Europa, lupanare borghese
bagno penale per i proletari

(«il comunista»; N° 92; Ottobre 2004)

 

TL’Unione Europea si è allargata a 25 membri; oggi, dunque, l’associazione capitalistica che vanta più lontane tradizioni storiche si presenta al mondo, e in particolare ai suoi concorrenti americani e asiatici, più forte. Sono stati inglobati un po’ di paesi dell’Est, sganciatisi nel corso degli anni Novanta dalla tenaglia militaresca e imperialistica di Mosca per finire nella tenaglia democratica e imperialistica di …Bruxelles (ma leggi soprattutto Berlino, Parigi, Roma); e da tempo la orientalissima Turchia batte alle sue porte per entrarvi.

L’Unione Europea dei 15 rappresentava più di 378 milioni di abitanti; quella dei 25 ne conta più di 452 milioni ai quali, quando Turchia, Romania e Bulgaria si assoceranno, si aggiungono altri 70 milioni portando la cifra totale al di sopra dei 520 milioni di abitanti, con una popolazione attiva che da 207 milioni di unità raggiungerebbe i 230 milioni di unità (più di Stati Uniti, Canada e Giappone messi insieme). Un mercato davvero imponente, anche se l’allargamento a 25 membri ha ridotto, rispetto all’UE dei 15, in modo consistente il Prodotto Nazionale Lordo medio per abitante (PNL) da 24.574 $ a 17.502$; il PNL per abitante negli Stati Uniti resta molto più alto: 36.215 $, mentre in Giappone è di 31.444 $ e in Canada è di 23.114 $; nella stessa Russia (a dimostrazione dell’effervescenza capitalistica di questo paese e del bestiale tasso di sfruttamento del proletariato) è di 36.838 $, addirittura più alto che negli USA.

L’Unione Europea rappresenta prima di tutto un mercato, nel quale le forze capitalistiche e imperialistiche più importanti del mondo (rappresentate da Stati nazionali e da trust multinazionali) insistono con grandissima pressione. Certo, vi sono dettate regole affinché siano impedite scorribande selvagge di capitali, non importa di quale provenienza, che disorienterebbero il corso controllato degli affari dei paesi membri e i loro programmi. Ma questo non significa che i contrasti fra capitali nazionali, fra trust concorrenti, fra Stati, siano scomparsi o siano superabili in virtù dei negoziati che da decenni caratterizzano i rapporti fra gli Stati che formano l’Europa. Lo stesso Euro, moneta “unica”, se da un lato ha messo le economie dei 12 paesi europei che hanno accettato di far “gestire” le proprie economie nazionali secondo parametri comuni, in condizioni di essere più legate fra di loro, e più reciprocamente sostenute, dall’altro svela continuamente la fragilità di questi legami dovuta sempre e comunque alla tendenza congenita ad ogni capitale aziendale o nazionale di “correre” per conto proprio per battere la concorrenza e ingrossarsi a discapito dei capitali concorrenti. Il capitalismo, nella spasmodica corsa alla valorizzazione del capitale, genera e alimenta la concorrenza; ne ha bisogno per svilupparsi, per stimolare gli affari, ma nello stesso tempo la combatte perché il capitale diventa più grande, più potente nella misura in cui fa fuori altri capitali, li ingloba, li assorbe, li spolpa, li distrugge. Questa contraddizione sta nelle radici stesse del capitalismo e per quanti sforzi i borghesi facciano per rimediare agli aspetti più brutali e pericolosi della lotta di concorrenza (si può “vincere” ma si può “perdere” e sparire), la concorrenza fra capitali, la concorrenza fra aziende, e quindi la concorrenza fra Stati, è insormontabile: la si può regolare per un certo periodo, ma sarà sempre una situazione temporanea nella quale si accumulano comunque, inevitabilmente, i fattori di scontro, di lacerazione, di crisi e di guerra che il corso stesso di sviluppo del capitalismo porta con sé.

