Sulla «questione palestinese», sull’autodeterminazione nazionale e sulle posizioni proletarie e comuniste

(«il comunista»; N° 90-91; Giugno 2004)

 

Pubblichiamo l’introduzione all’opuscolo dedicato alla «questione palestinese» e che al momento esce solo in lingua francese.

 

Introduzione

 

La «questione mediorientale» dalla seconda guerra mondiale in poi si è sempre più incentrata nella «questione palestinese», vedeva cioè come condensato di tutte le contraddizioni capitalistiche dello sviluppo borghese in quell’area specifica, appunto la questione «nazionale» fra ebrei e arabi, palestinesi in particolare.

Il territorio in cui i contrasti nazionali si sono maggiormente acutizzati è sommariamente il territorio della vecchia Palestina, dunque dai confini mai stabili: a Nord con il Libano, a Nord Est con la Siria (di cui Israele occupa dal 1967 le alture del Golan ad est del lago Tiberiade), a Est con la Cisgiordania (occupata da Israele con la Guerra del 1967) e la Giordania, a Sud Ovest con la penisola del Sinai (occupata da Israele nel 1967 ma poi restituita all’Egitto nel 1978), e la Striscia di Gaza (occupata da Israele con la Guerra del 1967). Alla prima guerra arabo-israeliana del 1948, quando Israele vinse contro la coalizione degli Stati arabi che non accettavano la risoluzione ONU del novembre 1947 sulla spartizione della Palestina (amministrata fino allora dalla Gran Bretagna) in due Stati, uno arabo e uno ebraico, ne successero altre tre, 1956,1967,1973. In concomitanza della guerra di Suez, nel 1956, quando Nasser si scontrò con gli anglo-francesi per aver nazionalizzato il Canale di Suez, Israele lanciò i suoi attacchi contro le basi dei guerriglieri arabi nella zona di Gaza e del Sinai, tentando per la prima volta di allargarsi a Sud Ovest, senza però riuscirci. Con la Guerra del 1967 (detta dei “sei giorni”) Israele questa volta riesce ad allargare notevolmente i suoi confini, inglobando il Sinai, Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est e Golan. La guerra del 1973, persa nuovamente dai paesi arabi, non risolse alcuna questione, tanto meno quella “palestinese”; con la mediazione americana, che aveva interesse a togliere almeno l’Egitto dall’area di influenza russa, Israele firmò nel 1978 (Camp David) la pace con l’Egitto e si ritirò completamente dal Sinai. Dal punto di vista formale Israele ha annesso solo Gerusalemme Est, mentre gli altri territori occupati restano «materia di trattativa» con gli Stati arabi e, in misura minore, con l’Olp.

Certo, se l’esito delle guerre arabo-israeliane fosse stato a favore dei paesi arabi, si sarebbe dovuto parlare di una «questione ebraica», poiché è certo che l’ipotetico Stato arabo di Palestina (guidato e manovrato dagli Stati arabi, come è sempre avvenuto con l’Olp, e dietro di loro magari l’Urss di ieri) non avrebbe avuto mano leggera nei confronti degli ebrei. Sta di fatto che dietro il sionismo e le forze politiche e militari israeliane ci sono sempre stati gli USA, et pour cause! Il petrolio mediorientale era ed è tuttora troppo importante per l’economia mondiale perché gli Usa non tentassero ogni possibile mossa per averne il controllo, se non completo almeno determinante. La crisi petrolifera del 1973 è stata il preciso segnale che le forze che controllavano il petrolio dell’area mediorientale sarebbero state le forze in grado di condizionare le economie di tutti i maggiori paesi capitalistici del mondo, e segnatamente dell’Europa. Pur in contrasto permanente fra di loro sul mercato mondiale, Usa e Stati europei avevano – ed hanno – interesse almeno a controllare i flussi petroliferi dei giacimenti più importanti del mondo, quelli appunto del Medio Oriente. Le guerre arabo-israeliane prima, le guerre del Golfo poi, vanno valutate da questo punto di vista.

