Portuali in lotta in Israele:
finalmente un episodio di vitalità proletaria israeliana sul terreno immediato di classe

(«il comunista»; N° 92; Ottobre 2004)

 

Proletari israeliani in sciopero?

Subito una marcia di protesta…

I grandi media non ne hanno parlato; i media di cosiddetta “sinistra” (tipo “manifesto” o “liberazione”) nemmeno. Si è potuto, invece, leggere un trafiletto ne «Il Secolo XIX» di Genova, visto che la vicenda riguarda i porti di Haifa, di Ashdod e di Eilat.

Trascriviamo il trafiletto: «Genova. I “colletti bianchi” di Haifa sono scesi in piazza per manifestare contro i continui scioperi die portuali, che da tre settimane bloccano di fatto l’attività nei porti israeliani, malgrado precettazioni governative ed ingiunzioni giudiziarie. La protesta dei portuali è rivolta al progetto governativo di (parziale) privatizzazione dei porti, in agenda ormai da alcuni anni, approvato in via definitiva il mese scorso. La riduzione dell’attività ad Haifa, Ashdod ed Eilat è di almeno il 70%. Secondo gli industriali, il costo della vertenza per il sistema produttivo è già nell’ordine dell’ 1% del PIL annuo» (1).

Dunque, i soliti piccoloborghesi, impauriti dalla forza dei portuali in sciopero e timorosi di perdere i loro piccoli e meschini privilegi, hanno osato scendere in strada ma solo per marciare contro i proletari dei porti israeliani. Se i “colletti bianchi” di Haifa non fossero scesi a marciare contro gli scioperanti probabilmente non se ne sarebbe saputo nulla. Tant’è.

Si viene a sapere pochissimo degli scioperi, di come si sono svolti, dell’atteggiamento dei sindacati ufficiali, delle rivendicazioni, della reazione delle istituzioni e dei proletari di altri settori. Ma è in ogni caso importante la notizia secondo cui i portuali hanno continuato nei loro scioperi anche quando sono stati intimiditi dalle precettazioni e dalle sanzioni giudiziarie.

La lotta contro le previste privatizzazioni è in realtà una lotta contro i licenziamenti e la incipiente precarietà (in questo caso si può parlare di lotta preventiva); anche in Israele il posto di lavoro nel settore pubblico è sempre stato considerato (dagli stessi borghesi e dagli stessi sindacati ufficiali) “più sicuro” se non altro perché si immagina che lo Stato non fallisca come invece può succedere ad una azienda privata. Perciò, la “lotta contro la privatizzazione” per i proletari interessati direttamente significa lotta contro i probabili licenziamenti, la probabile precarietà, contro la inevitabile riduzione del salario e l’inesorabile aumento della produttività. Se poi è vero che le settimane di sciopero hanno provocato un danno notevole (addirittura l’1% del PIL), allora è da credere che le forze di conservazione e reazionarie israeliane abbiano messo in moto i colletti bianchi appositamente (come la Fiat, nel 1980, che organizzò la marcia dei 40.000 quadri contro lo sciopero ad oltranza degli operai), per isolare i portuali nella loro lotta mostrando che hanno “il paese” contro.

La nostra voce non arriva in Israele, almeno direttamente, ma se fossimo in grado di farci sentire dai portuali di Haifa, di Ashdod o di Eilat diremmo loro che il risultato più importante che essi riusciranno a raggiungere sarà aver lottato contro la pace sociale, contro le regole che imbrigliano ogni movimento di difesa del salario e del posto di lavoro, in una unità anticapitalistica che non ha avuto bisogno se non del coraggio di lottare, della volontà di non abbassare la testa di fronte alle decisioni che la classe dominante borghese e il padronato prendono sistematicamente sulla pelle dei proletari. Diremmo loro che dai “colletti bianchi”, dagli strati piccolo borghesi come d’altra parte dagli strati di aristocrazia operaia solitamente legata a filo doppio agli interessi di conservazione sociale, non c’è nulla di buono da aspettarsi, e che li avremo sempre contro, non solo quando scendono in strada a manifestare contro gli scioperi, ma anche quando abbracciano la causa “nazionale” istigando il razzismo, la xenofobia, l’oppressione nazionalistica in chiave “antiaraba” o “anti-stranieri”. Diremmo loro che la lotta classista ha bisogno non solo della spinta materiale a difendere il proprio salario e il proprio posto di lavoro, ma anche di organizzazioni immediate in grado di resistere nel tempo sul terreno della lotta di classe, in grado di dirigere gli scioperi con metodi e mezzi di classe e per obiettivi classisti e perciò unificanti, in grado di mettere in cima agli obiettivi per cui lottare non solo la difesa del salario e del posto di lavoro, ma anche la lotta contro la concorrenza fra proletari dei diversi settori e delle diverse nazionalità. E’ dalla lotta fianco a fianco per obiettivi unificanti e sul terreno dell’antagonismo di classe che nasce, prospera e si consolida la solidarietà di classe fra proletari, quella solidarietà che non dipende dagli interessi individuali e solo immediati ma che proviene dalla fiducia nelle proprie forze, nella propria causa, nei propri obiettivi, nelle proprie organizzazioni di classe.