La «nuova Europa» dovrebbe facilitare la circolazione delle merci, dei capitali e la circolazione delle persone. Le frontiere dovrebbero cadere permettendo così agli abitanti dei paesi europei di muoversi liberamente, per lavoro, per divertimento, per curiosità, per interesse culturale, fra i pesi membri. E nelle aspirazioni dei borghesi illuminati e riformisti, l’Europa dovrebbe diventare la casa comune dei popoli che hanno fondato le civiltà, da quelle più antiche alla moderna civiltà del capitale, naturalmente caratterizzate dai principi della democrazia per cui i popoli “scelgono” liberamente di associarsi e imboccare un comune cammino nella storia. La realtà è molto diversa: la libera circolazione agognata da ogni governo borghese, e da ogni capitalista, è in effetti la libera circolazione degli affari, degli accordi tra capitalisti, tra imprenditori, tra fazioni e lobby affaristiche che agiscono sistematicamente su tutti i campi (quello economico, finanziario, propagandistico, politico, sindacale, religioso, culturale) allo scopo di assicurarsi quote di mercato più importanti e di sviluppare le proprie relazioni, sia in modo legale che illegale, al di sopra di ogni frontiera, di ogni regola, di ogni limite, di ogni diritto altrui.

La «nuova Europa», per quanti sforzi facciano i vari governi e le varie classi dominanti nazionali, risponde ai vecchi e usurati principi della concorrenza borghese e capitalistica: i poteri forti, le economie più potenti, gli imperialismi più stabili e aggressivi, dettano le priorità, stabiliscono i parametri di ripartizione delle “quote”, ribadiscono la difesa intransigente dei propri interessi nazionali più profondi e irrinunciabili. Lo fanno sul piano politico e diplomatico, sul piano ovviamente economico e finanziario, e sul piano militare. Nel quadro generale della concorrenza mondiale, in particolare nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, le alleanze anche molto strette tra Stati diventano una necessità e, nello stesso tempo, un modo di difendere con più efficacia interessi nazionali e specifici che, altrimenti, sarebbe molto più arduo difendere con successo. Le alleanze, oltretutto, permettono agli Stati più forti, grazie alla loro capacità politica e militare di protezione degli interessi riconosciuti comuni fra gli alleati, di utilizzare diversi altri paesi come riserva privilegiata di caccia per le proprie merci e i propri capitali, e di utilizzarli in caso di più forti contrasti con altre potenze imperialistiche come Stati-cuscinetto sui quali scaricare parte delle tensioni, parte degli effetti critici accumulati in precedenza e parte degli attacchi alle proprie roccaforti economiche.

La «nuova Europa» non sfugge alle leggi della concorrenza capitalistica e alla legge fondamentale dello sviluppo del capitalismo che si chiama: caduta tendenziale del tasso medio di profitto. Da questo punto di vista, ogni polo capitalistico di peso cerca con sistematicità di aumentare il valore assoluto dei propri profitti proprio per tentare di combattere la caduta tendenziale del tasso medio di profitto. In questo senso, lo sfruttamento di interi paesi capitalisticamente più deboli da parte di Stati imperialisti più forti diventa una delle vie da imboccare per non cadere nell’arretratezza economica e nella posizione da colonizzatore a colonizzato.