Nei decenni di contrastato condominio russo-americano sul mondo, gli Usa, e dietro di loro l’Europa occidentale, avevano bisogno di un forte avamposto nel Vicino e Medio Oriente, uno Stato fortemente motivato e interessato a svolgere il compito di gendarme della «civiltà occidentale» (leggi: degli interessi dell’imperialismo occidentale). Chi meglio degli ebrei – con il loro carico storico di vittime dei progrom, delle leggi razziali e dell’olocausto, con la loro sete di «patria», di rivincita storica sull’oppressione razziale e religiosa, caratterizzati da antichi e radicati legami religiosi e culturali – poteva assimilare e svolgere un compito così arduo per conto dell’imperialismo vincitore del secondo macello mondiale in un territorio ostico e particolarmente tormentato come il Medio Oriente?

La «Terra promessa» divenne la Grande Israele, una terra in cui interessi economici e di lotta fra le classi nello sviluppo storico sociale hanno toccato punte di estrema acutezza, rispecchiati in contrasti fra gli appartenenti alle tre grandi religioni monoteiste, cristiani, musulmani ed ebrei; ma una terra in cui il capitalismo più avanzato – non importa se l’impresa era cristiana, musulmana o ebraica – doveva concentrare la sua maggiore forza per estendere in tutta l’area un dominio politico ben preciso, quello occidentale, e segnatamente quello nordamericano. La funzione dello Stato di Israele doveva essere soprattutto quella di contrastare i residui legami fra paesi arabi e Germania (durante l’ultima guerra mondiale la maggioranza dei paesi arabi aveva sostenuto il nazismo) e l’incedere del possibile predominio politico russo sull’area. E doveva servire come avamposto, militare più che politico, nell’area petrolifera più importante del mondo; non è un caso, d’altra parte, che Israele, pur definitosi Repubblica, non ha una Costituzione scritta (a dimostrazione che la Carta costituzionale che ogni borghesia alza al cielo come la miglior garanzia di democrazia repubblicana non è poi così necessaria allo sviluppo economico e sociale del capitalismo). E fino a quando Israele rappresenta quella funzione per l’imperialismo occidentale continuerà ad avere la forza di imporre nei propri mobili confini l’oppressione nazionale nei confronti degli arabi, siano arabi israeliani siano palestinesi, dal cui sfruttamento ottenere il massimo di plusvalore possibile; e di imporre nell’area una politica basata sulla conquista di terra e di risorse (agricole, idriche o strategico-militari).

Due questioni di fondo dividevano e continuano a dividere gli interessi delle contrapposte borghesie israeliana e araba palestinese: i Territori occupati (sui quali “costruire” lo Stato palestinese) e il ritorno degli esuli palestinesi nei territori da cui sono fuggiti a causa delle varie guerre che si sono succedute. Il «diritto al ritorno» dei profughi è stato uno dei punti caratteristici della politica sionista per la formazione dello Stato di Israele; ma questo stesso Stato teme ovviamente che tale «diritto» in mano palestinese provocherebbe una vera e propria contro-invasione di milioni di palestinesi della diaspora, sconquassando già il difficilissimo equilibrio attuale fra popolazione ebrea e popolazione araba. Perciò la «democrazia israeliana» è radicalmente contraria al «diritto di ritorno» dei profughi palestinesi.

Questioni che le rispettive borghesie non sono riuscite mai a risolvere, né con la guerra né con i negoziati cosiddetti «di pace», né con l’intervento di altri attori quali l’ONU, l’Amministrazione americana, la Russia o la UE. Perché? Perché i contrasti fra arabi e israeliani, fra palestinesi ed ebrei, non sono contrasti limitati fra due «nazioni», dove una nazione vince l’altra e detta legge imponendo confini ben definiti, sviluppo economico secondo le proprie basi materiali e rapporti interstatali formalmente «alla pari». Lo Stato palestinese, fin dal 1948 proposto come «soluzione» del contrasto con gli ebrei che intendevano costituirsi in Stato indipendente, non è mai nato perché le classi possidenti e privilegiate arabe non erano allora in grado di esprimere ciò che per la cultura politica borghese è normale: un popolo, per liberarsi dalle forme arcaiche di organizzazione sociale, si arma e lotta per costituirsi in Stato indipendente, democratico e repubblicano.

