Distingue il nostro partito (fine)

(«il comunista»; N° 97-98; Novembre 2005)

 

 

Nel numero scorso abbiamo pubblicato la prima parte dell’articolo sulla manchette «Distingue il nostro partito» alla quale abbiamo portato delle integrazioni alla luce del bilancio politico fatto sulle crisi del partito; abbiamo ritenuto necessario apportare tali integrazioni allo scopo di far comprendere ai lettori in modo più preciso la direzione della nostra battaglia, i suoi caratteri distintivi rispetto non solo ad ogni altro partito politico ma anche ad ogni altra formazione politica che si richiama, o pretende di richiamarsi, alla Sinistra Comunista. Il testo della manchette è il seguente:

 

La linea da Marx-Engels a Lenin, alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito Comunista d’Italia; alle battaglie di classe della Sinistra Comunista contro la degenerazione dell’Internazionale Comunista e dei Partiti che ne facevano parte; alla lotta contro la teoria del socialismo in un paese solo e la controrivoluzione staliniana; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; alla lotta contro il principio democratico e la sua prassi, contro l’intermedismo e il collaborazionismo interclassista politico e sindacale, contro ogni forma di opportunismo e di nazionalismo.

La dura opera del restauro della dottrina marxista e dell’organo rivoluzionario per eccellenza – il partito di classe – a contatto con la classe operaia e con la sua lotta di resistenza quotidiana alla pressione e all’oppressione capitalistiche e borghesi, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco, fuori di ogni forma di indifferentismo, di codismo, di movimentismo o di avventurismo lottarmatista.

Il sostegno di ogni lotta proletaria che rompa la pace sociale e la disciplina del collaborazionismo interclassista; il sostegno di ogni sforzo di riorganizzazione classista del proletariato sul terreno dell’associazionismo economico nella prospettiva della ripresa su vasta scala della lotta di classe, dell’internazionalismo proletario e della lotta rivoluzionaria anticapitalistica.

(continua dal numero precedente)

 

 

Scolpire con più fermezza ciò che ci distingue

 

Nel 1976, il partito tornò sul testo della manchette («Distingue il nostro partito»), cercando di formularlo in modo più comprensivo per coloro che si avvicinavano al partito, in particolare in paesi in cui la Sinistra comunista italiana non era così conosciuta (riferirsi a «Livorno ‘21», per esempio, all’epoca, in Italia, in Francia, in Belgio, in Germania, in Svizzera, era noto che ci si riferiva alla fondazione del Partito comunista d’Italia ad opera della Sinistra comunista) e per i quali alcuni sintetici riferimenti potevano non dire molto o essere equivocati; ci si limitò a rendere quei riferimenti più chiari, pur mantenendoli molto concisi (24). La manchette infatti affermava che ci distingue: la linea da Marx a Lenin, alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della Sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale, contro la teoria del socialismo in un paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori del politicantismo personale ed elettoralesco.

Di questo testo non c’è nulla che non vada bene anche oggi. Solo che, nel periodo successivo alla grande crisi capitalistica del 1974-75 e nel corso di sviluppo dello stesso partito, le diverse crisi parziali che portarono poi alla crisi generale del 1982-84 si sono incentrate su questioni di grande rilevanza sia di tattica che di organizzazione (chiusura del ciclo delle rivoluzioni multiple, attacco sistematico alle conquiste sindacali e sociali delle precedenti lotte operaie, formazione e continua trasformazione di gruppi politici di estrema sinistra ed extra-parlamentari, formazione di gruppi lottarmatisti come le BR, stragi per mano fascista, repressione statale nella forma della democrazia blindata, ecc.). E per l’ennesima volta, primeggiava su tutte quel grande accidente storico che si chiama democrazia. La questione delle “rivendicazioni transitorie” si incrociava con la mobilitazione “antifascista”, la valutazione dei gruppi extraparlamentari si incrociava con la questione della sfiducia operaia verso le confederazioni sindacali tricolore, la questione della violenza e del terrorismo si incrociava con la difesa sul terreno proletario dagli attacchi repressivi dello Stato, e sul terreno dell’organizzazione di partito con la necessità di preservare la continuità organizzativa rispetto alla possibile repressione poliziesca.

Se è sempre stato necessario fare un bilancio a fronte di ogni crisi del partito (crisi di “crescita” che fosse, o crisi degenerativa) – gli apporti della Sinistra comunista stanno a dimostrarlo fin dalle sue tesi per la costituzione del Partito comunista d’Italia, le tesi sulla tattica internazionale, gli apporti sulla valutazione del fascismo e le tesi del 1926, su, su fino al bilancio della controrivoluzione staliniana e della degenerazione dell’Internazionale comunista – lo era ancor di più rispetto alle crisi interne del ricostituito partito di classe nel secondo dopoguerra fino alla crisi esplosiva del 1982-84 che mandò in frantumi il nostro partito di ieri.

Fare il bilancio delle crisi di partito: su questo problema ci siamo scontrati non solo con i liquidazionisti della prima e della seconda tornata (i movimentisti del 1982 e i combatisti del 1983), ma anche con il gruppo di compagni che precipitarono nell’opposto liquidazionismo del partito (di tipo attendista) caratterizzato dal concorso di atteggiamenti egualmente disfattisti perché legati ad un formalismo organizzativo e personalistico che si traduceva inevitabilmente nella ricerca di espedienti formali e burocratici (come ad es. la rivendicazione della presenza dei compagni che in precedenza formavano il centro del partito nel nuovo organo direttivo chiamato “comitato centrale”, il “diritto” da parte della “proprietà” di esprimere per iscritto e pubblicamente di non essere d’accordo con la nuova linea presa dal comitato centrale, il “diritto” alla pubblicazione di articoli in contrasto con la nuova linea del comitato centrale, ecc.). E non poteva mancare l’espediente più odioso, l’azione legale da parte della “proprietà” del giornale di partito («il programma comunista») per riprendere il controllo del giornale, azione per la quale il tribunale non poteva che “dare ragione” alla “proprietà” riconsegnandole l’esclusivo utilizzo della testata. Espediente “tattico” ed organizzativo contro battaglia politica, questo era per gli attendisti l’unica cosa da fare. Nel frattempo, la rivendicata “continuità” ideologica e organizzativa del partito veniva messa nelle mani della giustizia borghese. Questo stesso gruppo di liquidazionisti teorizzò, inoltre, due fatti di estrema gravità per chi si dichiara “continuatore della Sinistra comunista”: 1) nessun bisogno di fare un bilancio delle crisi di partito, tantomeno dell’ultima, considerando questa come una crisi provocata dall’incursione di una “cricca” che voleva affondare il partito, per cui sarebbe stato sufficiente riavere in mano il giornale del partito, sbarazzarsi di quella “cricca” e …”riprendere il cammino”; 2) riorganizzarsi come partito prima di tutto in Italia, dove questo gruppo poteva contare su un certo numero di seguaci, abbandonando i compagni degli altri paesi al loro destino, rimandando i contatti con l’estero solo dopo aver rafforzato il nucleo in Italia. Quindi, oltre a valutare la crisi del partito come uno spiacente incidente di percorso (prima o poi, si trova sempre una “cricca” che lavora “contro”), questo gruppo si chiudeva nei “sacri confini” italiani, alla faccia dell’internazionalismo e della storia della corrente della Sinistra comunista della quale pretendevano – e pretendono ancora – di essere i “veri continuatori“.

La necessità di fare un bilancio approfondito delle questioni che furono al centro di quella crisi caratterizzò già durante la crisi il nostro atteggiamento e il nostro lavoro. Di fondo, il partito non deve affrontare – se non in situazioni storiche di grandi rivolgimenti sociali e politici – questioni “nuove”, “sconosciute”. Cambia la situazione sociale e politica, cambiano i rapporti di forza fra le classi, ma fondamentalmente le questioni centrali del programma del comunismo rivoluzionario non cambiano, ed è per questo che il programma del partito comunista non ha bisogno di essere continuamente ridiscusso e “aggiornato”. Le questioni su cui agiscono i fattori di possibili crisi nel partito, in genere, sono sempre legate a due grandi campi della sua attività: il campo della tattica e il campo dell’organizzazione. Valutazioni delle situazioni, considerazione delle forze in gioco, prospettive di minor o maggior successo nel tempo breve o immediato: sono aspetti dell’impostazione generale della tattica da seguire e dell’organizzazione delle forze di partito ad essa corrispondente da adeguare. Ebbene, se quelle valutazioni, quelle considerazioni, quelle prospettive sono sbagliate, inevitabilmente la tattica perseguita e i modelli organizzativi applicati sono anch’essi del tutto errati. Il problema dell’attività e dell’azione in campo sindacale e, in generale, sul terreno immediato, è sempre stato un osso duro da masticare, e ha dato sempre, ad un certo punto dello sviluppo dell’attività del partito, molti grattacapi. Il problema delle lotte anticoloniali ed antimperialistiche, è stato anch’esso un problema arduo e indigesto a molti pur bravi compagni. Il problema dell’utilizzo dei meccanismi democratici, all’interno e/o all’esterno del partito, a periodi si ripresenta come fosse il problema di tutti i problemi, risolto il quale tutto filerebbe poi via più liscio.