Alla fine della seconda guerra imperialistica mondiale, la potenza economica e finanziaria degli Stati Uniti d’America era tale che essi riuscirono in una doppia impresa: scavalcare la Gran Bretagna come potenza imperialistica mondiale, e assoggettare al proprio capitale nazionale le potenze europee, sia alleate in guerra che vinte. Il condominio inter-imperialistico sul mondo post 1945 che gli Stati Uniti e la Russia condivisero per quarant’anni, assoggettando il mondo intero ad una spartizione imperialistica che funzionò per la conservazione del potere borghese e per lo sviluppo economico del capitalismo dopo i disastri della guerra, non poteva resistere oltre alle tensioni della concorrenza capitalistica internazionale; già con la crisi generale del 1973-75 le potenze imperialistiche dovettero fronteggiare un pericoloso declino economico dato che la formidabile espansione economica del secondo dopoguerra aveva esaurito le sue energie. La grande alleanza democratica che i paesi imperialisti occidentali idearono sia con la costituzione dell’ONU (al posto dell’ormai logora Società delle Nazioni) che con la costituzione di sotto-alleanze in Europa, in Asia, in America Latina, non poteva cambiare il corso storico dello sviluppo capitalistico: in realtà, con essa le potenze che rappresentavano le cosiddette democrazie in contrasto ideologico con il cosiddetto comunismo, tentavano di governare il mondo attraverso il consenso e la partecipazione del proletariato alla difesa del capitalismo, e dei capitalismi nazionali in particolare. Le potenze imperialistiche maggiori temevano che il secondo dopoguerra potesse presentare di nuovo sullo scenario mondiale un proletariato pronto a battersi per i propri interessi di classe, per i propri fini, per l’abbattimento dei poteri borghesi e l’instaurazione della propria dittatura di classe; e tutto ciò che poteva essere utilizzato per deviare il proletariato dal riconoscersi classe antagonista e interessata alla lotta senza quartiere contro ogni potere borghese a cominciare dalla propria borghesia dominante, è stato utilizzato: dalla propaganda della democrazia come bene supremo, da contrapporre al fascismo, al falso socialismo in Russia, dalla ripresa della guerra come metodo per imporre una spartizione del mondo già definita tra i grandi briganti imperialisti vincitore della guerra mondiale e per impedire alle colonie di togliersi di dosso l’oppressione coloniale (come in Corea, in Medio Oriente e poi in Vietnam, e poi ancora in Africa) all’applicazione di politiche opportunistiche e di ammortizzatori sociali, alla dura repressione degli scioperi e alle stragi. Il potere borghese democratico non si è mai astenuto dall’uso dei mezzi tra i più brutali e violenti se il fine è di difendere gli interessi specifici o più generali dell’affarismo e del profitto; non lo ha fatto durante il secondo macello imperialistico (i sistematici bombardamenti delle città da parte inglese e americana, l’atomica su Hiroscima e Nagasaki per esempio), non lo ha fatto successivamente quando il suo obiettivo era di sfruttare al massimo livello possibile le masse operaie nella ricostruzione post-bellica dell’economia capitalistica.

A 8 anni dalla fine della guerra mondiale, i fatti di Berlino 1953, con la ribellione armata del proletariato contro tutti i borghesi, non importa se tedeschi, inglesi, americani o russi, fecero scorrere sangue gelato nelle vene della borghesia europea di allora che ricordò con terrore di che cosa era capace il proletariato quando prende in mano direttamente la propria lotta e usa la propria forza e la propria determinazione per risolvere la questione “sociale” in campo aperto. Sfortunatamente per i proletari di Berlino, e per il proletariato internazionale, l’opportunismo stalinista aveva lavorato con successo rendendo impossibile l’allargamento della lotta, e la conoscenza stessa dei fatti che quella lotta caratterizzavano. Il proletariato, incanalato nelle false alternative della democrazia, pur esplodendo la propria carica di classe e dimostrando in più episodi (Berlino 1953, Budapest 1956, Torino 1969, Danzica 1970, ancora Italia 1978 e ancora Danzica e Torino 1980, i minatori inglesi 1984, i ferrovieri francesi 1985, i minatori russi 1989, e mille altri episodi molto più spezzettati nei diversi paesi) di essere portatore di metodi e di mezzi di lotta classista, nonostante la pluridecennale intossicazione intermedista e collaborazionista da parte dei sindacati e dei partiti che pretendono di rappresentarlo sul terreno della lotta economica immediata e sul terreno politico più generale, ha continuato a presentare e presenta ancor oggi una difficoltà notevole a rompere con le illusioni e le pratiche del democratismo e del riformismo ed imboccare finalmente con forza, fiducia e determinazione il cammino della lotta di classe indipendente. Ciò vuol dire che il proletariato europeo non sarà più in grado di riprendere la strada della lotta classista, e che si è imborghesito a tal punto da non poter più offrire al proletariato internazionale alcuna prospettiva rivoluzionaria?