Lo Stato palestinese indipendente non è mai stato un obiettivo degli sceiccati o degli emirati arabi, ma nemmeno delle borghesie arabe che sostenevano anche finanziariamente la resistenza palestinese, poiché esso avrebbe costituito per loro un problema in più e non uno in meno; nel mosaico mediorientale, i palestinesi presenti in Palestina, ma anche in Libano, in Siria e soprattutto in Giordania, costituivano per un certo tempo una spina nel fianco di ogni grande famiglia araba, di ogni gruppo di interesse legato alle famiglie più ricche e importanti dell’area per due grandi motivi: perché erigendosi a Stato indipendente potevano costituire un concorrente sia nell’area mediorientale sia nei rapporti con i diversi paesi imperialisti maggiori, e perché una loro effettiva pacificazione con gli ebrei avrebbe potuto spingere Israele a dirigere le proprie mire espansionistiche verso gli altri Stati arabi dell’area, Libano Siria e Giordania prima di tutto. Non è per caso che i fatti di sangue più gravi da parte araba nei confronti della resistenza palestinese siano stati il Settembre nero (1970)in Giordania, quando l’esercito di re Hussein di Giordania sbaragliò le formazioni guerrigliere palestinesi che avevano stabilito in Giordania una specie di Stato nello Stato, costringendole ad andarsene per sempre dalla Giordania per riparare in Libano dove le formazioni guerrigliere palestinesi si riorganizzarono a tal punto da divenire nuovamente una presenza ingombrante e politicamente contrastante con il governo libanese e con la Siria che all’epoca ne era il tutore. La strage nel campo palestinese di Tall-el-Zaatar nel 1976 portata a termine dall’esercito libanese e dai missili siriani decretò praticamente la fine della guerra civile libanese e la sconfitta definitiva dell’obiettivo di «distruggere Israele» per costruire sulle sue macerie lo Stato di Palestina.

L’Olp, come abbiamo più volte denunciato nella nostra stampa, non ha mai rappresentato in realtà una formazione borghese rivoluzionaria. Nata dall’alto, sotto imput della Lega Araba e soprattutto dell’Egitto di Nasser, come strumento di mobilitazione popolare e di legittimazione ideologica di quello che veniva allora definito «rifiuto arabo di Israele», divenne poi con l’immissione di Al Fatah – in seguito alla sconfitta araba nella guerra del 1967 – uno strumento di pressione da parte degli Stati arabi per una soluzione «politica» delle crisi del Medio Oriente a vantaggio dei propri specifici interessi e non a vantaggio degli interessi delle masse palestinesi. Né prima del ’67, né dopo, l’Olp ha rappresentato una effettiva guida per il popolo palestinese verso la sua «liberazione» dall’occupazione israeliana e dall’oppressione nazionale che Israele (ma anche gli altri Stati arabi) esercitava nei confronti dei palestinesi. Con il 1982 e la sconfitta delle formazioni armate dell’Olp nella guerra libanese (dove a Beirut Est i proletari palestinesi si difesero eroicamente dall’armata israeliana), le formazioni palestinesi dell’Olp abbandonarono Beirut, si rifugiarono in Tunisia e da lì ritentarono attraverso una serie interminabile di negoziati di giungere ad una soluzione «politica», cercando soprattutto di ottenere prestigio internazionale attraverso le cancellerie d’Europa e d’America. Ma le masse palestinesi in Israele continuarono ad essere vessate, oppresse, represse; e la rivolta scoppiò nuovamente, ma questa volta nei confini israeliani: nacque l’intifada, la rivolta delle pietre, perché sono le pietre le uniche armi in mano ai giovani palestinesi per difendersi dai fucili e dai carri armati israeliani. E’ il dicembre 1987, e continuerà fino al 1991, e ancora fino al 1993. Si susseguirono nelle sfere diplomatiche «accordi di pace» che non portarono a nulla; l’intifada continuò, e continuarono le incursioni dell’armata israeliana a Gaza e in Cisgiordania; non passava giorno che non vi siano stati civili palestinesi ammazzati, e case palestinesi rase al suolo. E i gruppi più estremisti del nazionalismo palestinese vestito di fondamentalismo islamico, continuarono la loro lotta attraverso atti diversi di terrorismo in risposta al terrorismo praticato regolarmente dall’esercito israeliano. Sembrò ad un certo punto, nel 1993-95, che fosse possibile una accelerazione del cosiddetto «processo di pace»: Israele concesse l’autonomia ai residenti di Gaza e di alcune città della Cisgiordania, affidando il «governo locale» all’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Yasser Arafat. Ma per l’ennesima volta, questo iter verso la pacificazione e la soluzione negoziata del lungo periodo di crisi fra arabi e israeliani si rivelò un fuoco di paglia.

