L’Italia in Iraq e il suo avventurismo militaresco

(«il comunista»; N° 90-91; Giugno 2004)

 

Che il governo italiano di Berlusconi, in politica estera, si comporti da servitore zelante dell’America di Bush è ormai un fatto assodato. La “furbizia” del centrodestra berlusconiano, secondo molti opinionisti, sarebbe composta da un misto di convinto schieramento guerrafondaio sulla sponda della Democrazia Occidentale (da difendere dagli attacchi di un «terrorismo internazionale» che si vuole soprattutto di matrice islamica), di convinta difesa della Civiltà Occidentale fatta di progresso tecnologico, sviluppo economico, finanziario e di cristianità, e di convenienza politica essendo gli Stati Uniti d’America, oggi, la sola e unica superpotenza mondiale in termini militari, economici, finanziari e, quindi, politici. Insomma, stare col più forte, dalla parte del probabile vincitore di ogni guerra, “preventiva” o meno che sia, come è abitudine storica della invertebrata borghesia italiana.

Non che il governo Craxi, all’epoca delle operazioni di polizia internazionale (dette “missioni di pace”) in Libano, o il governo D’Alema all’epoca della guerra in Kossovo – governi di centrosinistra – avessero un atteggiamento meno servile nei confronti di Washington; erano soltanto meno “dichiarati”, più contorti nelle argomentazioni dello stesso servilismo.

L’Italia, che per conformazione fisica e per posizione geografica assomiglia ad una enorme portaerei sul Mediterraneo, è borghesemente portata a fare commercio di ogni suo principio, ideale, costituzionale, morale, religioso, o politico che sia. Ha sempre bisogno di un Alleato molto più forte al quale appoggiarsi e verso il quale è sempre disposta a prostrarsi. Per tre quarti i suoi confini sono sul mare e questo ha facilitato anche nell’antichità le incursioni straniere, perciò è attaccabile da ogni lato: dal contrabbando, dai traffici clandestini di merci, denaro, armi e persone, o da nemici armati. Per una difesa più efficace, dal punto di vista militare, l’Italia dell’epoca imperiale romana, spostò i propri confini sulle terre conquistate nei Balcani, in Nordafrica, nel Vicino Oriente, nella penisola iberica, e a nord al di là delle Alpi, sebbene queste costituissero da sole, all’epoca, una notevole difesa naturale. Ma lo sviluppo economico dei paesi europei si spostò a nord, abbandonando in parte il Mediterraneo, proiettandosi verso l’Atlantico e le scoperte di nuove terre e di nuove ricchezze. Il grande potere unitario dell’antica Roma dovette lasciare il posto allo spezzettamento del vecchio impero e l’Italia sprofondò in una frastagliata suddivisione in tanti staterelli che condizionò storicamente lo stesso sviluppo delle nuove classi borghesi. Quando queste ultime cominciarono ad esistere come classi sociali ereditarono non tradizioni centraliste come in Inghilterra o in Francia, ma tradizioni comunaliste, molto legate alle famiglie, al campanile, al commercio. Nonostante l’abitudine della sua popolazione al mare, l’Italia non riuscì mai a formare una marina da guerra degna di competere con quella francese o inglese; e ciò è dovuto ad uno sviluppo economico e politico che non si concentrò in una grande monarchia e in un forte Stato unitario, uniche entità in grado di convogliare colossali investimenti ad esempio appunto sull’armamento. I fasti delle vecchie repubbliche marinare si persero nella notte dei tempi, mentre la marina da guerra delle nuove potenze atlantiche contribuì, poi, a spostare i confini dei paesi più forti e sviluppati in aree molto vaste del mondo: terre conquistate oltre gli Oceani, intere popolazioni decimate, sottomesse, schiavizzate, come all’epoca delle grandi monarchie di Spagna, d’Olanda, di Portogallo, di Francia e sopra tutti d’Inghilterra. Mentre le grandi monarchie centroeuropee di Prussia e di Austria-Ungheria si dividevano l’influenza economica e politica nell’Europa continentale, sbarrando il passo alle mire zariste e ottomane.

L’Italia, dalle sue guerre di indipendenza e dal suo osannato risorgimento non uscì se non con una monarchia, quella sabauda, che rappresentava un fragile castello di pennacchi sensibile di volta in volta agli interessi delle corti di Francia o di Vienna, di Londra, di Berlino o di San Pietroburgo. La borghesia italiana, da parte sua, non ebbe la capacità e la spinta storica di andare fino in fondo nel suo moto rivoluzionario, liberandosi definitivamente di sabaudi e borboni, limitandosi invece a ritagliarsi fette di potere economico sotto la protezione di una struttura statale monarchica sostenuta per convenienze di parte dalle monarchie europee più forti alle quali, di volta in volta, quella italiana mostrava di potersi affittare.