Se i proletari dei paesi europei credono ancora ai parlamenti, alle concertazioni con l’imprenditoria e con lo Stato centrale, alla via democratica, pacifica, legalitaria, insomma borghese alla propria emancipazione, si deve concludere che sono proletari per i quali si deve escludere per il futuro qualsiasi apporto alla lotta classista e rivoluzionaria? O magari che si debba escludere che la via rivoluzionaria dell’emancipazione del proletariato, e con lui dell’intera umanità, dalla schiavitù salariale e capitalistica vada definitivamente abbandonata e sostituita con altre vie da elaborare a seconda dei paesi, delle tradizioni, delle abitudini nazionali?

Ci sono sedicenti marxisti che pensano che sarà proprio così; sono gli aggiornatori del marxismo, coloro che spendono le proprie energie e la propria intelligenza per dimostrare che il capitalismo è eterno, e che agli uomini non resta che adeguare di volta in volta le proprie aspirazioni a seconda delle possibili migliorie da apportare al governo dell’economia e degli Stati. Ebbene, l’ideologia europeista si innesta bene nelle visioni dei nuovi teorici di un proletariato che non è più lui, degli operai che non sono più operai, dei salariati che sono sempre più lavoratori autonomi, insomma delle masse popolari che indistintamente rivolgerebbero le proprie aspirazioni ad un capitalismo sostenibile, ad un capitalismo meno aggressivo, meno guerraiolo, meno assetato di profitto, meno brutalmente sfruttatore del lavoro salariato.

Da questo punto di vista, il livello europeo della politica borghese appare come la nobilitazione della politica nazionale, come l’ambito nel quale è possibile dare al popolo elettore una visione politica più ampia del proprio orticello. E mentre da un lato l’ideologia borghese tende a chiudere ogni persona nella propria individualità, a occuparsi solo di se stessa e del proprio orticello (la propria famiglia, i propri affari, la proprietà privata, l’eredità, ecc.), dall’altro cerca di rispondere al bisogno di socialità più ampia con le illusioni su frontiere che si possono attraversare senza problemi, su una comunità felice di vivere e di progredire nel commercio, nel mercato, nelle attività che “fanno profitto”, su un futuro che ogni persona può determinare da se stessa a seconda delle “scelte” che fa, prima a scuola e poi nel “mondo del lavoro”.

Ma i contrasti materiali, sul piano economico e politico fra interessi capitalistici in concorrenza fra di loro, non sono superabili con le illusioni ideologiche. L’europeismo è la rappresentazione demagogica dei contrasti interimperialistici, destinata ad andare in pezzi di fonte a decisioni che vanno ad intaccare i più profondi interessi dei rispettivi capitalismi nazionali, come è più volte avvenuto sulle questioni delle politiche agricole, sulle fusioni bancarie, sugli stessi parametri da rispettare rispetto all’euro, ecc. Non è allargando l’orto borghese, dai confini privati a quelli nazionali o a quelli europei, che l’orto si trasformi in qualcosa di diverso: perché frutti qualcosa bisogna sempre possedere (o per lo meno affittare) un pezzo di terra, comperare sementi, seminare, fertilizzare, seguire la crescita degli ortaggi impedendo possibilmente ai parassiti o ad altri fattori “esterni” di distruggere il raccolto, e poi raccogliere, mangiare e vendere il surplus , ricomprare sementi, seminare ecc. ecc. ecc. La trasformazione, in realtà, è già avvenuta con la rivoluzione industriale e con le continue innovazioni tecnologiche, per cui l’attitudine borghese a privilegiare il proprio orticello, la propria persona, l’interesse individuale, si scontra con un’attitudine egualmente borghese a privilegiare un meccanismo economico sociale che supera l’individuo, tanto da piegarlo a regole che non controlla più personalmente, che è il meccanismo del mercato, il sistema della produzione e della distribuzione capitalistica. E’ il capitale che ha in mano la società, non il contrario; i borghesi, i capitalisti sono essi stessi agli ordini del capitalismo, ossia di un sistema sociale che ha messo al proprio centro la soddisfazione continua e incessante dei bisogni di valorizzazione del capitale stesso.