Più volte, soprattutto da parte americana, nell’ultimo decennio viene accolta l’idea che ai palestinesi deve essere concesso di avere un loro Stato, ma quello Stato – che comunque Israele non intende concedere – è solo una parola appiccicata a territori spezzettati e non comunicanti fra loro, impotente anche solo dal punto di vista formale; dal punto di vista economico, se e quando potrà vedere la luce, questa specie di Stato sarà completamente dipendente da Israele sia per quanto riguarda le frontiere, e le dogane, sia per quanto riguarda il lavoro di gran parte dei palestinesi che risiederebbero in Palestina ma lavorerebbero in Israele, sia per gli scambi commerciali e finanziari; sarebbe uno Stato fottuto in partenza, come d’altra parte è stata ed è storicamente la «nazione palestinese». Dal punto di vista borghese non vi è soluzione della «questione palestinese» che non veda la codificazione dell’oppressione della popolazione palestinese, in particolare dei proletari arabi e palestinesi. Israele non è il Sudafrica, Arafat non è Mandela; gli africaners hanno avuto una storia recente, figli degli europei che si insediarono in un paese nero come invasori, conquistatori stranieri. Gli ebrei, al contrario, hanno una storia millenaria, originari della Galilea, della Giudea, della Samaria, insomma della Palestina al pari dei palestinesi, Ebrei e palestinesi sono stati storicamente divisi nello stesso territorio da interessi di classe, dalla religione e dall’andamento di guerre che provocarono a più mandate la fuga e l’esilio, per gli ebrei soprattutto, ma anche per i palestinesi.

Dal punto di vista borghese, lo Stato di Israele è l’unica entità unitaria, organizzata, capace si equipararsi agli altri Stati borghesi avanzati, e soprattutto è decisamente schierata sul fronte degli interessi imperialistici esistenti più forti, quelli nordamericani. Lo Stato di Israele è nato con gli attentati terroristici e con la forza, non solo delle organizzazioni sioniste che lo volevano ma dei vincitori della seconda guerra mondiale che lo hanno imposto; è nato anche attraverso una guerra fra ebrei e arabi in Palestina, una guerra vinta dagli ebrei nel 1948-49 e rivinta più volte successivamente. I palestinesi, per quanto riguarda i loro movimenti politici e militari, è un fatto inoppugnabile, non sono stati in grado di mettere in campo una forza sufficientemente unitaria, organizzata, determinata per imporsi allo stesso modo. La sconfitta dell’impero Ottomano, nel 1917, durante la prima guerra mondiale, avrebbe potuto costituire un’occasione storica per gli arabi di Palestina (e non solo di Palestina) per condurre la propria rivoluzione nazionale in porto e costituirsi in Stato indipendente. Non ne ebbero la forza né la volontà (allora in Palestina il problema non erano gli ebrei che non raggiungevano nemmeno le 60.000 unità, ma l’Inghilterra); non esisteva una radicata borghesia, non esistevano partiti borghesi nazionali con chiari programmi politici, e non esisteva un proletariato formato e sufficientemente diffuso, e tantomeno un partito comunista. In seguito alla seconda guerra mondiale, nel 1948-49, aldilà della risoluzione Onu, lo Stato palestinese avrebbe potuto forse nascere, ma solo sull’onda di una guerra nazionale borghese rivoluzionaria (alla cinese) che avrebbe dovuto combattere contro l’imperialismo anglo-francese (allora ancora padrone dell’area) e contemporaneamente contro il sionismo. Il fatto è che in trent’anni dalla caduta dell’impero ottomano la popolazione araba di Palestina non è stata in grado di esprimere un partito borghese rivoluzionario degno di questo nome; la continua dipendenza ideologica dagli sceicchi, dai capi guerriglieri, manteneva la popolazione araba in una arretratezza politica e culturale di fondo, tanto da rigettarne consistenti gruppi nelle braccia dell’estremismo religioso. Non bastava che il capitalismo stravolgesse la vecchia società agricola e latifondista, che trasformasse masse di contadini palestinesi in proletari; le vecchie pesanti e arretrate abitudini comunitarie e contadine continuavano ad impedire alle nuove generazioni di conquistare una visione politica più evoluta.