Nel periodo che va dal 1979 al 1982, nel partito si sono svolte, in verità, una serie di crisi ravvicinate, culminate poi nell’éclatement dell’ottobre 1982, con strascichi fino al 1984 quando i compagni riunitisi intorno a «il comunista» e a «le prolétaire» riunirono le forze ricostituendo il nucleo di partito che ancora rappresentiamo. Era evidente la necessità, e l’urgenza, di lavorare per il bilancio delle crisi del partito, affrontando a viso aperto i problemi tattici e organizzativi che fecero da detonatore delle crisi; ben sapendo, d’altra parte, che ogni problema tattico, ed ogni problema organizzativo, portano inevitabilmente a punti teorici e di programma. Il bilancio si rendeva necessario e doveroso proprio per il fatto che lo scoppio di una crisi interna, oltretutto di grande virulenza come quella del 1982, poneva sul tavolo non questioni “marginali” e circoscrivibili – da non intaccare punti di teoria e di programma, sui quali tutti potevano dimostrare di essere d’accordo e allineati – ma questioni centrali, come la concezione del partito, il rapporto fra partito e classe, la questione dell’indipendenza politica e organizzativa del partito rispetto a tutte le altre formazioni politiche, ecc.

I vent’anni che ci separano da quella crisi non hanno diminuito il valore e il peso di quel bilancio, tutt’altro. La situazione in cui versa il proletariato, in particolare dei paesi capitalisti avanzati, per cui la sua dipendenza dal riformismo e dal collaborazionismo interclassista è ancora molto forte sì da paralizzarlo perfino sul terreno elementare della difesa delle condizioni di vita e di lavoro, non ci dà la possibilità di dimostrare alla massa proletaria con l’ausilio di fatti attuali importanti di essere sulla strada giusta, di aver portato la giusta lotta politica contro i diversi cedimenti che hanno caratterizzato e caratterizzano i gruppi politici che si rifanno, come noi, alla Sinistra comunista. Non possiamo riferirci ad importanti fatti della lotta di classe per dimostrare al proletariato, e in particolare ai suoi reparti più combattivi e sensibili alle ragioni della lotta di classe, di rappresentare il partito di classe nella sua continuità teorica, programmatica, politica, tattica e organizzativa. Questi fatti non ci sono se non in forme talmente episodiche da non essere percepite dalla gran massa dei proletari se non come fatti che riguardano altri, altre categorie, altri proletari lontani da un comune sentire. Siamo forzatamente costretti a riferirci ad esempi portati dalla lotta di classe di ieri e dell’altro ieri, dato che la ripresa duratura e vasta della lotta di classe in questi oltre settant’anni di controrivoluzione borghese non sorge ancora all’orizzonte.

Ma il partito sa che può attraversare un periodo anche molto lungo in cui i proletari non percepiscono la giustezza delle sue valutazioni, delle sue indicazioni, la necessità della sua attività. Non per questo si chiude nella “torre d’avorio”, non per questo si estromette dallo sforzo di fare la sua attività a contatto con la classe operaia e con i problemi della sua lotta classista. Tempo verrà che questo lavoro risulterà importante e vitale, quando il proletariato, rialzata la testa, riprenderà nelle proprie mani le sorti della propria lotta.

Sappiamo, dunque, che il lavoro “grigio” e ai più “sconosciuto” che stiamo portando avanti nello sforzo di rimanere fortemente collegati al “filo del tempo” marxista e rivoluzionario, è lavoro indispensabile per il domani. La storia dei movimenti di classe ha insegnato che le situazioni “oggettivamente rivoluzionarie” si possono presentare con andamento di colpo anche molto accelerato, come se avvenisse “all’improvviso” – nel senso che il proletariato, in brevissimo tempo, in un precipitare delle tensioni sociali, può essere spinto sul terreno dello scontro di classe con le classi dominanti accettando lo scontro per la vita o per la morte – ma ha anche insegnato che la vittoria della rivoluzione proletaria non sarà mai possibile senza la presenza di un saldo, forte, preparato, influente partito di classe a capo del movimento proletario rivoluzionario. E questo partito non si improvvisa, lo si deve preparare di lunga mano, soprattutto sul piano della teoria e della sua corretta applicazione, anche, inevitabilmente, nel periodo di profonda controrivoluzione come l’attuale.

Lavorare alla formazione del partito come organo guida della rivoluzione proletaria e comunista di domani, alla luce di tutte le vicende storiche che hanno segnato la vita, e la morte, delle organizzazioni formali di partito in più di 150 anni di storia del movimento proletario internazionale e del movimento comunista, sarebbe inefficace – e, di fatto, impossibile – se ci si slegasse dalla continuità teorica, programmatica e politica del movimento comunista internazionale. Per la Sinistra comunista, e quindi per noi, la continuità teorica, programmatica e politica rappresenta il nucleo fondamentale della vita del partito di classe. Neghiamo che vi siano aggiornamenti da portare alla teoria marxista, e che si debbano imboccare vie diverse e nuove su cui incamminarci rispetto alla rotta rivoluzionaria già storicamente segnata dal movimento comunista internazionale che toccò il suo apice con la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e con la fondazione dell’Internazionale Comunista. Ma neghiamo anche che si debbano separare i piani della teoria e del programma politico del partito dal piano della sua attività pratica col pretesto che la situazione oggettiva ponga il partito nella condizioni di cercare nuove soluzioni tattiche e organizzative. Affermiamo che soltanto la continuità teorica, programmatica e politica del partito di classe può permettere al partito stesso di cambiar tattica, se necessario, anche in 24 ore (come ricorda Trotsky a proposito del partito bolscevico durante la guerra civile in Russia tra il 1918 e il 1921), poiché solo quella continuità dà la possibilità al partito di intervenire nelle situazioni che si modificano per modificarle a proprio vantaggio e non farsi guidare, e quindi modificare, dalle situazioni.

Questa continuità la si rintraccia nei testi classici del marxismo, nelle tesi fondanti l’Internazionale Comunista e nelle tesi della Sinistra comunista ante e post seconda guerra mondiale. Ma affinché questa continuità sia un’arma della critica marxista – in attesa di fare da reale base alla critica delle armi nel periodo rivoluzionario – è necessario un lavoro a carattere di partito, ed in particolare un lavoro di riconquista del patrimonio teorico e programmatico, politico e tattico del marxismo rivoluzionario. Senza un approfondito bilancio storico e politico delle crisi e delle sconfitte del movimento rivoluzionario, senza che siano tirate le lezioni delle controrivoluzioni, e le lezioni dalla stessa storia del partito rivoluzionario, l’organizzazione di partito non riuscirà mai ad impossessarsi effettivamente della critica marxista, non riuscirà a maneggiare con sicurezza e freddezza la teoria marxista; dunque, non riuscirà mai a guidare con successo il movimento proletario nel cammino della rivoluzione anticapitalistica. Il grande bilancio storico delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni è stato fatto dal nostro partito di ieri, e i testi e le tesi della Sinistra comunista che abbiamo richiamato nei punti precedenti stanno a dimostrarlo. Ma non è automatico che le forze militanti che compongono il partito siano sempre in grado di attuare coerentemente tutte le indicazioni e i compiti che derivano dal programma e dal bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Nel partito, proprio perché non è un’entità slegata dalla realtà sociale in cui agisce, si sviluppa costantemente lo sforzo per agire in perfetta coerenza con il suo programma, e tale sforzo, nelle diverse situazioni, si trasforma in una lotta di coerenza, in una lotta contro posizioni, attitudini e tesi opportuniste, in una lotta contro deviazioni o degenerazioni.

Ecco perché, di fronte alla crisi esplosiva del partito del 1982-84 noi insistemmo caparbiamente nel lavoro di bilancio delle crisi di partito. Si trattava di seguire esattamente lo stesso metodo che il partito aveva già seguito in precedenza di fronte alle crisi interne che avevano segnato il suo corso di sviluppo, lo stesso metodo seguito dal Partito comunista d’Italia rispetto al PSI e alle correnti dell’opportunismo gradualista e massimalista che hanno intralciato il cammino della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato negli anni Venti del secolo scorso, lo stesso metodo seguito da Lenin e dal Partito bolscevico rispetto alle crisi del movimento politico rivoluzionario russo ed internazionale. Non stavamo inventando nuove “vie” per ricostituire il partito di classe; non stavamo adottando un metodo e un metro di valutazione delle crisi interne diversi da quelli trasmessici dalla storia stessa della Sinistra comunista. Il bilancio delle sconfitte proletarie e comuniste – perché la crisi esplosiva del partito di ieri è una sconfitta non solo dei comunisti, ma anche del movimento proletario internazionale – si fa tornando alle basi teoriche e programmatiche del comunismo rivoluzionario che la storia ha confermato, e per questo noi le definiamo immutabili, invarianti; basi sintetizzate nei testi classici del marxismo e nelle tesi che abbiamo ricordato sopra.