Tutto, ogni attività umana, ogni secondo di vita su questa terra in questa società, viene obbligatoriamente rivolto, indirizzato, spinto alla soddisfazione del profitto, ossia di quel bisogno del capitale di valorizzarsi continuamente. Non vi è altro modo di svilupparsi, per il capitale, che di sfruttare sempre più estesamente e sempre più intensamente la forza lavoro salariata perché soltanto da questo sfruttamento, che è tipico esclusivamente della società capitalistica, il capitale ha la possibilità di aumentare, di accumularsi e di moltiplicarsi. Lo sfruttamento del lavoratore salariato sta tutto in un punto specifico del ciclo produttivo capitalistico: nel pluslavoro, ossia in quel tempo di lavoro per il quale l’operaio non viene pagato e che il capitalista trasforma in plusvalore nel momento in cui le merci prodotte vengono portate al mercato e vendute. Il guadagno del capitale, e quindi del capitalista, sta tutto nelle quote di tempo di lavoro non pagato ai lavoratori salariati i quali è ben vero che percepiscono un salario per il lavoro che fanno, ma quel salario non corrisponde mai all’intero valore del tempo di lavoro messo a disposizione dell’imprenditore capitalista; il salario corrisponde – alla pari di qualsiasi altro prezzo delle merci – ad un prezzo di mercato, cioè al prezzo che gli imprenditori sono disposti a pagare per quelle ore al giorno e per quel tipo di lavoro. E’ dunque il rapporto di forze fra borghesi e proletari che determina il prezzo della merce: forza lavoro; e questo rapporto di forze non è partito “alla pari” perché i borghesi hanno violentemente espropriato i contadini della terra su cui lavoravano e una parte degli artigiani si sono trasformati in industriali con i primi opifici e le prime manifatture dove facevano lavorare – al prezzo-salario che decidevano loro – i contadini espropriati e diseredati.

Oggi, il fatto che il mondo giri intorno al capitale, al mercato, e che la società sia divisa in proprietari terrieri, in imprenditori capitalisti e in lavoratori salariati, appare come una cosa normale, naturale; il fatto di “far soldi”, di come procurarsi da mangiare e da vivere facendosi sfruttare o sfruttando altri, sembra ovvio e alla stragrande maggioranza degli abitanti di questo pianeta è difficile immaginare un mondo in cui non esista più merce, denaro, capitale, banche, tasse da pagare, e il tormento del lavoro in cui si viene sfruttati ogni giorno di vita. Allungare lo sguardo oltre i confini del proprio orto, dello Stato nazionale in cui si è nati e si vive, è sicuramente una cosa positiva; ma nella società capitalistica oltrepassare quei confini lo si può fare in condizioni diverse: come i borghesi o come i proletari. I borghesi oltrepassano i confini alla ricerca di guadagni ulteriori per i propri capitali, i proletari oltrepassano i confini alla ricerca di un padrone che dia loro un lavoro perché senza lavoro non vivono.

Migrano da sempre i capitali; migrano da sempre i proletari. Destini maledettamente incrociati, ma la migrazione dei proletari è segnata da sempre dalla miseria, dalla fame, dall’oppressione razzista, dalla guerra.

I borghesi rappresentano il capitale, e nella fattispecie i capitalisti rappresentano quelle frazioni di capitale che sono di loro proprietà. Nella libera circolazione dei borghesi fra paese e paese si esprime la libera circolazione dei capitali, alla quale oggi si aggiunge una circolazione virtuale grazie alla tecnologia della rete internet. In questo modo i capitalisti sono in grado di seguire le vicende dei propri capitali, investire o disinvestire capitali, acquistare o vendere merci e capitali, anche senza muoversi dalla propria scrivania; in questo modo è ancor più evidente come il capitalista non sia che la lunga mano del capitale, succube anch’esso di un mercato che detta legge al di là degli interessi personali e privati del tale o tal altro capitalista.