Ma classe borghese, anche se non particolarmente forte e concentrata, significa sempre capitalismo, e capitalismo significa proletariato; i borghesi, per sviluppare i propri profitti devono sviluppare capitalismo e perciò sono spinti inevitabilmente a trasformare i contadini in proletari, i piccoli e piccolissimi proprietari in lavoratori salariati, in senza riserve. Il proletariato che si forma in Italia, come in molti paesi che escono dalla società precapitalistica ed entrano violentemente nella società dominata dal capitale ma portandosi appresso pesanti residui della società precedente, si forma in buona parte non tagliando di netto il legame con la terra, con l’orto, e sotto una visione sostanzialmente campanilistica della propria vita e dei propri orizzonti, che è la visione borghese; è anche per questo che l’anarchismo – imperniato sull’individualismo e sulla mistica della volontà personale – attecchì molto bene nel Bel Paese. Ma le condizioni storiche di sviluppo del capitalismo in Europa, e le risorse naturali e di manodopera a disposizione, hanno fatto da base ad un progresso industriale grazie al quale si è formato un numeroso proletariato che si mise in movimento molto dopo di quello inglese e, soprattutto di quello francese, sul terreno dello scontro diretto con la classe dominante borghese, ma in contemporanea con i grandi movimenti del proletariato tedesco e del proletariato russo. La combinazione storica fu tale che, nonostante la fragilità statale della borghesia italiana, è proprio da questa borghesia che si generò il fenomeno del fascismo, ossia la spinta alla concentrazione maggiore in assoluto del potere economico e politico nazionale – passando senza tanti scrupoli sui principi di “libera concorrenza” e di democrazia parlamentare – fascismo che si rivelò la risposta borghese più efficace di fronte alla possibilità di successo del movimento proletario rivoluzionario. E’ certo, per noi, che un altro fattore sociale e politico giocò a favore della borghesia, il riformismo, ossia la politica di collaborazione di classe delle forze politiche socialiste con la quale il proletariato fu soggiogato alle illusioni democratiche, legalitarie e pacifiste perdendo di vista gli obiettivi e la preparazione della rivoluzione socialista, e sprecando le proprie energie e la propria forza sociale dietro obiettivi che si sono rivelati – come la Sinistra comunista denunciò con decisione fin dalla sua nascita – catastrofici per il proletariato ma molto proficui per gli interessi esclusivamente borghesi. La borghesia italiana vinse così due volte: la prima attraverso il riformismo socialdemocratico, la seconda con il fascismo.

Erano gli anni venti del secolo scorso, quando il movimento rivoluzionario del proletariato internazionale, che combatteva contro ogni borghesia e prima di tutto contro la borghesia del “proprio” paese, aveva già al proprio attivo la vittoria bolscevica in Russia; e la borghesia italiana aveva al proprio attivo il primo grande tradimento del nuovo secolo, quello verso Germania e Austria-Ungheria con cui si era unita nella Triplice Alleanza fin dal 1882. Un tradimento che si ripeterà nel 1943, voltando le spalle all’alleato tedesco quando le sorti della guerra fecero capire che la vittoria non sarebbe stata per le forze dell’Asse ma per quelle dell’Intesa.

Una borghesia, dunque, infingarda, inaffidabile, voltagabbana, quella italiana. Forse è a causa di questo retaggio che Berlusconi si sente in dovere di declamare ad ogni passo che l’Italia è l’alleato più fedele su cui l’America possa contare oggi? Certo che fino a quando l’imperialismo Usa dimostra di essere praticamente “inattaccabile” sia militarmente che economicamente, è difficile che un’Italietta qualsiasi si metta in testa di “cambiare” alleanza; per allearsi con chi?

A tutt’oggi non c’è ancora una Germania, un Giappone o una Russia in grado di ergersi contro gli Usa come polo alternativo di politica estera e di politica economica. E non c’è ancora una Cina capace di rappresentare un forte pilone di un’alleanza in funzione anti-americana. L’Unione Europea, a sua volta, dal 1° maggio di quest’anno passata a 25 membri, non ha alcuna possibilità di diventare un effettivo concorrente militare e politico degli Usa; non è, e non potrà mai diventarlo, un superstato, una specie di Stati Uniti d’Europa. La storia dello sviluppo capitalistico nega la possibilità che paesi anche strettamente e per lungo tempo alleati si trasformino, per semplice atto di volontà costituzionale, in un unico Stato sopranazionale.

 

L’interesse nazionale, perno della politica borghese

 

La concorrenza sul mercato mondiale fra aziende e fra capitalismi nazionali non si elimina per volontà del tal consesso di imprenditori o di governanti. Basta dare un’occhiata alle questioni legate all’agricoltura, alle quote latte, all’acciaio, per rendersi conto che sotto la coltre degli accordi, dei patti, dei trattati, covano continuamente, pronti ad esplodere, interessi nazionali contrastanti. La fusione fra aziende è il risultato di una guerra commerciale e finanziaria nella quale il capitale aziendale più forte ingoia i capitali aziendali più deboli; l’eventuale “fusione” di paesi distinti in un unico Stato è a sua volta il risultato di una guerra, quasi sempre guerreggiata, e solo raramente limitata al piano commerciale e finanziario (come nel caso dell’inglobamento della Germania Est da parte della Germania Ovest), salvo il fatto che le spinte centrifughe – naturali nel capitalismo e nel suo sviluppo, che contrastano le contemporanee spinte accentratrici – ripropongono di volta in volta la separazione di parti di paesi che guerre precedenti avevano unito (come nel caso di Croazia, Slovenia e Bosnia, o nel caso di Slovacchia e Cechia).

Gli è che gli Stati, e i relativi governi, cercano di pianificare le proprie mosse in funzione di interessi economici, politici e finanziari ben precisi e la cui durata è determinata in gran parte dalla lotta internazionale di concorrenza. In genere, le borghesie nazionali, o le fazioni borghesi più forti, sono mosse principalmente da interessi economici diretti: si tratti di fonti energetiche, risorse minerarie, risorse idriche, terreni agricoli, territori strategici, manodopera da sfruttare, porti o centri commerciali, la fame costante di profitto e la concorrenza sempre più spietata in campo internazionale spingono gruppi di interesse borghesi a muovere guerra ad altri gruppi di interesse borghesi.

