Sul rinnovo contrattuale del pubblico impiego

(«il comunista»; N° 96; Luglio 2005)

 

 

Dopo ben 17 mesi da quando era scaduto il contratto del pubblico impiego, i sindacati tricolore hanno concluso le trattative col governo; sono arrivati anche a minacciare uno sciopero generalre di 4 ore, che all’ultimo momento naturalmente hanno ritirato.

Sta di fatto che pure alcune forze politiche, come AN, che stanno al governo avevano interesse a chiudere il contratto col pubblico impiego, per puro interesse di bottega elettorale e non certo per solidarietà coi lavoratori.

Bene, che cosa hanno ottenuto allora i 3 milioni circa di lavoratori del pubblico impiego, la categoria più numerosa in assoluto?

Come volevasi dimostrare, briciole!!!

La richiesta iniziale era di un aumento medio dell’8% (ossia circa 160 euro lordi mensili); in conclusione il governo, dopo aver ballato più volte sul 3-4% di aumento, ha concesso il 5% medio di aumento (quindi circa 100 euro lordi mensili) di cui comunque uno 0,5% andrà legato al recupero di produttività attraverso una maggiore flessibilità/mobilità dei lavoratori. E così entra a pieno titolo nel concetto di aumento salariale richiesto per recuperare quello che l’inflazione si mangia sistematicamente, una percentuale legata all’aumento della flessibilità; oggi è lo 0,5%, ma domani può diventare l’1% o il 2%. E bravi i sindacati tricolore, hanno dato una volta ancora una mano al datore di lavoro pagando con un abbattimento del salario reale dei lavoratori e un aumento della flessibilità dul lavoro!

I 160 euro che venivano chiesti erano, secondo gli stessi sindacati tricolore, appena sufficienti a coprire il salario perso per effetto dell’inflazione. Perciò i 60 euro non presi costituiscono una perdita di salario, un abbattimento di salario, e se si calcola l’intero periodo reale di copertura del contratto di lavoro (il biennio economico sta diventando nei fatti un quadriennio), ossia circa tre anni e mezzo, ai lavoratori di questo «aumento» non resta praticamente che una briciola. Nel frattempo viene loro chiesto di aumentare la produttività e quindi la concorrenza fra di loro, pena la perdita dello 0,5% di salario.

I lavoratori del pubblico impiego, per molti anni sono stati considerati, dagli operai del settore privato, dei privilegiati: a poca fatica corrispondeva un salario più buono. Ma la crisi dei profitti capitalistici sta mettendo a nudo una politica sociale che tende ad abbattere, per le grandi masse, le condizioni di salario e di lavoro più «garantite». Con questo non si vuol dire che spariranno i piccoli privilegi sui quali i borghesi privati e pubblici hanno sempre giocato per dividere in tante stratificazioni diverse la massa proletaria. E’ però facilmente constatabile la tendenza borghese ad abbattere tutta una serie di «garanzie» che un tempo formavano un consistente pacchetto di privilegi che consentivano alle forze dell’opportunismo e del collaborazionismo di influenzare la grande massa proletaria sulla base di fatti materiali reali. Ora, quel pacchetto di privilegi sta sempre più diventando striminzito rispetto alla massa dei lavoratori salariati, anche se non dubitiamo che per una frazione più ristretta di quella attuale di proletari i borghesi troveranno sempre soldi e vantaggi da spartire in funzione della sua corruzione e complicità, potendo così contare su di una aristocrazia operaia più dichiaratemente legata alle sorti del datore di lavoro, privato o pubblico che sia.

La Confindustria, che ha ancora il problema di chiudere definitivamente diversi contratti di categoria, temeva che per sole ragioni elettorali il governo cedesse di più alle richieste salariali rispetto ai 95 euro di aumento medio su cui il governo stesso aveva dichiarato più volte di essere pronto a firmare. In questo modo, gli aumenti concessi al pubblico impiego e quelli finora concessi nel settore privato non sono così distanti. Confindustria e Governo, serviti a dovere dai sindacati tricolore, hanno portato a casa dei buoni contratti. I lavoratori no.

Intanto, leggendo i giornali dello scorso 19 maggio, si poteva scoprire una novità importante, a proposito di aumenti di salario: «Con delle delibere in base a una direttiva di Palazzo Chigi, i cda di Inps, Inail e Inpdap si raddoppiano e triplicano i compensi»! (la Repubblica); si va da aumenti del 100% ad aumenti del 250%. Certo, i vertici degli enti statali, come l’Inps, l’Inail e l’Inpdap, lavorano sodo per ridurre le pensioni in generale, restringere l’erogazione di denaro a fronte di incidenti sul lavoro o per pensioni di invalidità. E quindi vanno lautamente premiati!

I proletari del pubblico impiego sono stati buggerati, e se non si rendono conto di dover lottare sul piano di classe per ottenere anche quello stramaledetto minimo per sopravvivere, verrano sistematicamente buggerati. Rimarrà loro la «soddisfazione» di lavorare per lo Stato, e quindi di essere «operatori del servizio pubblico»; ma quando nelle tasche non ci saranno soldi abbastanza per mangiare pranzo e cena, allora saranno costretti a diventare operatori delle proprie lotte!

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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