I proletari rappresentano il lavoro salariato, la forza lavoro che per mangiare è obbligata a vendersi a un padrone, un capitalista, un’azienda, e che non determina il proprio prezzo se non attraverso un meccanismo che riproduce continuamente ogni giorno la precarietà del lavoro stesso. I proletari migrano da un posto di lavoro ad un altro, da un posto di lavoro alla disoccupazione, da un paese ad un altro, dalla vita all’infortunio e alla morte sempre obbligati dalla stessa condizione di vita: devono vendere la propria forza lavoro, non possono vivere e dar da vivere alla propria famiglia se non a questa vitale condizione. In questo senso i proletari di tutto il mondo sono uniti, anche se non si conoscono e non si conosceranno mai, dalle stesse identiche condizioni di lavoratori salariati; sono uniti dal capitale stesso, messi appunto nelle stesse condizioni, trattati da schiavi salariati in ogni angolo della terra. La loro unione cosciente, al di sopra delle frontiere, al di sopra delle divisioni nazionali o religiose o razziali, è invece una conquista solo proletaria, data dalla lotta di classe e dalla solidarietà classista che nella lotta si forgia.

I borghesi europei hanno un loro sogno: gli Stati Uniti d’Europa.

I proletari d’Europa hanno anch’essi un sogno: la rivoluzione internazionale che dall’Europa si estenda, migri, in tutto il mondo.
Gli Stati Uniti d’Europa non vedranno mai la luce se non ad una condizione: che uno Stato europeo, più forte e aggressivo di tutti gli altri, riesca a piegare militarmente tutti gli altri Stati. Ci provò la Germania superindustrializzata e particolarmente aggressiva sotto Hitler con la guerra del 1939-1945 e con l’obiettivo di costituire un unico grande Reich; occupò gran parte dei paesi europei, oltre ai paesi costieri del Mediterraneo, ma perse la guerra contro gli anglo-americani e l’Europa unita come unico Stato si perse nelle nebbie delle illusioni piccolo borghesi. Non è detto che non ci possa riprovare nuovamente la Germania di domani, stretta com’è da sempre tra Gran Bretagna, Francia e Russia; ma è improbabile dato il livello di attenzione che queste tre potenze imperialistiche, insieme agli Stati Uniti d’America, mantengono nei suoi confronti. In un certo senso, almeno per quanto riguarda la parte dell’Europa occidentale, alla fine della seconda guerra mondiale è stata Sua Maestà il Dollaro americano che ha in parte unito l’Europa – dopo aver piazzato le proprie basi militari dappertutto – in una specie di colonizzazione finanziaria dalla quale ancor oggi i paesi europei non riescono a fare a meno; mentre ad Est, Sua Maestà il Militarismo russo ha unificato la fascia di paesi che dall’Estonia alla Bulgaria costituiscono l’est europeo, occupandoli militarmente ed imponendo loro una pluridecennale sudditanza da Mosca. In ogni caso, tali aggregazioni si sono sempre verificate sotto il tallone militare e mai per via pacifica.

Da tempo, i borghesi europeisti convinti dicono che invece è possibile arrivare all’«Europa unita» sia economicamente che politicamente, per via pacifica, elettorale e parlamentare, anche se questo processo è previsto che duri molti anni. In realtà, più gli anni passano, e più i contrasti interimperialistici si acuiscono accumulando tensioni e fattori di crisi che non potranno provocare che crisi più acute e guerra, non certo una via “pacifica” ad un’Europa unita.