L’ipocrisia congenita della classe dominante borghese è tale che ogni sua guerra ha bisogno di una giustificazione morale: un tempo la guerra borghese veniva dichiarata perché il tal paese veniva “aggredito” con le armi, dunque ogni contendente bellico aveva il “diritto” di difendersi dal paese che ”aggrediva”; mentre oggi, quando si pretende che non vi siano più veri “nemici” da combattere ma solo “terroristi”, la giustificazione è: “lotta contro il terrorismo internazionale”, “guerra umanitaria” (anche il linguaggio viene stravolto dall’interesse propagandistico dei guerrafondai borghesi: possono mai essere “umanitarie” le atrocità della guerra?), di più, “guerra preventiva”! Il concetto di aggredito e aggressore è stato superato; ora il probabile “aggredito” deve diventare , nei fatti, preventivamente, quindi certamente, “aggressore” (appunto per non essere domani…aggredito). Il diktat è sempre più evidente: il più forte non si limita a “mostrare i muscoli”, ma li usa e per il momento li usa contro “nemici” molto più deboli, come nel caso della Serbia, dell’Afghanistan e dell’Iraq; per non parlare della guerra permanente in Israele contro i palestinesi. E se la superpotenza imperialistica America dichiara al mondo che la sua guerra preventiva è un bene per l’umanità, un atto di liberazione dai pericoli di aggressione futura da parte di regimi e Stati che osano rifiutare oggi di piegarsi agli interessi americani, e se questa superpotenza chiede ai suoi alleati di schierare i loro soldati a fianco dei propri, o al posto dei propri, in azioni di guerra di questo tipo, ciò che resta da fare agli alleati è quel che i nostri superpresidentidelconsiglioitaliano hanno sempre detto: signorsì!, manderemo i “nostri” soldati dove ci direte, e là faranno il “loro” dovere a costo della vita per difendere i “vostri” interessi! E così sono partite le missioni militari in Libano, in Bosnia, in Kossovo, a Timor est, in Afghanistan, in Iraq. Ma dietro gli interessi “americani” ci sono sempre anche gli interessi dell’imperialismo nostrano che, per essere considerato e accettato a livello internazionale e per poter sedersi al tavolo della spartizione del bottino, deve fare la sua parte, ad esempio “togliere le castagne dal fuoco” per conto degli imperialismi più forti.

L’Italia, dunque, a sentire le parole dei nostri governanti, è un alleato affidabile e fedele dell’America. Non solo, è pure un paese debitore verso l’America per via della democrazia “restaurata” dopo la caduta del fascismo. Certo che senza l’invasione delle truppe angloamericane nel 1944-45 l’Italia non si sarebbe liberata dall’invasione delle truppe tedesche… Dal che si potrebbe dedurre che la democrazia, se non c’è già, la si può importare, o imporre, attraverso un mezzo molto deciso e potente: l’invasione militare. E’ noto infatti che l’occupazione militare da parte delle potenze imperialiste occidentali in Afghanistan e in Iraq producono democrazia giorno dopo giorno…

Ma il nostro attuale superpresidentedelconsiglioitaliano, ispirato come non mai, è andato più in là dello stesso superpresidenteamericano: «la comunità delle democrazie occidentali deve esser pronta ad intervenire come esportatrice di democrazia e libertà nel mondo intero» (1). E se non bastano gli accordi diplomatici, finanziari, economici, politici per importare in quei determinati paesi quella democrazia e quella libertà di fare profitti? Se non bastano, allora quell’intervento potrebbe richiedere «un cambiamento nel diritto internazionale che precedentemente prevedeva l’inviolabilità della sovranità degli Stati»!

E’ ovvio che se si sostiene la teoria della “guerra preventiva”, si debba sostenere che l’inviolabilità della sovranità degli Stati è un principio in caduta libera. Se quel determinato Stato viene riconosciuto come pericoloso per la «comunità delle democrazie occidentali», è logico aspettarsi che questa «comunità», prima o poi, decida di intervenire. In che modo? L’Iraq è un ulteriore esempio dell’avventurismo militaresco che anima ogni imperialismo.

Saddam Hussein non ha voluto rispettare gli interessi anglo-americani sul petrolio irakeno? Gli inglesi e gli americani si sono rivolti alla «comunità delle democrazie occidentali», hanno indicato in Saddam Hussein il regime più pericoloso al mondo dopo quello dei Taliban in Afghanistan, hanno inventato la presenza in Iraq di quantità pericolosissime di armi di distruzione di massa (in realtà mai trovate, a un anno dalla vittoria angloamericana della guerra lampo), e quindi hanno accusato l’Iraq di Saddam Hussein di essere uno Stato protettore del terrorismo internazionale: Saddam Hussein e il suo regime dovevano essere abbattuti, per il bene della «comunità delle democrazie occidentali». E visto che 13 anni di embargo contro l’Iraq, con la popolazione ridotta alla fame e con più di 1 milione di morti per fame, non bastavano ad indebolire il regime di Saddam, la «comunità delle democrazie occidentali» ha deciso di intervenire secondo la teoria della guerra preventiva contro il terrorismo! Poco importa se la «comunità delle democrazie occidentali» che ha deciso di scatenare la seconda guerra contro l’Iraq (secondo produttore mondiale di petrolio) – violando bellamente la sovranità di uno Stato riconosciuto dall’ONU – era ridotta a Usa e Gran Bretagna, alle quali si sono aggregate poi Italia, Spagna, Polonia, Ucraina, Olanda, Australia, Romania, e altri 23 paesi raggiunti nel marzo scorso dal Giappone che, per la prima volta, invia un proprio contingente militare all’estero in zona di guerra (2); e poco importa se questa decisione è passata calpestando completamente le regole internazionali dettate nell’ONU, cioè dalla stessa «comunità delle democrazie occidentali». Questa è una delle tante dimostrazioni nei fatti che i diritti democratici che le borghesie di tutto il mondo si danno per convivere in un mercato mondiale sempre più spietatamente concorrenziale non servono a fermare le guerre, i soprusi, le stragi di intere popolazioni; servono soltanto per la propaganda che mira ad ingannare le masse proletarie e diseredate del mondo che aspirano alla pace.