Dal punto di vista proletario e comunista la questione nazionale relativa egli ebrei e ai palestinesi non si poneva e non si pone se non dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria in Medio Oriente. Gli ebrei, gli israeliani, la propria «questione nazionale» l’hanno in un certo senso risolta: hanno una loro identità nazionale, e non soltanto religiosa, uno Stato, un governo autonomo e un esercito, hanno una economia nazionale che riceve sì consistenti sovvenzioni da Washington ma che presenta una struttura produttiva di tutto rispetto non solo nell’industria mineraria e metallurgica, ma anche nell’agricoltura meccanizzata, per non parlare dell’industria turistica legata al turismo religioso. Resta il fatto che un quinto della popolazione (nel 2002 più di 6 milioni e 300 mila abitanti) è costituito da arabi israeliani, rimasti in Israele dopo il 1948; la loro condizione sociale è nettamente migliore di quella dei palestinesi dei Territori, ma subiscono anch’essi la discriminazione salariale in quanto «arabi», godono dei diritti politici ma sono esclusi dal servizio militare.

Nei Territori occupati vivono più di 3 milioni e 400 mila palestinesi, in 6.250 kmq (contro i 20.250 kmq di Israele); a causa della situazione di conflitto permanente le decine di migliaia di palestinesi che lavoravano in Israele (a salari molto più bassi dei lavoratori israeliani) non ci possono più andare, e infatti la disoccupazione è aumentata notevolmente (più del 40%); anche l’agricoltura ha subito notevoli colpi, sia a causa delle continue incursioni armate israeliane, sia a causa della costruzione del muro con il quale Israele intende alzare un confine difficilmente attraversabile (ed anche la costruzione del muro è stata occasione di appropriazione di terra palestinese, oltre ai periodici insediamenti dei coloni ebrei), sia a causa delle rare risorse idriche in mano ai palestinesi. E’ ormai noto che una buona parte della popolazione palestinese dei Territori sopravvive grazie agli aiuti internazionali. Ebbene, questa situazione è di per sé permanentemente esplosiva. Ma la politica perseguita dall’Olp non ha mai prodotto un effettivo sbocco alla situazione di permanente oppressione delle masse palestinesi, se non quello di aumentare la repressione da parte israeliana. Nemmeno dal punto di vista borghese nazionale l’Olp è stata in grado di attuare una politica coerente con gli obiettivi di indipendenza che ha scritto nei suoi statuti; e non poteva farlo vista la sua dipendenza completa dagli Stati arabi che la sostenevano, Egitto, Arabia Saudita, Siria, Iraq.

Gli è che la «questione nazionale palestinese» si è incancrenita a tal punto che non è stato difficile per le cancellerie di tutte le capitali imperialiste, e da Tel Aviv in particolare, soffocare la questione dell’oppressione nazionale palestinese coprendola con la «questione del terrorismo»; come se i kamikaze palestinesi che si fanno esplodere nei bar, nei posti di blocco o negli autobus israeliani fossero espressione di un estremismo estraneo alla lotta dei palestinesi per la propria sopravvivenza, mentre non sono che atti di estrema disperazione da parte di giovani che non hanno alcun futuro davanti. I kamikaze vengono strumentalizzati dalle organizzazioni terroristiche islamiche che hanno interesse a tenere alta la tensione sociale nell’area? Sì, strumentalizzati come può esserlo ogni atto di terrorismo, ma questo non toglie che questi atti non sono che risposte disperate a continui e sistematici atti di terrorismo statale attuati da Israele nei Territori occupati.