La crisi esplosiva del partito nell’82-84 ha preso caratteristiche diverse e contraddittorie. La forte spinta attivistica e movimentista provocò una reazione di tipo accademico, attendista, tendenzialmente indifferrentista; la barriera che si era alzata fra teoria e prassi spingeva all’estremo tendenze esistenti da sempre nella storia del movimento proletario e comunista, contro le quali la Sinistra comunista ha dovuto sempre combattere, e ancora dovrà combattere, individuandole di volta in volta sotto le diverse sembianze prese nei diversi periodi della storia delle lotte fra le classi. La tendenza attivistica piuttosto che la tendenza indifferentistica hanno sempre intralciato il cammino del movimento proletario; per affermarsi all’interno dei partiti proletari di classe, le tendenze opportuniste utilizzavano – e utilizzano – un vettore di sicura efficacia anticomunista: il vettore della democrazia. Democrazia coniugata in mille e mille versioni differenti, ma sempre inesorabilmente e drammaticamente letale per il partito comunista. La democrazia, vinta dal marxismo sul piano teorico e di principio può rientrare dalla finestra della tattica e dell’organizzazione, rialzando per l’ennesima volta una barriera fra teoria e prassi e portare così il partito alla disgregazione.

  

Democrazia borghese: Il nostro nemico più insidioso

  

Al principio democratico risale una serie interminabile di formule tattiche e organizzative che il partito, nel corso della sua storia, ha valutato se adottare o meno, con quali limiti, in che campo e in che tempi, e in modo che non contrastino con i principi ed il programma politico dati. C’è stato un tempo in cui la democrazia borghese rappresentava, anche per il proletariato, un vantaggio politico importante poiché lo allenava a partecipare alla vita politica del paese. Era il tempo in cui la democrazia borghese corrispondeva alla fase rivoluzionaria della nuova società che andava a rivoluzionare la vecchia società feudale. Ma, in quanto rappresentazione delle libertà economiche, sociali, politiche della borghesia, e di tutti i suoi strati e sue fazioni, oltre un certo limite la democrazia borghese non poteva rispondere alle esigenze economiche, sociali e politiche delle classi lavoratrici, visto l’antagonismo sociale esistente nella società borghese e il suo acutizzarsi crescente con lo sviluppo stesso del capitalismo. La Comune di Parigi del 1871 prima, e la prima guerra mondiale del 1914-18 poi, dimostrano storicamente come nei paesi a capitalismo avanzato la democrazia – sia in principio che dal punto di vista politico e tattico – sia diventata un intralcio per il proletariato nella sua lotta di classe e rivoluzionaria; di più, un’arma borghese per deviare il proletariato dal corso che la lotta di classe storicamente prende se portata fino in fondo, fino alla conquista violenta del potere politico e la instaurazione della dittatura proletaria e comunista. Altra cosa, invece, per i paesi a capitalismo arretrato, in cui all’ordine del giorno non c’era la rivoluzione “semplice”, anticapitalistica, ma la rivoluzione “doppia”, la rivoluzione che contiene due compiti storici: abbattere i poteri precapitalistici e, nello stesso tempo, svolgere compiti di tipo capitalistico ma sotto il ferreo e dittatoriale potere proletario in collegamento con il movimento proletario rivoluzionario internazionale e in attesa del contributo economico da parte di dittature proletarie instaurate in uno o più paesi a capitalismo avanzato. E’ stato, quest’ultimo, il programma rivoluzionario dei bolscevichi in Russia, e dell’Internazionale comunista per tutti i paesi coloniali e semicoloniali sottoposti al tallone di ferro degli Stati imperialisti. Nell’Occidente sviluppato la storia aveva posto all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria anticapitalistica “semplice”, che doveva distruggere il potere politico borghese, il suo Stato e tutte le sue istituzioni anche nelle repubbliche più democratiche. Nell’Oriente arretrato, e in tutti i paesi del mondo in cui il capitalismo non si era ancora economicamente e politicamente radicato, la consegna era: rivoluzione “doppia” (o, per riprendere un termine caro a Trotsky e utilizzato da Marx, “permanente”), ossia rivoluzione con compiti economici borghesi ma diretta e guidata politicamente, e militarmente, dal proletariato rivoluzionario e dal suo partito di classe nel quadro della rivoluzione proletaria internazionale.

Il proletariato europeo occidentale si dimostrò, però, ancora molto influenzato dall’ideologia e dalla pratica della democrazia borghese, rappresentativa e parlamentare. E questa vera e propria malattia sociale si dimostrò durissima da combattere e da vincere; e lo è ancor oggi.

Uno dei concetti fondamentali della democrazia borghese è quello di maggioranza e minoranza numeriche; è concetto democratico, nella misura in cui l’ideologia borghese assegna ad ogni singolo componente del totale numerico considerato, ed esistente in quel determinato momento, un valore “x”, uguale ad ogni altro singolo componente di quel totale numerico. L’espressione dinamica di quel valore è sintetizzata – secondo il principio democratico – nel voto dei singoli individui ai quali l’ideologia borghese assegna una “coscienza” loro specifica, separata e differenziata dalla “coscienza” di ogni altro individuo, grazie alla quale ogni individuo fa una “scelta”. Al termine di un ciclo di voto si procede a contare numericamente le “scelte” fatte da ogni singolo componente del totale numerico considerato ed esistente in quel determinato momento, e ne esce così un risultato numerico: vi sarà una maggioranza, una minoranza, le cui distanze numeriche fra l’una e l’altra possono essere infinitesime o molto accentuate, oppure del tutto assenti per cui si giunge ad un pareggio. Ma il principio democratico poggia sulla “vittoria” di una parte sull’altra, della maggioranza sulla minoranza., e stabilisce arbitrariamente che la maggioranza vada considerata tale a partire dal risultato di voto del 50% dei votanti + 1 voto singolo. In questo modo la quantità, secondo il principio borghese di democrazia, si converte in qualità: la maggioranza vince e la minoranza subisce le decisioni della maggioranza e vi si adegua.

La contraddizione evidente non sta soltanto nel fatto che al “voto” dovrebbero partecipare tutti i componenti sociali interessati, quindi anche i morti e i nascituri, e non solo i vivi di una certa età e presenti in quel momento specifico – questo problema la democrazia borghese non lo risolve né quantitativamente né qualitativamente – ma soprattutto nel fatto che si erge a teoria generale che l’ago della bilancia dipenda da quel +1 che decide, in ultima analisi, quale delle due parti vince sull’altra. La “maggioranza” della democrazia borghese è quindi in balìa di 1+ o 1-. Ed essendo la società borghese basata sul mercantilismo più sfrenato, è naturale che quel +1 valga molto di più dei componenti singoli del 50%; da qui la menzogna dell’eguaglianza di ciascun voto, menzogna che si accompagna al mercanteggio di ciascun voto con la caratteristica che quel +1 verrà “pagato ” più caro di ciascun voto che fa parte del 50%. Esattamente come al mercato, la merce più richiesta costa più delle altre; non si sa chi la comprerà, e quando, e a quale prezzo finale, ma si sa che costa di più. La democrazia borghese non può applicare alle sue strutture decisionali altro sistema di quello che conosce e dal quale in realtà dipende: il sistema dello scambio, del valore di scambio, insomma del mercato. Quante volte abbiamo sentito proclamare da perfetti democratici che il risultato delle elezioni dipendeva dal favore o meno, per una o per la parte avversa, degli indecisi? Gli indecisi diventano, così, nel mercato elettorale, la parte di probabili votanti per la quale si spende di più per influenzarla: insomma costano molto di più dei voti dati per “sicuri”!

Che durata e che valore possono avere le “decisioni” prese “a maggioranza” nei luoghi che la società borghese ha deputato per questo particolare mercato dei voti? Sia nel parlamento, nel consiglio comunale, provinciale o regionale, nel consiglio d’amministrazione di un’azienda, nel comitato di quartiere o in qualsiasi altra istituzione preposta ad “applicare” le regole democratiche borghesi, il metodo democratico non sfugge alle sue contraddizioni congenite. Non solo non è metodo perfetto, e non solo non è metodo in grado di prendere in considerazione le esigenze di ciascun “votante”, ma copre sistematicamente una realtà che è tutt’altro che egualitaria. La società è divisa in classi, in classe dominante e classi subalterne; in una classe che si appropria l’intera ricchezza prodotta dalla società – la classe borghese dei capitalisti – e in classi dal lavoro delle quali i borghesi estraggono la ricchezza sociale, appropriandosene. La maggioranza numerica, intesa come somma di individui non è della classe borghese capitalistica, è delle classi lavoratrici: se il concetto di maggioranza avesse effettivamente un’applicazione tout court, a comandare dovrebbero essere non i dominanti ma i dominati. Ma così non è. Ciò che fa la differenza non è il metodo, non è il numero, è la posizione e la funzione sociale: chi ha in mano il potere politico, economico, e quindi militare, detta le regole. Chi ha la forza vince. La democrazia borghese copre, più o meno bene, la realtà dei rapporti sociali fra le classi e dei rapporti di forza fra le classi. E finché questo metodo di governo assicura alla borghesia dominante il mantenimento del potere politico (con il seguito di coinvolgimento e consenso sociale utile per attenuare le tensioni più acute), essa non ha alcuna necessità di cambiarlo. Ciò che succede con il tempo, però, è che anche i meccanismi della democrazia si logorano, perciò vanno “innovati”, cambiati, sostituiti o semplicemente gettati quando si dimostrano di troppo intralcio per gli affari borghesi.