L’America di Bush e l’Inghilterra di Blair avevano fretta, dovevano scatenare la guerra, non potevano più aspettare; il rischio era che Saddam Hussein concretizzasse formalmente contratti importanti per lo sfruttamento del petrolio irakeno – e soprattutto per lo sfruttamento dei nuovi ricchissimi giacimenti scoperti nel deserto del nordovest – con Russia, Francia e Germania. E questo le lobby che sostengono Bush non potevano permetterlo, tanto più di fronte a rapporti sempre più difficili con l’Arabia Saudita (che è il primo produttore mondiale di petrolio). Non è un caso che Russia, Francia e Germania si siano opposte allo scatenamento della guerra americana all’Iraq; i loro specifici interessi sul petrolio irakeno cozzavano contro gli interessi specifici di Usa e Gran Bretagna, punto.

Ma l’Italia berlusconiana, perché mai si è aggregata immediatamente a Bush condividendo fin dall’inizio i rischi di ritorsione terroristica proprio per l’appoggio militare dato all’occupazione dell’Iraq?

Vi sono motivi di ordine politico e di ordine economico.

L’imperialismo italiano, in politica estera, soprattutto dalla seconda guerra mondiale in poi, è sempre dipeso da Washington, anche quando trattava con Germania e Francia per la Comunità economica europea. Ed è in rapporto a questa “fedeltà” cinquantennale verso Washington che Roma tenta di avere un peso più importante in Europa e nel mondo. Insomma Washington, dopo la seconda guerra mondiale, ha preso il posto di Londra, grazie alla quale, a suo tempo, le mire espansioniste e colonialiste dell’Italia verso l’Africa furono soddisfatte. D’altra parte, per non diventare il valletto di Francia e Germania in Europa, l’imperialismo italiano ha sempre cercato l’aggancio con una potenza atlantica, appunto Londra prima e poi Washington, non dimenticando che con la seconda guerra mondiale il vero vincitore fu appunto l’America che, decretando la propria supremazia anche in Europa, semplicemente la occupò con le proprie basi militari, con le proprie sedi diplomatiche e con il Signore dei Signori: Sua Maestà il Dollaro.

Tutto ciò risponde a quanto Lenin aveva già descritto nel suo formidabile «Imperialismo, fase suprema del capitalismo» (3):

«I capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione [di capitali] li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti. E la spartizione si compie “proporzionalmente al capitale”, “in proporzione alla forza”, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione. Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. (…) L’età del più recente capitalismo ci dimostra come tra le leghe capitalistiche si formino determinati rapporti sul terreno della spartizione economica del mondo, e, di pari passo con tale fenomeno e in connessione con esso, si formino anche tra le leghe politiche, cioè gli Stati, determinati rapporti sul terreno della spartizione territoriale del mondo, della lotta per le colonie, della “lotta per il territorio economico”».

Il tratto caratteristico della fase suprema del capitalismo, dunque dell’imperialismo, è costituito, ribadisce Lenin, dalla spartizione definitiva della terra; «definitiva, non già nel senso che sia impossibile una nuova spartizioneché anzi nuove spartizioni sono possibili e inevitabili – ma nel senso che la politica coloniale dei paesi capitalistici ha condotto a termine l’arraffamento di terre non occupate sul nostro pianeta. Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un “padrone” a un altro, ma non dallo stato di non occupazione a quello di appartenenza ad un “padrone”». Le due guerre imperialistiche mondiali che hanno caratterizzato il secolo scorso dimostrano che il problema dell’imperialismo è appunto quello della spartizione fra le diverse potenze mondiali di territori economici; e la forza economica e militare particolarmente sviluppata in determinati paesi, una volta superata l’epoca del colonialismo classico – sia grazie ai moti rivoluzionari di liberazione nazionale, sia grazie ad una conveniente conversione del colonialismo militare in colonialismo finanziario – quel che si affaccia nel futuro dell’imperialismo è la trasformazione di paesi politicamente ed economicamente indipendenti in paesi finanziariamente dipendenti dalle grandi centrali finanziarie del mondo che attraverso la loro rete fittissima di interessi muovono e condizionano la politica di tutti gli Stati.

 

Spartizione del mondo e borghesie nazionali

 

Ebbene, la lotta per la spartizione del mondo da parte del capitale finanziario è fatta dalle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori, come diceva Lenin; dai trust, da quelle associazioni internazionali di capitalisti che travalicano ogni confine e ogni costituzione politica che i vari paesi si sono dati poiché i loro profitti possono essere raggiunti alla sola condizione di avere l’intero pianeta a disposizione e le mani libere per realizzare qualsiasi operazione utile ad accelerare l’accumulo di profitto. Ma siamo nella società borghese, nella società basata sull’economia aziendale, sulla concorrenza di mercato in virtù dei quali il capitalismo trova continuo movimento di sviluppo. E allora i capitalismi nazionali, ossia quel territorio economico maggiormente difendibile con le leggi e con le armi, mentre operano per conquistare altri mercati, altri territori economici, altri mercati “nazionali” sviluppano i fattori di internazionalizzazione del capitale finanziario, di globalizzazione come amano dire gli odierni politologi credendo di aver scoperto un nuovo processo di sviluppo del capitale mentre non hanno fatto altro che dare un nome diverso a quanto Marx aveva già scoperto 150 anni fa.