La visione marxista è sempre stata molto netta e chiara su questo argomento. Marx ed Engels, nel 1848, quando l’Europa rappresentava la parte del mondo più avanzata, non parlavano di Europa unita sotto il vessillo borghese ma parlavano di rivoluzione proletaria europea e questo aveva il significato di rivoluzione proletaria mondiale. Lenin, nel 1915, parlando degli “Stati Uniti d’Europa” a guerra mondiale già in corso, è tranchant: «Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”, gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari» (1). Lenin non è settario, è marxista e quindi dialettico, e sa che tra Stati capitalisti, come tra imprenditori capitalisti, nonostante la forte concorrenza che li mette prima o poi in grave urto, sono possibili accordi, alleanze. E infatti sostiene: «Fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tale senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a quale fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America che sono molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata».

Dunque, per Lenin, gli Stati Uniti d’Europa, in regime capitalistico, significherebbero l’organizzazione della reazione, con due obiettivi: contro il proletariato per schiacciare le forze del comunismo rivoluzionario, contro altre potenze concorrenti per frenarne lo sviluppo e per rimettere in discussione la spartizione imperialistica del mondo.

Per i proletari, parlare di Europa unita è come parlare di Medio Oriente unito: unito sotto quale regime, e a che scopo, questa è la domanda da fare. Il proletariato non ha interesse ad unirsi nei progetti di alleanza fra capitalisti e potenze borghesi, dunque non ha interesse ad una Europa “unita” piuttosto che “divisa”, tanto più che l’unione dei capitalisti europei non porta alcun vantaggio al proletariato europeo ed extraeuropeo. Basti pensare a come vengono accolti i proletari immigrati da altri paesi. L’obiettivo della lotta politica del proletariato in quanto classe (dunque dal punto di vista universale del concetto di classe) non può dipendere dai confini che sono stati disegnati, costruiti, fissati, rimossi, spostati, ricostruiti dalle guerre borghesi; dipende dalla finalità storica del superamento definitivo della società capitalistica in tutto il mondo e non in una sola sua parte, dalla finalità storica della distruzione di ogni società divisa in classi per aprire il futuro al genere umano in una società senza classi e perciò senza confini, senza oppressioni, senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Perciò il campo di lotta del proletariato è l’intero pianeta, e non è un caso che la parola d’ordine con cui termina il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels sia: proletari di tutto il mondo unitevi. Sono i proletari che si devono unire, contro ogni piccola o grande unione dei capitalisti, delle potenze capitalistiche e imperialistiche che non hanno altro scopo se non quello di mantenere in vita una società putrefatta, che basa la propria sopravvivenza sul perdurare dello sfruttamento del lavoro salariato.

L’internazionalismo proletario è un grido di battaglia, è la chiamata alla lotta di tutti i proletari per gli stessi fini, per la stessa lotta, per la stessa rivoluzione sotto ogni cielo: la rivoluzione proletaria mondiale. Che la lotta di classe e rivoluzionaria, e la sua trascrescenza in rivoluzione proletaria inizi in un paese piuttosto che in un altro è un dato storico innegabile: l’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico dei paesi del mondo è una legge assoluta del capitalismo, e ciò provoca una ineguale maturità dei fattori oggettivi (le condizioni economiche, sociali, politiche e storiche) e soggettivi (il partito di classe e le associazioni economiche immediate del proletariato) della rivoluzione proletaria.

Ma questi fattori sono essi stessi prodotti dallo sviluppo del capitalismo e della lotta di classe fra proletariato e borghesia. E nella prospettiva della lotta di classe non c’è posto per le illusioni piccolo borghesi sull’Europa unita in regime capitalistico; l’Europa borghese non sarà mai la libera unione delle nazioni, ma la loro coercizione sotto l’egida delle potenze più forti che nello schiacciare il proletariato di ogni nazione schiacciano contemporaneamente anche le nazioni più piccole e deboli. Se la faranno sarà un’organizzazione della reazione borghese in più da combattere.

 


 

(1) Cfr. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, 1915, in Opere, vol. XXI, pp. 312-313.exto del articolo

 

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