Che la democrazia non risponda ai reali bisogni di vita degli esseri umani, è ormai evidente visto che la “maggioranza” degli uomini che abitano il pianeta vivono nella più nera miseria o al limite della sopravvivenza. Ciò non toglie che essa continui ad esercitare un’influenza determinante sul proletariato, anche se viene piegata sistematicamente agli interessi non della maggioranza degli uomini che formano le classi lavoratrici, ma a quelli della minoranza degli uomini che formano le classi dominanti. Sono dunque i gruppi di interesse (interesse economico e/o politico) che agiscono affinché la “maggioranza” democratica dia loro il “benestare” formale perché i loro vantaggi, i loro privilegi, siano mantenuti, ampliati, garantiti; perciò i loro sforzi maggiori tendenzialmente si concentrano su quel +1 del 50%. In questo modo il castello di contraddizioni, e di menzogne, costituito dalla democrazia applicata in politica, in economia e nella società può continuare a svolgere il suo vero ruolo, che non è di “garantire giustizia”, non è di “permettere ad ognuno” di far pesare la propria “scelta”, ma di nascondere i reali interessi che guidano le decisioni delle classi dominanti, dei gruppi di potere.

D’altronde, la regola del voto “segreto” contribuisce ad alimentare sia l’illusione che ogni singola persona “scelga” a chi o a che cosa dare il proprio voto senza averne direttamente eventuali conseguenze da parte di “oppositori” che un voto non segreto potrebbe invece provocare, sia la mistificazione della cosiddetta privacy che può avere una funzione soltanto in una società in cui ogni aspetto della vita di ciascuno può essere utilizzato da altri a proprio vantaggio. Ben altra funzione svolge invece il voto negli organismi immediati indipendenti del proletariato, come sono stati i soviet nel periodo rivoluzionario in Russia o le assemblee operaie e i consigli di fabbrica al tempo dei sindacati di classe. In questi organismi proletari di lotta, votare le mozioni in modo del tutto aperto e diretto era la dimostrazione pratica che nell’uso del voto non vi erano secondi fini e che la volontà di lottare contro i nemici di classe non veniva messa in discussione se il voto andava ad una mozione o ad un’altra, ad una rivendicazione o ad un’altra. A viso aperto, tutti i proletari – perché nessuno aveva qualcosa da nascondere – potevano verificare direttamente non soltanto quanti erano per una o per un’altra soluzione, ma anche chi e con quale motivazione. Solo in questo modo la partecipazione democratica poteva raggiungere il massimo coinvolgimento reale da parte dei proletari in lotta; e lo potrà anche un domani, quando organismi proletari di lotta immediata indipendenti dal collaborazionismo sindacale e politico rinasceranno. Ma questo può avvenire, senza costituire di per sé una deviazione in senso opportunistico, solo sul terreno della lotta immediata, solo in presenza di organismi effettivamente di classe, ed in presenza dell’attività reale del partito di classe in essi al fine di orientarli costantemente verso obiettivi di classe e l’utilizzo di mezzi e di metodi di classe, e di mantenerne l’orientamento classista.

In una società in cui tutto è merce, tutto è mercato, tutto si commercia, e la vita di tutti dipende dal potere economico – e quindi politico e sociale – di una ben precisa classe dominante, la borghesia, è logico che il sedicente “popolo sovrano” cui la democrazia borghese demanda quel che appare come l’«ultima parola», il «giudizio finale», debba avere la sensazione di “decidere”, almeno una volta ogni tanto – ad esempio con le elezioni – come regolamentare la vita sociale. La storia della società borghese è intrisa di democrazia piegata agli interessi di parte e comunque tutti inerenti i privilegi delle classi agiate, ma è allo stesso tempo caratterizzata dalla lotta fra le classi in cui non il “diritto” astratto, non il “voto” inserito in un’urna decidono le sorti di questa lotta, ma la forza reale, materiale, cinetica, che le classi antagoniste mettono in campo per affermare i propri interessi. Nella misura in cui gli strumenti di lotta utilizzati dalle classi proletarie sono funzionali esclusivamente alla conservazione della società borghese – e i mezzi della democrazia lo sono – ecco che quegli strumenti perdono le sembianze di lotta che artificialmente vengono loro date e mostrano la loro inutilità, di più, la loro funzione antiproletaria. Il massimo risultato che la borghesia può ottenere nella lotta che quotidianamente conduce contro il proletariato è che sia il proletariato stesso a danneggiare i propri interessi credendo di utilizzare mezzi e metodi efficaci a difenderli. La pratica della democrazia, che gli opportunisti di tutte le risme propagandano e sostengono, porta esattamente a questo risultato. E si capisce come mai le classi dominanti borghesi, in particolare dei paesi capitalisti avanzati, spendano cifre colossali per mantenere in piedi una congerie infinita di organismi, istituzioni e meccanismi di propaganda, di pratica e di burocrazia della democrazia. Finché il proletariato provvederà in buona parte da se stesso a tagliarsi le gambe sulla strada della lotta di difesa dei suoi interessi immediati e futuri di classe, la classe dominante borghese utilizzerà questo enorme vantaggio contro lo stesso proletariato, sia in pace che in guerra, sia sul piano del crescente sfruttamento della forza lavoro che su quello della crescente incertezza di vita delle classi proletarie, sia sul piano della competitività con la concorrenza sul mercato mondiale che sul piano della concorrenza fra proletari rispetto al salario e al posto di lavoro. Per i proletari, più democrazia significa più acuto asservimento agli interessi del capitale.

Essere comunisti non significa soltanto stare dalla parte degli interessi delle classi salariate, e lottare per l’affermazione di questi interessi contro le classi dominanti, ma significa anche svelare la realtà dei rapporti antagonisti che caratterizzano tutte le società divise in classi, e la società borghese in particolare. Combattere contro la mistificazione della democrazia borghese è, perciò, un’attitudine coerente dei comunisti in ogni epoca e in ogni luogo, tanto più in considerazione del fatto che la superstizione democratica (ogni persona ha gli stessi “diritti” delle altre, ad esempio vivere in modo decoroso e in pace) – alla pari delle superstizioni religiose – ha una fortissima influenza sulle classi lavoratrici, deviando la loro spinta materiale allo scontro aperto e diretto con le classi dominanti verso la conciliazione, la negoziazione che portano all’accettazione di soluzioni solo apparentemente egualitarie, ma vantaggiose solo per le classi che realmente hanno il potere, la forza, in mano. Quando le classi salariate hanno ottenuto che qualche loro rivendicazione fosse finalmente accettata dalle classi dominanti o dal padrone, ed applicata, l’hanno ottenuto solo dopo l’esercizio sistematico di azioni di forza e non con l’esercizio del “voto”. Esempio per tutti, la legge, ai tempi di Marx ed Engels, in Inghilterra delle 10 ore, e successivamente la legge delle 8 ore. Ma non è forse vero che le esigenze di sopravvivenza della maggior parte dei proletari, e dei contadini poveri, li costringono a lavorare ben oltre le 8 ore fissate per legge? E ciò è dovuto al semplicissimo rapporto di forze sociale, per cui le classi borghesi attraverso la loro pressione economica e sociale sulla società diminuiscono tendenzialmente il “prezzo del lavoro” – il salario – per alzare al massimo la quota di lavoro non pagato – il plusvalore – che va a costituire i loro profitti. Tutto però si svolge secondo le leggi del “mercato del lavoro”, concordate, e accettate da tutte le classi attraverso i voti parlamentari. Non è un caso che Lenin, nel suo «Stato e rivoluzione», risottolinea con Marx in che cosa consiste la democrazia borghese: «Decidere una volta ogni qualche anno qual membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più democratiche» (25).

Il partito comunista, fin dalla sua prima apparizione nella storia attraverso il Manifesto del 1848 di Marx ed Engels, ha ben individuato le contraddizioni e le menzogne contenute nella democrazia borghese. Ed una lezione storica fondamentale fu tratta dall’esperienza della Comune di Parigi del 1871, come ricorda Marx, e Lenin con lui. Il movimento comunista internazionale, lungo l’arco del suo corso di sviluppo, ha maturato la tesi che la democrazia borghese è il metodo di governo che più di altri riesce ad ingannare il proletariato, infondendo l’illusione di costituire il metodo migliore di governo non solo per la classe borghese ma anche per la classe proletaria.

L’inganno non è però solo nel metodo, nella prassi della democrazia, ma sta nelle basi economiche e politiche della società borghese. Infatti, nei periodi di profonda crisi dello Stato borghese, quindi di tutte le istituzioni democratiche, e in presenza di una ascesa consistente del movimento proletario sul cammino della lotta di classe che tende allo scontro diretto con il potere politico della borghesia, la classe dominante borghese tende ad abbandonare il metodo democratico parlamentare, e uscire allo scoperto, mostrando il volto anche sul piano politico della sua effettiva dittatura sulla società intera.