In questa lotta per la spartizione del mondo nessuna borghesia vuole rimanere indietro, nessuno Stato, nessun capitalismo nazionale rinuncia per principio, tutt’al contrario. La guerra anglo-americana in Iraq lo dimostra per l’ennesima volta. Che ci fanno a fianco di americani e inglesi 70 soldati albanesi, 37 macedoni, 60 croati, 160 mongoli, 368 honduregni, 100 lettoni, 80 filippini, 361 salvadoregni, e via così? Queste poche centinaia di soldati non possono certo fare la differenza rispetto alla presenza militare americana e inglese (che sono i veri occupanti del paese); sono inviati dai rispettivi governi in zona di guerra perché sono il pegno che le proprie borghesie vogliono pagare alle potenze imperialistiche più forti per ottenere qualche briciola degli affari che sempre si sviluppano intorno ad una guerra. Gli italiani, ad esempio, si sono accaparrati una fetta dei 18,5 miliardi di dollari di appalti per la “ricostruzione dell’Iraq” (nel campo della costruzione di infrastrutture, dell’esplorazione dei campi petroliferi, della formazione di lavoratori dell’energia petrolifera, della carpenteria, ecc. con Eni ed Edison Gas che fanno la parte del leone) (4). E nessuno dubitava che il grosso degli affari della ricostruzione dell’Iraq transitasse attraverso aziende americane legate a filo stretto con l’attuale Amministrazione americana come la Halliburton, la Bechtel, la Kellog Brown & Root ed altre. Ma come sempre è avvenuto, intorno alla guerra e alla ricostruzione post-bellica fiorisce una miriade di possibilità per fare affari, leciti ed illeciti; dalle forniture agli eserciti regolari all’equipaggiamento e al sostegno delle centinaia di piccoli eserciti di mercenari, dal cibo e dall’acqua ai medicinali alla benzina, dall’agricoltura ai mezzi di trasporto e alle armi: tutto diventa business.

Quella che doveva essere una guerra lampo – vista la differenza enorme di capacità bellica degli eserciti d’America e di Gran Bretagna rispetto all’esercito irakeno – in realtà è diventata una guerra lunga; doveva essere una guerra “di liberazione” dalla dittatura del rais la cui vittoria doveva essere accolta dalla popolazione con festa e riconoscenza, è diventata una guerra di occupazione militare di eserciti stranieri contro cui la popolazione mostra odio e resistenza. Le uniche armi di distruzione di massa presenti in Iraq sono quelle che usano gli americani e gli inglesi. I cannoni dei democratici marines fanno più morti fra i civili che contro i miliziani del fondamentalismo islamico che gli sparano contro. Sciiti e sunniti che una visione distorta dell’Amministrazione americana voleva nemici (e sulla quale inimicizia agire per facilitare la “normalizzazione” del paese) non si scannano fra di loro, ma si oppongono entrambi all’occupazione militare. Avevano detto che era una guerra “umanitaria”, scatenata “preventivamente” contro la dittatura di Saddam prima che questa scatenasse attacchi terroristici in tutto l’Occidente; in realtà si dimostra sempre di più per quello che era fin dall’inizio: una guerra di rapina, di brigantaggio, di occupazione militare di un intero paese per spartirsi le sue ricchezze.

 

Nuovi «equilibri» per il petrolio

 

Non solo, ma l’occupazione militare del paese serve agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna anche a sconvolgere gli equilibri che dominavano nell’Opec, il cartello petrolifero dei paesi produttori di petrolio (5). E questo è un aspetto non secondario della guerra all’Iraq. Si colpisce un paese membro importante dell’Opec, e attraverso di esso si colpiscono gli interessi dei paesi che fanno parte dell’Opec. Esperti economisti dell’Aspen Institute prevedono per il 2010 una nuova crisi petrolifera di grandi dimensioni; il che, come già successe nel 1973-74, farà schizzare il prezzo del petrolio alle stelle. All’epoca la crisi petrolifera colse di sorpresa gran parte dei governanti occidentali che dovettero accorgersi attraverso una crisi economica generalizzata quanto dipendevano dalla produzione del petrolio del Medio Oriente. All’epoca la Russia, altro paese grande produttore di petrolio, era l’URSS e non aveva con il mercato internazionale i legami (e la dipendenza) che ha oggi; mentre la Cina non era ancora in grado di aprirsi al mercato internazionale come ha fatto da un decennio a questa parte. Perciò i paesi dell’Opec dettavano incontrastati la loro legge sul prezzo del petrolio.

Oggi il quadro internazionale è ben diverso. L’URSS è implosa e la Russia si ripresenta sul mercato mondiale più debole dal punto di vista del mostro militare e imperiale che era prima, avendo oltretutto perso il controllo di tutti i paesi dell’Est Europa, di una parte dei paesi asiatici e l’alleanza privilegiata con la Cina; ma più dinamica dal punto di vista della circolazione dei capitali e più “libera” dal punto di vista delle alleanze “ideologiche”: ieri doveva opporsi in generale all’America, costituire un polo ideologico, economico, politico e militare alternativo, e usava la propria potenza militare per sostenere questo ruolo nell’ambito dell’ordine imperialistico uscito dalla seconda guerra mondiale; oggi può permettersi di essere alleata con Washington ma nello stesso tempo dissentire (come nel caso della guerra all’Iraq) senza che questo comporti un irrigidimento degli affari tra Mosca e Washington. Dunque per il suo petrolio (ne produce 369 milioni e mezzo di tonn. l’anno, molto di più di quanto non producano Usa e Gran Bretagna insieme), oggi la Russia può benissimo giocare a favore di Washington e di Londra contro i paesi dell’Opec, ma può anche giocare a favore dei paesi europei, e in ispecie verso Francia e Germania, se la convenienza politica ed economica la pone in una posizione di vantaggio, come di fatto sta diventando. La stessa cosa può dirsi per la Cina che sta diventando anch’essa un importante paese produttore di petrolio (169 milioni di tonn. l’anno) anche se il suo sviluppo industriale interno richiede un consumo sempre maggiore, il che obbligherà la Cina ad importarne anche per rifornirsi di scorte necessarie per i periodi di crisi. Il petrolio del Medio Oriente resta sempre di assoluta importanza (sulla produzione mondiale di petrolio – dati del 2002 – di 3 miliardi e 337 milioni di tonn. i paesi dell’Opec ne rappresentano più di un terzo con 1 miliardo e 350 milioni di tonn.), ma il tentativo dei paesi imperialisti più potenti è di contenere la loro dipendenza da quel petrolio. Le forme di intervento sono state molteplici, diplomatiche, politiche, economiche ma il 2010 si avvicina e se per assestare colpi efficaci a quel vero e proprio trust transnazionale che si chiama Opec è necessario fare la guerra, ad esempio all’Iraq, che guerra sia. E se la guerra dovrà un domani allargarsi alla Siria o all’Iran o all’Arabia Saudita, per ottenere un risultato più importante dal punto di vista degli interessi imperialistici anglo-americani, la guerra si allargherà. E per l’ennesima volta Washington cercherà una coalizione di Stati occidentali in grado di giustificare la propria guerra di rapina, coinvolgendoli in una rapina più generalizzata, perché la spartizione del mondo è una spartizione fra briganti e rapinatori imperialisti.

La mappa del petrolio sta dunque cambiando, e l’Italia che, oltre ad essere una grande fabbrica di raffinazione di prodotti petroliferi, dipende del tutto dalle importazioni, non poteva certo starsene in disparte. Dall’alleanza stretta con l’America l’Italia spera di potersi quindi assicurare in tempi di crisi una corsia preferenziale per le proprie esigenze economiche e per i propri profitti. Quindi se il superpresidenteamericano chiede soldati italiani, che soldati italiani siano spediti: tutto a beneficio del Profitto Nazionale.

 

Il proletariato, a fatica, ma risalirà dal baratro

 

Dal punto di vista del proletariato la situazione è drammatica.

L’assenza di un movimento operaio in grado di lottare con mezzi e metodi di classe per obiettivi classisti – dunque svincolati dalle compatibilità con le esigenze di profitto dei capitalisti – pone il proletariato, soprattutto nei paesi capitalisti sviluppati, in una condizione di enorme debolezza sociale e, quindi, politica. Il proletariato dei paesi della famosa «comunità delle democrazie occidentali» è stato reso, in buona parte, complice del gigantesco sfruttamento che le borghesie imperialiste più forti hanno messo in atto nei confronti del proletariato e delle masse contadine e diseredate di tutto il resto del mondo. Complice, nel senso che i suoi «diritti», i suoi salari più alti, il suo più alto tenore di vita non sono stati raggiunti solo attraverso le lotte sociali che pur tuttavia sono state numerose, ma grazie anche agli enormi profitti che le rispettive borghesie traevano dallo sfruttamento delle masse del mondo intero, e che sebbene in piccola parte utilizzavano per comprare la pace sociale, il consenso democratico, la collaborazione interclassista attraverso organizzazioni atte allo scopo: sindacati tricolore, associazioni culturali, associazioni religiose, partecipazione continua ad istituzioni e a votazioni.

La borghesia, nella sua esperienza ormai secolare di classe dominante, ha imparato molto bene il fatto che la democrazia, con le sue illusioni, i suoi inganni, la sua falsa rappresentazione della realtà sociale, è ancora un formidabile strumento di controllo sociale. E ciò valeva non solo nella prima parte del secolo XX, in cui la democrazia liberale aveva tutto sommato ancora qualcosa di dire ai paesi che dovevano liberarsi dal giogo dell’economia precapitalistica e dal colonialismo ottocentesco; vale anche nel lungo periodo che è seguito alla seconda guerra imperialistica mondiale, ossia nel periodo in cui le borghesie dei paesi democratici più forti hanno ereditato i metodi di controllo sociale ed economico dal fascismo. Vinto militarmente da parte degli eserciti dei paesi democratici, il fascismo ha di fatto vinto in economia e in politica sociale. La concentrazione capitalistica è stata accelerata grazie all’intervento diretto dello Stato nell’economia, caratteristica del fascismo; e lo stesso dicasi per la politica sociale nei confronti del proletariato: l’attuazione di una vasta rete di ammortizzatori sociali, ereditati direttamente dal fascismo, ha contribuito in modo decisivo alla collaborazione interclassista fra le organizzazioni sindacali, i partiti operai e i poteri della borghesia post-bellica, così come al consenso sociale e al potenziamento dello sfruttamento del lavoro salariato nei rispettivi paesi e nel resto del mondo.