Dal punto di vista della vita quotidiana ciò che i proletari palestinesi vivono quotidianamente è la fame, la miseria, l’oppressione e le uccisioni a causa della repressione israeliana, e a causa dell’impotente politica dell’Olp. Sebbene i proletari palestinesi sono proletari quanto lo sono i proletari israeliani, nella misura in cui i proletari israeliani non hanno mai lottato contro la propria borghesia che opprime la nazionalità palestinese, i proletari palestinesi non possono distinguere fra borghesi e proletari israeliani, e non riescono a distinguere – di conseguenza – fra proletari e borghesi palestinesi. E fino a quando questo maledetto legame nazionale non viene spezzato attraverso la lotta proletaria e antiborghese, la questione «nazionale» palestinese non sarà mai superata. Fino a quando i proletari israeliani non lotteranno in maniera decisa e continuativa contro la propria borghesia perché questa riconosca nei fatti il diritto di separazione da parte dei palestinesi, sarà praticamente impossibile per i proletari palestinesi recepirli come propri fratelli di classe, considerarli come combattenti dalla stessa barricata: li considereranno complici dell’oppressione che subiscono quotidianamente. Da questo punto di vista i proletari palestinesi sono doppiamente sfortunati: hanno avuto ed hanno una borghesia nazionale incapace di svolgere fino in fondo il suo ruolo storico (portare all’indipendenza il proprio popolo rispetto al quale si erge come unica guida), e quindi continuano a subire la doppia oppressione borghese, salariale e nazionale; ed hanno di fronte un proletariato israeliano completamente prigioniero della sua borghesia dominante, che lo compra dal punto di vista materiale e delle condizioni economiche e lo influenza ideologicamente in modo profondo.

Da comunisti dobbiamo rifarci a Lenin, e alle sue battaglie in difesa di posizioni dialettiche che molti comunisti di allora e di oggi non capiscono. La prospettiva rivoluzionaria che vede il proletariato marciare verso la conquista del potere politico attraverso la rivoluzione e l’abbattimento dei poteri borghesi, o preborghesi, esistenti, non può non caricarsi dei compiti storici che la borghesia contro cui si combatte non ha saputo assumersi e risolvere. Soltanto che questi compiti storici la dittatura proletaria li assolverà alla proletaria, e non alla borghese, ossia in funzione della lotta rivoluzionaria internazionale.

La prospettiva proletaria non prevede necessariamente il passaggio borghese di un paese, oppresso da un altro paese, attraverso la sua costituzione in Stato borghese indipendente; sarà l’andamento della lotta di classe e rivoluzionaria che deciderà delle sorti di quel passaggio. Prevede però che il proletariato del paese oppresso abbia la solidarietà nella lotta contro l’oppressione da parte del proletariato del paese oppressore; e questa solidarietà questa unione nella stessa lotta di classe non può che verificarsi sul terreno della lotta antiborghese, anticapitalistica. Perciò il proletariato del paese oppressore è tenuto innanzitutto a dimostrare, con i fatti, con la sua lotta specifica, di non essere complice della propria borghesia nell’oppressione di un altro popolo, dunque di non trarre vantaggi specifici da quell’oppressione. Ecco perché – al di là delle possibilità reali di uno sbocco effettivo nella costituzione di uno Stato nazionale indipendente – è un dovere dei comunisti lanciare la parola d’ordine del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione; ma nello stesso tempo i comunisti lanciano la parola d’ordine della fratellanza di classe fra proletari palestinesi e proletari israeliani perché ognuno lotti contro la propria borghesia perché l’oppressione salariale non sparisce con la definizione dei confini di uno Stato nazionale.