Non sappiamo se proletari di altri settori abbiamo dimostrato solidarietà alla lotta dei portuali; se fosse successo sarebbe un tassello in più nella conquista del terreno di classe del proletariato israeliano. E non sappiamo se proletari non israeliani, immigrati dai più diversi paesi, abbiano dimostrato solidarietà a questa lotta, immedesimandosi in una certa misura nella lotta contro la concorrenza fra proletari che certamente la privatizzazione dei porti amplificherà in modo gigantesco. Non sappiamo se gli scioperi sono terminati o se continuano ancora, e se i portuali abbiano o meno raggiunto con le “controparti” degli accordi. Sappiamo però, anche in virtù di quanto è già avvenuto in tutti questi anni, e sta ancora avvenendo, nei paesi a capitalismo avanzato come quelli dell’Europa occidentale, che la via delle famose “privatizzazioni” è una via obbligata per il capitalismo; possono passare molti anni o pochi, ma è certo che lo Stato borghese è chiamato a liberarsi in misura sempre più ampia della gestione diretta dell’economia per abbattere in modo consistente il castello di “garanzie” e di ammortizzatori sociali costruito nei decenni dalla fine della seconda guerra mondiale allo scopo di tenere avvinta a sé la classe operaia ottenendone collaborazione, complicità, sudore e sangue.

La strada della lotta di classe e dell’unificazione dei proletari nella lotta comune contro l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro, è l’unica strada che i proletari, a qualsiasi settore, nazione, razza, sesso, età o religione appartengano, possono percorrere con successo. Le altre strade portano inesorabilmente, prima o poi, alla sconfitta, al ribadimento delle condizioni di schiavitù salariale in cui ogni proletario è costretto a vivere sotto il capitalismo. Probabilmente gli scioperi dei portuali israeliani rimarranno per diverso tempo un episodio non seguito da altri; è certo in ogni caso che la borghesia dominante, il padronato e tutte le forze politiche e sindacali del collaborazionismo interclassista si adopereranno perché l’esempio dei portuali di Haifa, di Eilat, di Ashdod non venga seguito da altri proletari dell’industria, dei servizi, del commercio, dell’agricoltura. Ma è altrettanto certo che i proletari israeliani, se vorranno difendere effettivamente le proprie condizioni di vita e di lavoro dovranno rompere i legami con il sionismo, con il nazionalismo ebreo, con l’impotente democrazia borghese e pacifista a causa dei quali non solo non è stato finora in grado di organizzarsi in modo indipendente, ma nemmeno di reagire contro la propria borghesia nell’oppressione nazionale che esercita contro i palestinesi da decenni. Il proletariato che non combatte contro la propria borghesia che col suo potere opprime altri proletariati e altri popoli, è un proletariato destinato a subire esso stesso la peggiore delle oppressioni borghesi: la sua complicità nell’opera di oppressione, il suo collaborazionismo nell’opera di espansionismo territoriale e di imperialismo della propria borghesia non lo proteggeranno dalla crisi economica, dalle crisi di guerra: dovrà versare lo stesso il proprio sangue ad esclusivo vantaggio dei profitti borghesi.

Ecco perché gli scioperi dei portuali israeliani, ad oltranza e senza paura di rompere la collaborazione e la pace sociale, sono un segnale di speranza per i fratelli di classe di tutto il Medio Oriente. Data la situazione storica in cui si sono sviluppati i paesi del Vicino e Medio Oriente, in cui Israele rappresenta il paese economicamente più sviluppato, il movimento proletario israeliano potrebbe rappresentare una forza davvero dirompente nel caotico scenario mediorientale, e prendere la testa di un vasto movimento proletario che coinvolgerebbe tutti i paesi arabi, il Vicino e il Medio Oriente, il nord Africa, il Caucaso, con ripercussioni inevitabili anche nella vecchia Europa. Lo sviluppo del movimento proletario israeliano sul terreno della lotta di classe può sembrare un sogno dato che in tutti questi decenni, dalla fondazione di Israele in terra di Palestina in poi, i proletari israeliani sono sempre stati prigionieri del sionismo, della “terra promessa”, di una “nazione” mai avuta. In Europa, a causa della bestiale oppressione che subiscono da mezzo secolo e oltre, sono i palestinesi, con la loro indomabile spinta ribellistica, con la loro lotta armata per un riconoscimento nazionale sempre agognato e mai avuto, a rappresentare – per tutti i democratici di sinistra – la parte da sostenere, da difendere, da incoraggiare. Ma, sebbene in altro modo e con altri mezzi, alla pari del proletariato israeliano, lo stesso proletariato palestinese è da sempre prigioniero del nazionalismo che la propria borghesia alimenta con grande sforzo, nazionalismo spinto dalla disperazione delle condizioni di sopravvivenza fino al fondamentalismo religioso; ai proletari palestinesi spetta il compito di rompere i legami con la propria borghesia, certamente più meschina e corruttibile di quella israeliana viste le condizioni di semi-segregazione in cui è costretta a svolgere la sua attività di sfruttamento del proprio popolo e del proprio proletariato.

Ma i rivoluzionari sognano non il mondo sdolcinato della democrazia borghese che imbroglia e falsifica la realtà continuamente; sognano la rivoluzione, l’atto più autoritario e tremendo che si possa immaginare perché soltanto attraverso il taglio chirurgico della rivoluzione proletaria si potrà cominciare finalmente a vivere per la gioia di vivere e non più morire per la gioia dei profitti capitalistici. E questo sogno si attuerà, deterministicamente, nonostante oggi i proletari dei paesi più sviluppati siano ancora invischiati nel pantano della democrazia e degli ammortizzatori sociali, e i proletari dei paesi meno sviluppati siano ancora invischiati nelle spire del fondamentalismo religioso e dei clan.
 

 


 

(1) Cfr “Il Secolo XIX”, 4 agosto 2004.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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