Quando la Sinistra comunista affermava che la democrazia “antifascista” era stato il prodotto peggiore del fascismo perché respingeva il proletariato ancora più indietro nella storia della lotta di classe, non sbagliava di certo. Lo stalinismo, per decenni, ha rappresentato la massima e più efficace copertura opportunista del collaborazionismo interclassista. Tutte le conquiste politiche che il proletariato attraverso il suo movimento rivoluzionario e la vittoria rivoluzionaria in Russia nel 1917 aveva raggiunto: capacità organizzativa indipendente sia sul terreno della difesa delle condizioni di vita e di lavoro sia sul terreno della lotta politica più generale, internazionalismo, solidarietà di classe fra proletari di categorie, sesso, nazionalità diversi, vennero poi disperse dalla controrivoluzione borghese e dallo stalinismo, sepolte sotto cumuli di immondizia democratoide.

Da questi abissi il proletariato deve risalire, e sarà molto dura perché le classi dominanti borghesi non si faranno alcuno scrupolo di fronte alla ripresa della lotta di classe proletaria. La ripresa della lotta di classe ci sarà non perché i comunisti rivoluzionari la desiderino e la aspettino da tanti anni, e non perché i proletari “capiranno” che dovranno lottare per il comunismo invece che per la democrazia borghese; ci sarà perché è il sottosuolo economico e sociale di questa società capitalistica che acutizza gli antagonismi di classe, che sviluppa alla massima tensione le contraddizioni materiali in cui obbliga a vivere miliardi di uomini in tutto il mondo, che non è in grado di raggiungere e mantenere un’armonia sociale che faccia da base ad uno sviluppo pacifico e sereno della specie umana. La spietata lotta di concorrenza che caratterizza lo sviluppo capitalistico non ammette pause se non al fine di preparare armi politiche e militari più efficaci per vincere i concorrenti sul mercato. E la borghesia non può vivere, e sopravvivere come classe sociale privilegiata se non attraverso lo sfruttamento sempre più intenso e duro del lavoro salariato dal quale estorce pluslavoro, ossia tempo di lavoro non pagato, dunque plusvalore.

La ripresa della lotta di classe si presenterà a sbalzi, ad episodi anche di grande tensione e a riflussi; per un primo tempo, che può anche essere lungo, l’esplosione di lotte sociali e classiste sarà seguita da ripiegamenti che potranno anche apparire come definitive sconfitte delle lotte precedenti, ma che saranno invece periodi in cui le forze sociali proletarie si rigenereranno. La borghesia, sostiene il Manifesto del partito comunista del 1848, con lo sviluppo e il progresso dell’industria, diventa socialmente inutile, non è più indispensabile perché «non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù ». «L’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza» . Ricchezza accumulata nelle mani di privati capitalisti, miseria crescente per il proletariato, per i lavoratori salariati, gli schiavi della moderna società capitalistica. «Con lo sviluppo della grande industria, dunque, viene tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili» (6).

Guardando le condizioni in cui versa il proletariato oggi, nei paesi capitalistici sviluppati come nei paesi arretrati, le parole del Manifesto di Marx ed Engels possono apparire utopistiche. In verità, non fanno che rappresentare una realtà storica inconfutabile, ma che la propaganda ideologica borghese falsa continuamente perché la classe dominante borghese ha tutto l’interesse che il proletariato continui a credere che senza di lei, senza capitalisti, senza denaro, produzione di merci, mercato e profitto, la società umana tornerebbe all’età delle caverne. Ma condizione del capitale, ribadiscono con forza Marx ed Engels, è il lavoro salariato; e il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro.

Ecco dunque da dove il proletariato deve cominciare per riprendere nelle proprie mani le sorti della propria esistenza, della propria vita, della propria lotta di sopravvivenza: dalla lotta contro la concorrenza degli operai tra di loro! La collaborazione fra le classi è uno dei metodi che la borghesia usa per coprire in realtà la concorrenza fra proletari, concorrenza che la borghesia alimenta in tutti i modi possibili. Ed è uno strumento per “associare” gli interessi dei proletari agli interessi dei padroni, dei capitalisti facendo passare la concorrenza fra proletari come un normale e logico prolungamento della concorrenza fra borghesi e fra aziende borghesi nel mercato. Questo meccanismo di controllo sociale serve in tempo di espansione economica e di pace, ma serve ancor più in tempi di crisi e di guerra.

Per un paese imperialista degno di questo nome, votato alla conquista di territori economici fuori dei propri confini nazionali, è del tutto vitale che il proletariato indigeno sia più legato possibile agli interessi nazionali, alla patria, alla difesa di questi interessi. Perciò, ogni episodio, ogni avvenimento che può essere sfruttato per ribadire la necessità di questa collaborazioni interclassista, questa “unione sacra” nei valori della patria e dell’economia nazionale, viene enfatizzato al massimo. Allora si capisce come mai, intorno alla morte di un mercenario italiano preso in ostaggio in Iraq che pare abbia pronunciato di fronte ai suoi boia parole come «vi faccio vedere come muore un italiano», si sia sviluppata un’ondata mediatica di enorme risonanza, più ancora di quanto non fosse stato fatto per la morte dei 19 soldati italiani a Nassiriya. La spettacolarizzazione degli orrori di guerra è diventata ormai la norma per la cosiddetta libera informazione; in realtà serve per abituare il proletariato agli orrori della guerra, di una guerra che presto o tardi lo coinvolgerà e in prospettiva della quale la propaganda borghese, ovviamente, alimenta lo spirito nazionalistico.

Opporsi all’invio di truppe militari è sempre stato, per il proletariato, un punto fermo. Ci si oppone perché la spedizione militare rappresenta un atto di oppressione verso altri popoli e altri proletari, ci si oppone perché non si vuole che proletari in divisa vadano a fare carne da macello in guerre di rapina imperialistica, ci si oppone perché si lotta contro la propria borghesia in quanto i suoi interessi (che difende anche attraverso le spedizioni militari) sono in netto contrasto con gli interessi del proletariato (che difende le proprie condizioni di vita e di lavoro, e solidarizza con i proletari degli altri paesi oggetto delle spedizioni militari della propria borghesia). Gli è che, la mistificazione delle spedizioni militari trasformate in “missioni di pace” verso popolazioni che hanno subito la tragedia di guerre “non volute” dal governo nazionale, confondono ancor più un proletariato già confuso e disorientato da decenni di mistificazioni sulla democrazia e sulla pace da parte delle forze dell’opportunismo che non trovano di meglio che distinguere tra guerre imperialiste “giuste” (ad esempio quella contro la Jugoslavia di Milosevich) e guerre imperialiste “ingiuste” (ad esempio quella contro l’Iraq di Saddam). E non è difficile scoprire dove sta il cavillo: se la guerra, fosse anche “preventiva”, è dichiarata da istituzioni internazionali delle quali si accetta l’autorevolezza (Nato, Onu, ecc.), allora la partecipazione italiana può essere accettata; se invece la guerra è voluta solo da una potenza imperialistica, ad esempio l’America, ci si chiama fuori e si attende, a bombardamenti conclusi, che si aprano i bandi di gara… per la ricostruzione.

Il principio proletario e comunista che pone il proletariato sempre in lotta contro la propria borghesia, in pace e tanto più in guerra, è un principio da decenni calpestato da partiti come i DS e i RC che osano ancora richiamarsi al socialismo e al comunismo. L’avventurismo militaresco della borghesia italiana non lo combatteranno mai, per la semplice ragione che non sono in grado di combattere effettivamente la borghesia e il suo militarismo. Se compaiono posizioni “antimilitariste” sono di carattere pacifista, perciò del tutto impotenti e parolaie.

Le posizioni proletarie di classe sono quelle che derivano dall’accettazione dell’antagonismo di classe fra proletariato e borghesia, e che storicamente si pongono nella prospettiva della lotta di classe e rivoluzionaria che per sbocco ha la rivoluzione anticapitalistica, antiborghese, e quindi l’abbattimento del potere politico borghese per la instaurazione della dittatura proletaria. Alla dittatura dell’imperialismo non ci si può opporre se non con la dittatura del proletariato; classe contro classe, dittatura di classe contro dittatura di classe, proletariato contro borghesia, dunque fuori e contro ogni collaborazione fra le classi, ogni politica interclassista.

Oggi lo sbocco rivoluzionario è lontano, anche se nel nostro orizzonte storico noi lo vediamo. I proletari devono ritrovare la forza di lottare per se stessi, innanzitutto; allora ritroveranno la forza per lottare per tutta la società.

 


 

(1) Cfr, Intervista rilasciata da Berlusconi al New York Times e ripresa da «la Repubblica», 6.12.2003.

(2) I contingenti militari presenti in Iraq, in zone suddivise per comando americano, inglese e polacco: USA 130.000, Gran Bretagna 9.900, Italia 3.000, Polonia 2.350, Ucraina 1.650, Spagna 1.254 (si ritirano entro giugno per decisione del nuovo governo Zapatero salito al potere dopo la strage di Madrid dell’11 marzo scorso), Olanda 1.100, Australia 800, Romania 700, Bulgaria 500, Thailandia 443, Danimarca 420, Repubblica Ceca 400, Honduras 368, El Salvador 361, Repubblica Dominicana 302, Norvegia 179, Mongolia 160, Azerbaigian 150, Ungheria 140, Portogallo 120, Nicaragua 113, Lettonia 100, Filippine 80, Slovacchia 80, Albania 70, Georgia 70, Nuova Zelanda 61, Croazia 60, Lituania 50, Moldova 50, Estonia 43, Macedonia 37, Kazakhstan 25, Giappone 550. (da «Corriere della sera» 17.3.04).

(3) Vedi Lenin, «L’imperialismo, fase suprema del capitalismo», Opere, vol, XXII, Editori Riuniti, Roma 1966, pp.253-254 la prima citazione; la seconda a pag. 255.

(4) Cfr «la Repubblica», 29.4.04.

(5) L’Opec, Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, è nata nel 1960 e si è data lo scopo di coordinare una politica comune dei paesi membri nella produzione e nel commercio del petrolio. Solitamente, come arma di pressione sul mercato internazionale, i paesi membri decidono di aumentare o diminuire la produzione di barili di petrolio, a seconda dell’andamento dell’economia in generale e per il mantenimento del prezzo del greggio a livelli di speculazione redditizia. I paesi che ne fanno parte sono: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Iraq, Qatar, Libia, Algeria, Nigeria, Iran, Venezuela e Indonesia. Sede dell’Opec a Vienna.

(6) Cfr. K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, G. Einaudi Editore, Torino 1962, cap. I «Borghesi e proletari», pp. 116-117.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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