Sappiamo, d’altra parte, che la lotta dei proletari palestinesi contro ogni forma di oppressione innesta inevitabilmente alleanze trasversali fra «nemici» di ieri poiché la loro lotta può contagiare le masse proletarie degli altri paesi dell’area mediorientale, di un’area per l’appunto strategica per l’imperialismo mondiale. Ecco perché la «questione palestinese», in realtà è una questione più vasta; si pone come minimo come «questione mediorientale». Questo, il nostro partito lo aveva compreso e in questo senso aveva a suo tempo dato delle risposte (ad esempio nel 1973).

Ma la complicatezza della situazione e l’andamento della lotta della resistenza palestinese ha provocato anche nel nostro partito di ieri alcune serie sbandate. Non abbiamo timore nel criticare posizioni errate che il nostro stesso partito di ieri prese, come quella che vedeva nelle formazioni di sinistra dell’Olp l’avanguardia possibile della rivoluzione proletaria in Medio Oriente, o quella ancor più assurda che lanciava la parola d’ordine della Repubblica operaia e contadina del Medio Oriente, sull’onda della lotta nazionale palestinese. La crisi che attraversò il nostro partito di ieri nel 1982-84 ebbe come detonatore proprio la «questione palestinese». Molte questioni di primaria importanza per un partito comunista rivoluzionario vi erano e vi sono collegate: ad esempio, la valutazione dei movimenti politici e sociali nelle varie aree del mondo, la definizione corretta della prospettiva rivoluzionaria nelle diverse aree del mondo, la concezione del partito di classe e dei suoi compiti sul piano teorico come su quello politico, tattico e organizzativo nelle aree in cui è presente e nelle aree in cui non è presente. Gli errori rimangono tali e vengono superati se si riconoscono e si correggono; se non si riconoscono come tali non si possono correggere, quindi si trasformano in posizioni contrarie, antimarxiste, controrivoluzionarie. C’è un solo modo per il partito di correggere i propri errori: rifarsi al programma, alle battaglie di classe che nelle diverse epoche sono state fatte dal movimento comunista internazionale per riconquistare la giusta rotta rivoluzionaria, alla teoria marxista. Lenin ebbe questa grande qualità, come poi Bordiga, saper applicare il metodo dialettico e la teoria marxista ad ogni questione che la lotta di classe e la storia pone al partito comunista, senza giustificare nuove posizioni o nuove teorie col pretesto della «diversa» situazione.

L’opuscolo che diamo alle stampe contiene una serie di articoli apparsi nella stampa di partito, di ieri e di oggi, in una continuità non formale, non stupidamente di facciata, ma di contenuto, di posizioni correttamente marxiste. Non pubblichiamo in questo opuscolo, ovviamente, altri articoli apparsi sempre nella stampa di partito ma che contengono posizioni sbagliate – come abbiamo richiamato qualche riga sopra – non nascondiamo, però, che il partito nello svolgimento della sua attività ha preso posizioni sbagliate. Il bilancio che abbiamo fatto delle crisi del partito, e in particolare dell’ultima del 1982-84, aveva lo scopo di riverificare le posizioni del partito, capire quali posizioni sbagliate furono prese e perché, e come superarle mettendosi nelle condizioni di non caderci domani nuovamente. Altri gruppi che si richiamano alle nostre stesse origini si vergognano del partito di ieri, di quello vero, reale, fatto di militanti che possono anche sbagliare; essi preferiscono nascondere le magagne, come le massaie quando infilano la polvere sotto il tappeto, invece di affrontarle, sviscerarle e superarle; evidentemente hanno del partito una visione metafisica, formale, dunque falsa. E quando non riescono a nascondere che vi sono state posizioni sbagliate, anche gravi, tentano di giustificarsi accusando tizio o caio, o la solita «cricca» di aver portato il partito all’errore. Non basta scrivere sotto la testata del proprio giornale «organo del partito comunista internazionale», e pubblicare la manchette del «distingue il nostro partito». Ci vuole ben altro per dimostrare di essere correttamente sulla linea della sinistra comunista e delle sue battaglie di classe.

 

Maggio 2004

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice