non c'è programma politico rivoluzionario del partito di classe, non c'è corretta valutazione delle situazioni e dei rapporti di forza fra le classi, non c'è omogeneità politica, non c'è organicità d'azione e di organizzazione: in pratica, non c'è partito comunista rivoluzionario.

E' con questo inquadramento generale che abbiamo ripreso a pubblicare in questa collana le Tesi e i testi della Sinistra comunista d'Italia nel secondo dopoguerra in fascicoli distinti. Ne sono usciti già 10 e continuiamo fino a coprire questa prima serie dedicata agli anni 1945-1955.

Questo fascicolo si occupa, in particolare, dell'inquadramento teorico-politico che si doveva riprendere negli anni 1951-52 viste le tendenze in parte centrifughe e in parte attivistico-immediatiste che stavano prendendo sempre più peso all'interno del partito. Sulla base dei testi e delle Tesi dovuti essenzialmente alla penna di Amadeo Bordiga, pur come risultato di riunioni tra alcuni compagni che abitualmente lavoravano al suo fianco, e che erano apparsi nella rivista «Prometeo» (con lo pseudonimo Alfa) e in «battaglia comunista» (del tutto anonimi) come serie «sul filo del tempo», le posizioni politiche e gli ostacoli pratici che nacquero soprattutto tra i compagni che faranno poi parte del gruppo guidato da Onorato Damen (pseudonimo Onorio), spinsero Bordiga, anche su sollecitazione da parte di molti compagni di partito, a partecipare più direttamente – sebbene non fu mai iscritto al partito di «battaglia comunista» tra il 1945 e il 1952 – alla vita politica e organizzativa del «partito comunista internazionale-battaglia comunista», attraverso le riunioni generali di partito (chiamate ancora con la vecchia denominazione «interfederali»), a cominciare dalla riunione di Roma dell'1 aprile 1951; da allora, Bordiga sarà presente sempre alle riunioni generali con i suoi contributi senza i quali il partito avrebbe avuto una vita politica in continua oscillazione, senza punti teorici, programmatici e politici saldamente definiti e invarianti a cui rifarsi in ogni frangente. Fa parte del bilancio, tratto già allora, anche la disamina non solo del principio democratico – già affrontato e risolto nel 1921-22 – ma anche del metodo democratico e dei criteri di democrazia organizzativa che il «partito comunista internazionalista-battaglia comunista» aveva ereditato dallo Statuto del Partito comunista d'Italia del 1921 e difeso come il metodo migliore in assoluto per dare al partito una omogeneità organizzativa e una unità d'azione basata sulla disciplina formale. E' noto che Amadeo Bordiga (che già nel 1922, nell'articolo Il principio democratico, aveva sollevato una critica al centralismo democratico utilizzato da tutti i partiti provenienti dai vecchi partiti socialisti e socialdemocratici e dall'Internazionale Comunista stessa), propose di abbandonare del tutto il metodo democratico anche nell'organizzazione interna del partito e privilegiare il metodo organico, molto più aderente alla lotta essenzialmente antidemocratica del partito comunista.

Bordiga riprenderà il concetto di centralismo organico nel lavoro di bilancio delle esperienze del movimento comunista internazionale nei gloriosi anni Venti, dimostrando che la democrazia borghese, cacciata dalla porta della teoria rivoluzionaria rientrava dalla finesta della prassi organizzativa con la quale si muoveva il partito di classe, sia sul terreno parlamentare sia que quello dell'organizzazione interna. Nessuna «maggioranza» uscita dalle periodiche votazioni nei congressi del partito – e dell'Internazionale Comunista – aveva garantito la tenuta teorico-programmatica del movimento comunista nel suo complesso, o il successo negli obiettivi proposti «a maggioranza» come nel caso del fronte unico politico, della fusione dei vecchi pezzi di «sinistra» dei partiti socialisti riformisti con i partiti comunisti appena formatisi ecc. La battaglia contro la democrazia borghese non poteva non esercitarsi anche nei criteri organizzativi del partito di classe poiché il suo programma politico, definito per tutto un periodo storico che copriva la distanza tra l'ormai definitivo dominio capitalistico sul mondo – perdipiù rafforzato dalla sua fase imperialistica – e la rivoluzione proletaria e comunista a livello internazionale, (programma che discende dalla stessa teoria invariante del marxismo), non poteva essere messo in discussione nei periodici congressi nazionali e internazionale del movimento comunista da tattiche che nella loro sostanza politica potevano andare contro la definizione teorica del cammino storico della rivoluzione. E questo era il motivo per il quale la Sinistra comunista d'Italia, sulla base di esperienze reali fatte in ambiente democratico di lunga data, come era all'epoca tutta l'Europa occidentale e il Nord America, insistette nell'Internazionale non solo perché si fissassero norme tattiche ben precise che tutti i partiti aderenti dovevano par proprie e darne attuazione, ma perché nell'Occidente capitalisticamente maturo dal punto di vista economico i partiti comunisti tagliassero verticalmente i ponti con le tradizioni elettorali e parlamentari di cui si facevano forti i partiti riformisti perché potevano ancora contare su una forte influenza negli strati proletari abituati da decenni a illudersi che i metodi democratici ed eletoralistici poetvano far loro ottenere risultati economici e sociali molto più ampi e duraturi di quanto non fosse possibile ottenere con le classiche lotte di difesa economica. Credere nella democrazia borghese voleva dire credere nelle leggi della democrazia borghese e credere che il parlamento fosse l'istituzione nella quale potevano essere discusse e approvate leggi a favore delle condizioni di esistenza e di lavoro delle masse proletarie senza dover necessariamente passare attraverso le lotte di strada.

La contraddizioone che esiteva tra la denuncia e la lotta contro la democrazia borghese e, di conseguenza, contro il parlamentarismo poteva e doveva essere risolta soktanto attraverso un differente rapporto di forze tra borghesia e proletariato, rapporto di forze che non era possibile conquistare nell'istituzione borghese del parlamento ma fuori di esso, fuori e contro di esso. Con la tattica del «parlamentarismo rivoluzionario», l'Internazionale, per bocca di Bucharin, di Lenin e di Trotsky – forti dell'esperienza della rivoluzione «doppia» attuata in Russia, e desiderosi di escogitare la tattica che facilitasse l'obiettivo di strappare gli strati proletari in Occidente ancora influenzati dal riformismo e dal parlamentarismo socialdemocratico, dimostrando la reale funzione anti-proletaria e controrivoluzionaria dell'attività parlamentare – credeva di accelerare il processo rivoluzionario innestato dalla rivoluzione d'Ottobre in Russia ed estesosi a tutta Europa e nel mondo. La diagnosi negativa che ne fece la Sinistra comunista d'Italia, si dimostrò, purtroppo, del tutto corretta: il parlamentarismo «rivoluzionario» si ridusse al classico e marcio parlamentarismo borghese, facilitando, al contrario, la riorganizzazione delle classi borghesi uscite indebolite dalla guerra mondiale e la disorganizzazione e divisione delle masse operaie.

A questo tema, che non trattiamo in questo fascicolo,  dedicheremo a suo tempo un fascicolo apposito.

Vogliamo inoltre collegare ai temi trattati in queste Riunioni del 1951, e alla situazione che si era creata all'interno del partito in quel periodo, una seconda Appendice riprendendo il contenuto di alcune lettere che si scambiarono Damen e Bordiga nel luglio 1951, nel periodo cioè tra la riunione di Roma dell'aprile e la Riunione di settembre a Napoli, nelle quali l'obiettivo era di combattere le concezioni del tutto sbagliate espresse da una parte di compagni, e sintetizzate da Damen, appunto in queste lettere. Non intendiamo dare a queste lettere alcun particolare valore se non quello di aver sollevato, come disse lo stesso Bordiga, la necessità di chiarire meglio alcuni aspetti della questione «russa» che, in realtà chiamavano in campo questioni teoriche di grande rilievo come la definizione esatta del capitalismo (dal punto di vista economico e sociale) e del socialismo, oltre alla tediosa questione organizzativa del congresso continuamente portata avanti da Damen e dal gruppo di compagni che lo seguiva, senza peraltro essere stati in grado di preparare alcuna tesi da «contrapporre» nel fatidico congresso a quelle a cui lavoravano da tempo Bordiga e i compagni che con lui collaboravano strettamente.

L'insistenza di Damen sulle posizioni sbagliate e sulla necessità di coinvolgere tutto il partito in un congresso in cui «mettere ai voti» le tesi e le elucubrazioni di tizio e di caio (già il congresso di Firenze del 1948, mettendo a confronto opinioni personali del compagno x o y, aveva mostrato la sua inconsistenza e il suo fallimento), porterà lui e il suo gruppo a staccarsi da un lavoro collettivo a cui i compagni erano chiamati per ristabilire i fondamenti del marxismo e ad azioni frazionistiche e contrarie a qualsiasi disciplina centralistica anche formale, da loro tanto esaltata (a ulteriore dimostrazione che il centralismo democratico, in quanto tale, non è in grado di risolvere dissensi o crisi che sorgono nel partito).

Il partito andrà comunque avanti per la strada intrapresa fin dalle tesi del 1945-46, tenendo conto che il numero di compagni poteva diminuire, anche drasticamente, nella misura in cui il virus della democrazia avrebbe continuato a sviluppare infezioni.

 

 

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