La situazione sociale interna ad un paese e la situazione politica internazionale non sempre hanno “richiesto” la distruzione della democrazia attraverso la restaurazione dei poteri precapitalistici; dopo il 1789 francese e il 1848 europeo, la vittoria del capitalismo non solo sul piano economico ma anche su quello politico, nell’Europa occidentale, aveva segnata la strada; le classi precapitalistiche avevano perso definitivamente ogni possibile loro “restaurazione”. Successivamente, la soppressione della democrazia liberale come metodo di governo non fu provocata da rigurgiti precapitalistici (come il gramscismo e lo stalinismo vollero, considerando il fascismo come un passo indietro della storia), bensì dalle imperiose esigenze di centralizzazione politica ed economica del capitalismo sviluppato, dell’imperialismo. L’instaurazione del fascismo e del nazismo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, corrisponde alle necessità di classi dominanti borghesi alle prese con il reale pericolo rivoluzionario: in quegli anni il proletariato aveva vinto in Russia, stava lottando in Europa occidentale per conquistare il potere anche in Ungheria, in Polonia, in Germania, in Italia, e in tutto il mondo le masse contadine e proletarie erano in grandissimo fermento per rivoluzionare gli ordini sociali esistenti. La paura delle classi dominanti borghesi, in particolare dei paesi capitalistici avanzati, era tale che per salvarsi dalla marea rossa montante dovevano escogitare un nuovo metodo di governo, visto che il metodo democratico non era riuscito a scoraggiare le masse proletarie dal loro cammino rivoluzionario. Questo nuovo metodo di governo fu il fascismo, dichiaratamente antiproletario, non prima di aver fatto terminare alla canagliesca socialdemocrazia “operaia” la sua opera di disarmo, di repressione e di disorganizzazione del proletariato che ancora influenzava e dirigeva.

Il fascismo fu la risposta borghese e imperialista a posteriori nei confronti delle classi proletarie che già durante la prima guerra mondiale avevano dimostrato di possedere vigore, combattività, energie e guida in grado di mettere in serio pericolo i poteri borghesi. Che lezione hanno tirato le classi borghesi da quella paura? Che avrebbero fatto di tutto per non ritrovarsi nuovamente in una situazione simile, con un proletariato così forte socialmente e politicamente da costituire un reale pericolo di morte definitiva per la borghesia e per il capitalismo.

I borghesi, di fronte a situazioni sociali di grande tensione, che avrebbero potuto aprire la strada alla ripresa della lotta di classe e alla lotta rivoluzionaria, maturavano la tesi che la loro risposta non avrebbe dovuto più essere a posteriori, ma avrebbe dovuto essere preventiva; e doveva riguardare tutti i piani, sia quello politico, che quello economico e sociale, quello ideologico e culturale, quello militare. Dunque, là dove le risorse economiche esistevano e dove il proletariato era più legato alla tradizione di classe e rivoluzionaria, la democrazia “antifascista” doveva sposarsi con un consenso sociale ottenuto grazie all’applicazione di riforme e di “garanzie” economiche (i famosi ammortizzatori sociali), senza tralasciare le incursioni armate repressive dello Stato (per l’Italia, da Portella delle Ginestre ai braccianti uccisi negli scioperi ad Avola, a Battipaglia, ai dimostranti uccisi nel giugno-luglio del 1960, ai giovani ammazzati a Roma e a Milano nel 1969-70) e le stragi comandate da forze borghesi illegali (in Italia, Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, il treno 961, fino alla stazione di Bologna del 1980). Dove le risorse economiche non erano così abbondanti e il proletariato non presentava tradizioni di lotta di classe e rivoluzionarie di vecchia data o era stato drammaticamente deviato da esse ad opera dello stalinismo, allora la democrazia “antifascista” e “popolare”, di fronte a situazioni sociali di forte tensione, doveva lasciare il passo all’aperta repressione militare (a Berlino nel 1953, a Budapest nel 1956, e poi i colonnelli in Grecia, i generali in Argentina, Pinochet in Cile, Sukarno in Indonesia, ecc.). La dittatura militare diventava così la riposta preventiva alle mobilitazioni proletarie, mentre la democrazia “antifascista” si fascistizzava sempre più.

La degenerazione della democrazia liberale, col fascismo e con la seconda guerra imperialista mondiale, lascia ineluttabilmente il posto alla democrazia imperialista, ovvero alla democrazia fascistizzata, blindata, insomma più “moderna”. Essa mostra più evidenti i segni dell’inganno nei confronti delle popolazioni oppresse e dello stesso proletariato. Nonostante questo, nonostante le mille dimostrazioni in cui essa ha operato decisamente contro gli interessi “generali” del popolo – di cui si ammanta di essere invece il miglior metodo per rappresentarne gli interessi e le istanze – la democrazia ha ancora un forte grado di attrazione presso il proletariato: è una superstizione durissima a morire. Ragione di più, per i comunisti degni di questo nome, per lottare contro di essa su tutti i piani, da quello teorico, programmatico e ideologico a quello politico e tattico.

 

Il partito di classe, anche per la sua vita interna, tira una lezione dalla storia: esclude l’uso del meccanismo democratico

 

Perché mai il partito comunista rivoluzionario, dopo le innumerevoli dimostrazioni che fornisce la storia delle lotte proletarie e della lotta rivoluzionaria, dovrebbe utilizzare, anche se solo dal punto di vista organizzativo, il meccanismo democratico?

E’ noto che i partiti che aderirono all’Internazionale comunista adottarono la formula organizzativa del centralismo democratico. Il che significava, sostanzialmente, che gli iscritti al partito comunista erano tenuti ad essere disciplinati alle direttive emanate dagli organi centrali, applicandole in tutte le situazioni previste coi metodi definiti centralisticamente, ma che tali direttive provenivano da posizioni, programmi, risoluzioni, tesi discusse in appositi congressi e su cui i partecipanti (delegati di tutti i partiti aderenti) erano chiamati a votare. La maggioranza decretava il passaggio della tale posizione, della tale tesi, tale risoluzione, ecc. e fino al congresso successivo nulla si doveva cambiare. Il centralismo democratico era senza dubbio un passo avanti rispetto alla “separazione dei poteri” esistente in precedenza, per cui ad esempio il Gruppo Parlamentare aveva una sua autonomia di comportamento rispetto alle decisioni degli organi centrali del Partito Socialista, così come i dirigenti socialisti nel Sindacato. Mettendo l’accento sul sostantivo centralismo, si tagliava di netto con il metodo dell’autonomia di singoli pezzi del Partito, autonomia che in realtà copriva atteggiamenti, posizioni e pratiche opportuniste. La democrazia borghese era diventata l’asse intorno al quale ruotavano le decisioni e i poteri dei partiti socialisti, tanto che spesso era il Gruppo Parlamentare a dettare al Partito la linea da seguire. Restava l’aggettivo democratico, proveniente dalla precedente storia del movimento proletario e socialista, col quale si intendeva sottolineare la pratica del coinvolgimento e della partecipazione di tutti i compagni di partito a tutte le attività del partito, compresa quella di redigere risoluzioni, tesi, ecc., e comunque di votarle Ma l’ambiguità del termine «democratico» non scompariva, anche se il senso che ne davano i comunisti allora non era quello di mistificare una fittizia uguaglianza tra capi e gregari, tra organi direttivi e base, ma appunto di sottolineare che a nessun compagno di partito era impedito per principio, o per statuto, di svolgere una qualsiasi attività all’interno del partito. Attraverso il meccanismo democratico, ritornava però continuamente nel partito comunista l’attitudine a contrapporre tesi a tesi, mozione a mozione, opinione a opinione, instillando di continuo una pratica che di fondo si dimostrava anticentralista, attraverso la quale si potevano mettere continuamente in discussione le direttive emanate dagli organi centrali fino a trovare un motivo “personalmente valido” per non applicarle; da questo punto di vista, la «partecipazione», il «coinvolgimento» democratici invece che favorire l’integrazione e l’unitarietà di pensiero e d’azione della compagine di partito, si limitano a scimmiottarle in una finzione. In questo modo, il partito perdeva inevitabilmente la sua unità d’azione e la sua visione unitaria, aprendosi alla formazione di frazioni, correnti, “partiti” nel partito. Invece di rappresentare una guida ferma, decisa, univoca, compatta, affidabile, sicura per il movimento proletario rivoluzionario, tesa allo scopo storico principale della preparazione rivoluzionaria e della direzione della rivoluzione, si poteva trasformare – dapprima impercettibilmente, e poi in modo sempre più evidente – in un partito “borghese”, al servizio non della rivoluzione proletaria ma della democrazia, quindi al servizio della borghesia dominante.

Come non attribuiamo nessuna intrinseca virtù alle forme di organizzazione e di rappresentanza delle organizzazioni proletarie immediate e di massa, così non attribuiamo intrinseche virtù nemmeno a determinate forme di organizzazione del partito. Se è valida la tesi marxista che la rivoluzione non è un problema di forme di organizzazione, ma è problema di contenuto («di movimento e di azione delle forze rivoluzionarie in un processo incessante», come si può leggere nell’articolo Il principio democratico, del 1922, di A. Bordiga), è altrettanto valida per il partito comunista il cui scopo storico è quello di preparare, guidare la rivoluzione proletaria fino alla vittoria definitiva e internazionale sul capitalismo e sulle classi borghesi. Anche per il partito politico di classe il problema è innanzitutto di contenuto, quindi di teoria e di programma, dai quali discendono le linee politiche, tattiche e organizzative. «Il partito può essere e non essere adatto al suo compito di propulsore dell’opera rivoluzionaria di una classe, non il partito politico in generale, ma un partito, ossia quello comunista, può corrispondere a simile funzione, e lo stesso partito comunista non è preventivamente assicurato dai cento pericoli della degenerazione e della dissoluzione» – scriveva Bordiga nell’articolo ora citato, preoccupandosi però di chiarire subito che «i caratteri positivi che pongono il partito all’altezza del suo compito non stanno nel meccanismo dei suoi statuti e nelle nude misure di organizzazione interna, ma si realizzano attraverso il suo processo di sviluppo e la sua partecipazione alle lotte e all’azione come formazione di un indirizzo comune intorno a una concezione di un processo storico, a un programma fondamentale che si precisa come una coscienza collettiva, ed a una sicura disciplina di organizzazione al tempo stesso» (26). Si ribadisce decisamente che i criteri di organizzazione – tanto più i criteri di organizzazione interna – non valgono in se stessi ma in quanto si coordinano con i fini della lotta rivoluzionaria del partito. I fini della lotta rivoluzionaria del partito comunista non prevedono la difesa, la salvaguardia o l’eventuale miglioramento (ammesso e non concesso che possa essere realizzato) dei metodi e dei meccanismi della democrazia; tutt’altro, essi prevedono la distruzione della democrazia borghese con tutti i suoi apparati e la sua sostituzione non con una sedicente democrazia proletaria, ma con la formazione dichiarata e aperta dello Stato proletario, ossia uno Stato di classe, che organizza la classe proletaria contro tutte le altre classi che devono essere spogliate dei loro privilegi economici, politici, sociali. Lo Stato proletario è una forza storica reale che si adatta allo scopo che persegue, ossia alle necessità per cui è nato (cfr. Il principio democratico, cit.), e per questo motivo, nel lungo processo di dittatura proletaria, di lotta e guerra rivoluzionaria contro le classi borghesi a livello mondiale, esso «potrebbe in dati momenti prendere impulso dalle più vaste consultazioni di massa come dalla funzione di ristrettissimi organismi esecutivi muniti di pieni poteri; l’essenziale è che a questa organizzazione di potere proletario si diano i mezzi e le armi per abbattere il privilegio economico borghese e le resistenze politiche e militari borghesi, in modo da preparare poi la sparizione stessa delle classi, e le modificazioni sempre più profonde dello stesso suo compito e della sua struttura».

Lo Stato proletario, come l’esperienza russa ci indica con larghezza di elementi di ammaestramento, continua il testo ora citato, «fonda il suo ingranaggio costituzionale su caratteristiche che vengono direttamente a lacerare i canoni della democrazia borghese, per cui i fautori di questa gridano a violazione di libertà, mentre non si tratta che di smascheramento di pregiudizi filistei con cui la demagogia ha sempre assicurato il potere dei privilegiati». Lo Stato proletario, nella prospettiva rivoluzionaria del marxismo, andrà estinguendosi lasciando il posto ad organi di amministrazione e di organizzazione della società che non sarà più divisa in classi antagoniste, ma sarà di specie. E il partito comunista, che è l’unica ed esclusiva guida della dittatura proletaria, e quindi dello Stato proletario, dovrà essere l’elemento più coerente con i fini rivoluzionari della lotta fra le classi che, portata appunto fino in fondo, non può che porre di fronte alla storia lo sbocco decisivo: o capitalismo o comunismo, o dittatura capitalistica e borghese o dittatura proletaria e comunista. Ma la coerenza con i fini rivoluzionari non sta nella democrazia borghese, né nel suo principio né nei suoi meccanismi pratici e organizzativi: sta nella continuità della lotta rivoluzionaria fino alla vittoria mondiale e definitiva sul capitalismo e su tutte le classi privilegiate che dal capitalismo e dai regimi borghesi traggono privilegi e benefici a discapito delle classi proletarie e diseredate del mondo.

La Sinistra comunista italiana ha combattuto fin dalle sue origini una battaglia coerentemente marxista contro la democrazia «in generale» e contro il meccanismo democratico in particolare, ritrovandosi perfettamente concorde con Lenin quando affermava – nel «Che fare?» del 1903 – che il regime borghese, anche il più democratico, non supera né sospende il regime di sfruttamento salariale del proletariato, ma lo ribadisce con la caratteristica di mistificarlo sotto le vesti della «partecipazione» del popolo, e quindi del proletariato che ne costituisce la maggioranza, attraverso le elezioni democratiche che si tengono periodicamente.

Lo sviluppo del movimento operaio, e della sua lotta di classe, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, ha dimostrato che la democrazia borghese e la sua prassi non hanno risolto le contraddizioni sociali del capitalismo, né hanno superato gli antagonismi di classe fra borghesie dominanti e proletariati dominati. Il tasso di sfruttamento del lavoro salariato nel tempo è aumentato, la forbice tra accumulo di ricchezza da una parte e sprofondamento nella miseria dall’altra si allarga sempre più confermando inesorabilmente la teoria marxista della miseria crescente. Il sistema democratico, quindi, è inefficace rispetto alle ferree leggi economiche del capitalismo: la legge del valore non si fa imbrigliare dai codici civili o dal testo delle Costituzioni, anche le più democratiche. La democrazia veste come una maschera il vero volto del capitalismo, la sua effettiva dittatura economica e sociale. E non c’è come l’emergenza delle crisi economiche, in cui il modo di produzione capitalistico inevitabilmente e periodicamente precipita, a dimostrare che quella dittatura economica e sociale condiziona il suo stesso sviluppo tendendo ad una sempre più accentuata concentrazione e ad una maggiore centralizzazione di capitali; tendenza che condiziona ovviamente tutta la società e i rapporti sociali tra le classi, quindi anche l’amministrazione politica della società borghese, incanalandola verso un regime autoritario, egualmente centralista. Il fascismo è l’esempio più evidente di questa tendenza che, in realtà, proprio perché esprime a livello politico le tendenze economiche profonde del capitalismo, costituisce una fase dello sviluppo politico della classe borghese dalla quale quest’ultima non può più indietreggiare. A livello formale, una serie di obblighi e di aut aut possono anche essere sostituiti da una serie di «diritti» cosiddetti democratici – ed è successo con la caduta militare dei regimi fascisti nella seconda guerra mondiale – ma a livello sostanziale la fase centralistica, autoritaria, «fascista» non è cambiata, anzi si accentua sempre più come dimostrano i rapporti interstatali, ad esempio, fra Stati Uniti e “alleati” europei rispetto alle recenti guerre nella ex Yugoslavia, in Afghanistan e in Iraq.

Il meccanismo democratico è stato ripristinato dopo la caduta del fascismo, ma su di una società che economicamente ha già ampiamente sviluppato il suo imperialismo e che, perciò, mette sempre più in evidenza la forte contraddizione tra l’involucro di una democrazia inattuata e inattuabile e il contenuto imperialista e dittatoriale della sua economia. La rete di interessi che caratterizza le classi dominanti borghesi non è che la rappresentazione del movimento dei capitalisti a livello economico, soprattutto nella sua sfera finanziaria. In questo movimento il capitale più forte si mangia quello più debole, la concentrazione di capitali batte nella lotta di concorrenza la frammentazione di capitali, i grandi trust dominano il mercato internazionale e condizionano la “vita” dei capitali più piccoli. A livello politico, questo movimento esprime partiti e Stati lo scopo dei quali è di difendere gli interessi di quelle eccezionali concentrazioni di capitali, di facilitarne la penetrazione nei mercati più diversi, di allargarne il raggio d’azione e di ingigantirne la dimensione. Lo scontro di interessi sul mercato mondiale è naturale per i capitali, e tale scontro si realizza a tutti i livelli anche se non necessariamente in contemporanea: a livello economico e finanziario, a livello diplomatico, a livello politico e militare. Più alto è lo scontro più si rende necessaria la concentrazione di forze; più alta è la posta in gioco nel mercato mondiale, più gli Stati si attrezzano, anche attraverso la rottura di vecchie alleanze e l’innesto di nuove alleanze pronte a rompersi nuovamente di fronte a cambi di rapporto di forze tra grandi trust e grandi Stati, per difendere la rete di interessi di cui sono emanazione.

Il meccanismo democratico, a questo livello di lotta di concorrenza, diventa un intralcio. Non è un caso, infatti, che ormai da decenni le decisioni fondamentali sia in economia che in politica vengano prese non nei parlamenti, ma nelle stanza dei cosiddetti «poteri forti». La democrazia, se la borghesia non avesse il problema di influenzare, orientare, organizzare le forze sociali del proletariato in funzione dei suoi interessi di classe dominante, non servirebbe a nulla e verrebbe gettata tranquillamente nella spazzatura dalla stessa borghesia.

Ma la classe dominante borghese non può dimenticare il proletariato, perché il proletariato nella sua lunga storia di classe ha dimostrato di essere in grado di opporre alle classi borghesi di tutto il mondo non solo la forza bruta, la forza della massa sociale in movimento che oltre un certo limite di compressione tende ad esplodere, ma anche la forza di un programma politico che deriva da una teoria scientifica – il marxismo – in grado di interpretare la realtà sociale delle organizzazioni umane, e di prevedere il corso storico di sviluppo della società borghese ponendo il proletariato in quanto classe sociale moderna come il perno del movimento storico delle classi sociali in lotta fra di loro per una organizzazione sociale completante diversa da quelle che si sono caratterizzate come società di classi nelle quali il progresso, lo sviluppo ulteriore non poteva essere che una società divisa in classi con un modo di produzione sempre più moderno, semplificato, economicamente più potente e socialmente più universale.

La forza della teoria rivoluzionaria del marxismo non sta, infatti, soltanto nell’interpretazione materialistica, storica e dialettica, della storia delle società umane, ma nell’essere allo stesso tempo guida rivoluzionaria per il cambiamento generale e fondamentale della società. E’ questa forza che le classi borghesi si sono trovate a dover fronteggiare, in situazioni storiche diverse ma tendenzialmente unite in un unico grande arco storico che va dalla società capitalistica e borghese come ultima società divisa in classi alla società comunista come società di specie, e ad imparare in qualche modo a conoscere. Dal 1848 e 1871 europei al 1905 russo e al 1917-21 mondiali, le classi borghesi hanno potuto saggiare – spaventandosi a morte – di quale forza storica rivoluzionaria sia dotata la classe proletaria. Certo, esse sono corse ai ripari, utilizzando tutta la loro forza economica e militare, la loro intelligenza di classe e tutta la loro esperienza di dominio sociale e politico, per impedire al proletariato rivoluzionario di portare a termine i processi rivoluzionari iniziati. E finora ci sono riuscite, come già era capitato alle vecchie classi dominanti aristocratiche e feudali nei confronti delle classi borghesi rivoluzionarie che iniziarono il loro percorso storico nel 1640 con Cromwell per vederlo finalmente terminato più di duecento anni dopo in Europa con il 1871.

Non sappiamo se anche per la vittoria rivoluzionaria definitiva sulla vecchia e putrescente società capitalistica ci vorranno più di duecento anni da quel 1848 nel quale la storia aveva per la prima volta messo la società moderna di fronte all’inevitabile sbocco rivoluzionario: proletariato contro borghesia, dopo che il proletariato aveva contribuito in modo decisivo alla vittoria rivoluzionaria delle classi borghesi contro le vecchie classi feudali, e nel quale svolto storico nacque d’un getto la teoria marxista della rivoluzione proletaria come unica rivoluzione in grado di far passare l’organizzazione sociale dall’ultima società divisa in classi (la società borghese) alla società senza classi (la società comunista), dalla preistoria della società umana alla storia della società umana. Sappiamo che la società capitalistica è storicamente segnata non essendo più in grado, ormai da molto tempo, di far fare all’organizzazione sociale dei passi in avanti. Economicamente, il capitalismo non ha più alcuna possibilità di sviluppare la vita sociale se non alla condizione di acutizzare la differenza fra i minoritari gruppi di capitalisti che accentrano nelle proprie mani la stragrande maggioranza delle risorse economiche, finanziarie e naturali e la maggioranza assoluta degli uomini che vive invece nella miseria, nell’inedia, nell’incertezza quotidiana della vita; differenza che non fa che accrescere l’antagonismo di classe fra classi borghesi dominanti e classi dominate, in ispecie il proletariato. Politicamente, il capitalismo ha prodotto una serie interminabile di “soluzioni” governative, di alleanze, di contrasti al fine di conciliare gli interessi di accumulazione e di valorizzazione del capitale e gli interessi di sopravvivenza della maggioranza della popolazione umana, “soluzioni” sempre inesorabilmente indirizzate alla conservazione e alla difesa del dominio politico e sociale delle classi borghesi. La borghesia è stata ed è in grado di sfornare partiti politici di ogni genere, pronti a rappresentare interessi di gruppi anche molto ristretti, rispondendo con ciò alla legge della concorrenza che domina la vita sociale sotto il capitalismo; ma come è dimostrato dallo sviluppo della concorrenza capitalistica, la tendenza economica alla concentrazione e alla centralizzazione si ripercuote anche sul livello politico, spingendo la borghesia a formare partiti centralisti, “unici”, autoritari, pur dovendo conservare simboli, pratiche e apparati della democrazia in funzione, praticamente esclusiva, dell’inganno delle grandi masse.

Quanto al partito proletario e comunista, rappresentando nella società borghese la lotta rivoluzionaria per l’abbattimento definitivo del potere politico borghese e per la trasformazione economica e sociale dell’intera società, esso corrisponde in un certo senso ad uno stato maggiore della rivoluzione proletaria, e in quanto tale non può essere organizzato che con una struttura piramidale, centralistica, la cui efficienza è data dalla coerenza delle sue azioni e della sua organizzazione ai fini del programma rivoluzionario comunista. Naturalmente, a differenza dell’esercito, lo «stato maggiore –partito» non è semplicemente uno strumento efficace della rivoluzione proletaria, ma è nello stesso tempo guida e rappresentazione delle finalità storiche, oltre che un’organizzazione che comprende l’adesione volontaria e cosciente dei suoi militanti. In questa prospettiva, storicamente, il partito proletario non poteva che tendere anche nella sua organizzazione formale verso la più organica centralizzazione poiché i suoi obiettivi non sono condizionati da gruppi di interessi in concorrenza e in contrasto fra di loro, ma dall’unico sbocco classista dell’abbattimento del potere borghese e dell’instaurazione della dittatura proletaria, che è quanto di più autoritario, centralistico e ferreamente disciplinato che ci sia. Può un partito con questi compiti dipendere nelle sue decisioni, nelle sue azioni, nella sua pratica quotidiana, da meccanismi tecnici come ad esempio le consultazioni democratiche? No, in quanto i meccanismi tecnici non determinano la bontà o meno del programma politico del partito, ma sono utilizzati e utilizzabili in funzione dei contenuti del programma politico e delle finalità dell’azione di partito. Quando nel 1921, la Sinistra comunista italiana, attraverso la penna di Amadeo Bordiga, sviluppava la critica all formula del centralismo democratico – che era il principio organizzatore dei partiti comunisti di allora – metteva al centro della questione non il problema di organizzazione, ma il problema dei contenuti, e quindi della continuità dell’azione del partito nello spazio e nel tempo. Si legge, infatti, nell’articolo che abbiamo citato moltissime volte, quanto segue: «Il centralismo democratico è finora per noi un accidente materiale per la costruzione della nostra organizzazione interna e la formulazione degli statuti di partito: esso non è l’indispensabile piattaforma. Ecco perché noi non eleveremo a principio la nota formula organizzativa del “centralismo democratico”. La democrazia non può essere per noi un principio; il centralismo lo è indubbiamente, poiché i caratteri essenziali dell’organizzazione del partito devono essere l’unità di struttura e di movimento. Per segnare la continuità nello spazio e della struttura di partito è sufficiente il termine centralismo, e per introdurre il concetto essenziale di continuità nel tempo, ossia nello scopo a cui si tende e nella direzione in cui si procede verso successivi ostacoli da superare, collegando anzi questi due essenziali concetti di unità, noi proporremmo di dire che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul “centralismo organico”». Il fatto che il tema fosse stato già posto nel 1921, quindi durante il periodo più intenso della lotta rivoluzionaria che poteva all’epoca contare sul potere proletario e comunista vittorioso in Russia e sulla fondazione dell’Internazionale Comunista, dimostra che le lezioni che il partito di classe è tenuto a tirare dalla storia e dal movimento della lotta fra le classi sono molto più proficue e stabili nel tempo se affondano le proprie basi sul terreno più fertile della viva lotta rivoluzionaria, nel più alto svolto storico. Non è mai stata una questione di terminologia, e non si è mai trattato dell’innamoramento di una formula: nessun partito allora e nessuna forza che si dichiarasse comunista in seguito, e fino ai giorni nostri, sono mai stati in grado di giungere ad una chiarezza dialettica quanto lo è stata la Sinistra comunista italiana. Scopo cui si tende, direzione in cui si procede, unità di struttura e di movimento, sono gli elementi essenziali perché da questi si traggano le formule politiche che condensano l’azione e l’attività del partito di classe.

Il meccanismo democratico, a suo tempo, venne giustificato non solo rispetto alla necessità di far partecipare e coinvolgere tutta la compagine di partito fino all’ultimo militante in tutte le diverse situazioni, ma anche rispetto all’insorgere di divergenze, di punti di visti diversi e quindi al suo inquadramento. In realtà, come succede nella vita politica di tutti i partiti borghesi, i meccanismi democratici non hanno alcuna efficacia nella prevenzione delle eventuali divergenze: essi si limitano a constatarle e ad ordinarne l’espressione, il dibattito e la loro “gestione” nel tentativo di evitare che l’organizzazione di partito si spezzi tutte le volte che si presentano punti di divergenza al suo interno. Nelle Tesi della Sinistra al 3° congresso del Partito comunista d’Italia, a Lione nel 1926, la Sinistra risponde al problema del frazionismo e del pericolo opportunista all’interno del partito, affermando: «I partiti comunisti devono realizzare un centralismo organico che, col massimo compatibile di consultazione della base, assicuri la spontanea eliminazione di ogni aggruppamento tendente a differenziarsi. Questo non si ottiene con prescrizioni gerarchiche formali o meccaniche, ma, come dice Lenin, con la giusta politica rivoluzionaria. La repressione del frazionismo non è un aspetto fondamentale della evoluzione del partito, bensì lo è la prevenzione di esso. Essendo assurdo e sterile, nonché pericolosissimo, pretendere che il partito e l’Internazionale siano misteriosamente assicurati contro ogni ricaduta o tendenza alla ricaduta nell’opportunismo, che possono dipendere da mutamenti della situazione come dal giuoco dei residui delle tradizioni socialdemocratiche, nella risoluzione dei nostri problemi si deve ammettere che ogni differenziazione di opinione non riducibile a casi di coscienza e di disfattismo personale può svilupparsi in una utile funzione di preservazione del partito e del proletariato in generale da gravi pericoli. Se questi si accentuassero, la differenziazione prenderebbe inevitabilmente ma utilmente la forma frazionistica, e questo potrebbe condurre a scissioni non per il bambinesco motivo di una mancanza di energia repressiva da parte dei dirigenti, ma solo nella dannata ipotesi del fallimento del partito e del suo asservimento ad influenze controrivoluzionarie» (27).

Nel bilancio che abbiamo fatto delle crisi del nostro partito di ieri, abbiamo messo in evidenza che tutte le diverse tendenze che si sono scontrate nelle diverse crisi interne avevano una caratteristica comune, quella di esagerare determinati formalismi, o di negarne la funzione e l’utilità. Altro errore, in questo caso, sarebbe credere che il giusto sia “nel mezzo”, quando invece il problema, per l’ennesima volta, è innanzitutto politico. La disciplina formale è dovuta alle direttive centrali del partito non in quanto esse giungano alla rete di partito da un organo centrale, ma in quanto politicamente coerenti con il programma e le linee politiche e tattiche che il partito si è dato e che, aderendo al partito, ogni militante accetta e condivide. Il fatto che debba essere il centro del partito ad emanare le direttive risponde prima di tutto all’esigenza politica dell’unità d’azione e di movimento del partito; e l’unità d’azione e di movimento è meglio assicurata da un organo centrale che non da tanti organi diversi spostati nello spazio e “indipendenti”. Ma, non riconoscendo una “intrinseca virtù” a determinati meccanismi o strutture del partito, possiamo, senza tema di essere accusati di essere centralisti a parole e anticentralisti nei fatti, affermare che per noi nemmeno l’organo centrale del partito in quanto tale è dotato di virtù intrinseca e la disciplina che gli è dovuta è comunque sempre discendente da una accettazione politica, cosciente e volontaria, delle linee-guida del partito. L’esagerazione di formalismi denota la presenza di una tendenza ad utilizzare espedienti organizzativi e disciplinari nel tentativo di risolvere problemi politici. Ci sono formalismi che nel partito non si adottano mai e che il solo fatto di adottarli mette coloro che li usano automaticamente fuori dal partito. Un esempio: il ricorso al tribunale che i capi del nuovo “programma comunista” hanno fatto per riprendere il controllo del giornale del partito è stato un espediente tecnico con il quale essi si proponevano di essere riconosciuti nuovamente come i “veri” e “autentici” eredi politici della Sinistra comunista italiana; espediente che in ogni caso non doveva mai essere utilizzato – nemmeno eccezionalmente – anche in assenza di una aperta discussione e lotta politica sulle linee politiche e tattiche del partito. Ci sono formalismi il cui abuso dimostra che nel partito si stanno stravolgendo i metodi organizzativi che consentono una coerente e corretta attività del partito ai diversi livelli e nei diversi campi. Lo stesso metodo delle sanzioni disciplinari, delle radiazioni e delle espulsioni – adottato in alcune occasioni nel partito di ieri in particolare dopo la morte di Amadeo Bordiga – è metodo eccezionale, ma «se le crisi disciplinari si moltiplicano e diventano una regola», come negli anni dal 1923 in poi nei partiti e nell’Internazionale, e come avvenne, fatte le debite proporzioni storiche, nel nostro partito di ieri fra il 1979 e il 1982, «ciò significa che qualche cosa non va nella conduzione generale del partito, e il problema merita di essere studiato» (28). E già questo modo di porre la questione fa vedere che nel partito non vi sono articoli costituzionali, o di statuto, con l’applicazione dei quali «si risolvono» le crisi interne; la prevenzione alle deviazioni e alle degenerazioni non può che essere politica, basata sul continuo richiamo ai punti teorici e programmatici su cui il partito di classe si fonda e sul bilancio storico e politico che il partito ha fatto delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Altre garanzie non esistono, tanto meno quelle spesso rivendicate sotto l’influenza dell’opportunismo di diffondere nel partito una democrazia interna con la quale spostare sulle opinioni dei militanti di base (e la loro conta numerica) la decisione di seguire una via piuttosto che un’altra.

Noi non imputiamo «le degenerazioni che si sono verificate nel partito comunista all’aver lasciato scarsa voce in capitolo alle assemblee e ai congressi dei militanti rispetto alle iniziative del centro», anche se riconosciamo che «una sopraffazione da parte del centro sulla base in senso controrivoluzionario vi è stata in molti svolti storici; la si è raggiunta perfino con l’impiego dei mezzi che offriva la macchina statale, fino ai più feroci» (29), come è successo ad esempio al tempo di Stalin. «Ma tutto ciò –continua il testo di partito citato – più che l’origine, è stata l’inevitabile manifestazione del corrompersi del partito, del suo cedere alla forza delle influenze controrivoluzionarie». I militanti aderiscono individualmente al partito, esprimendo la propria volontà di impegnare le proprie energie e le proprie capacità al servizio dell’attività complessiva del partito. In questo impegno è prevista la disciplina agli organi centrali del partito, una disciplina non esclusivamente formale, ma sostanzialmente politica, perciò cosciente. Sempre nel testo citato possiamo leggere un altro interessante passo: «Alla base del rapporto fra militante e partito vi è un impegno; di tale impegno noi abbiamo una concezione che, per liberarci dell’antipatico termine di contrattuale, possiamo definire semplicemente dialettica. Il rapporto è duplice, costituisce un doppio flusso a sensi inversi, dal centro alla base e dalla base al centro; rispondendo alla buona funzionalità di questo rapporto dialettico l’azione indirizzata dal centro, vi risponderanno le sane reazioni della base».

La disciplina organizzativa non è d’altra parte cosa secondaria, anche perché a ciascun militante, che abbia responsabilità centrali o meno, non è dato di decidere per proprio conto se, quando e in che forma applicare le direttive del partito. Seguiamo ancora il testo citato: «Il problema quindi della famosa disciplina consiste nel porre ai militanti di base un sistema di limiti che sia l’intelligente riflesso dei limiti posti all’azione dei capi. Abbiamo perciò sempre sostenuto che questi non debbono avere la facoltà in importanti svolti della congiuntura politica di scoprire, inventare e propinare pretesi nuovi principi, nuove formule, nuove norme per l’azione del partito. E’ nella storia di questi colpi a sorpresa che si compendia la storia vergognosa dei tradimenti dell’opportunismo. Quando questa crisi scoppia, appunto perché il partito non è un organismo immediato e automatico, avvengono le lotte interne, le divisioni in tendenze, le fratture, che sono in tal caso un processo utile come la febbre che libera l’organismo dalla malattia, ma che tuttavia “costituzionalmente” non possiamo ammettere, incoraggiare o tollerare».

D’altra parte, il partito ha tutto l’interesse a prepararsi preventivamente contro le possibili deviazioni e degenerazioni, e se non lo può fare con articoli costituzionali o di Statuto, con specifici regolamenti o ricette, come?

Al solito, vi sono condizioni politiche derivanti dal bilancio delle esperienze della lotta proletaria e rivoluzionaria di tanti decenni, «la cui ricerca, la cui difesa, la cui realizzazione devono essere instancabile compito del nostro movimento». Le condizioni politiche principali, riprendendo da alcuni nostri testi di base, possono essere così riassunte (30):

 

1)    Il partito deve difendere ed affermare la massima chiarezza e continuità nella dottrina comunista quale si è venuta svolgendo nelle successive applicazioni agli sviluppi della storia, e non deve consentire proclamazioni di principio in contrasto anche parziale coi suoi cardini teoretici. Il partito perciò vieta la libertà personale di elaborazione e di elucubrazione di nuovi schemi e spiegazioni del mondo sociale contemporaneo, vieta la libertà individuale di analisi, di critica e di prospettiva anche per il più preparato intellettuale degli aderenti e difende la saldezza di una teoria che non è effetto di cieca fede, ma è il contenuto della scienza di classe proletaria, costruito con materiale di secoli, non dal pensiero di uomini, ma dalla forza di fatti materiali, riflessi nella coscienza storica di un a classe rivoluzionaria e cristallizzati nel suo partito.

2)    Il partito deve in ogni situazione storica proclamare apertamente l’integrale contenuto del suo programma quanto alle attuazioni economiche, sociali e politiche, e soprattutto in ordine alla questione del potere, della sua conquista con la forza armata, del suo esercizio con la dittatura.

3)    Il partito deve attuare uno stretto rigore di organizzazione nel senso che non accetta di ingrandirsi attraverso compromessi con gruppi o gruppetti o peggio ancora di fare mercati fra la conquista di adesioni alla base e concessioni a pretesi capi e dirigenti.

4)    Il partito deve lottare per una chiara comprensione storica del senso antagonista della lotta. I comunisti rivendicano l’iniziativa dell’assalto a tutto un mondo di ordinamenti e di tradizioni, sanno di costituire essi un pericolo per tutti i privilegiati, e chiamano le masse alla lotta per l’offensiva e non per la difensiva contro pretesi pericoli di perdere millantati vantaggi e progressi, conquistati nel mondo capitalistico. I comunisti non danno in affitto e prestito il loro partito per correre ai ripari della difesa di cause non loro e di obbiettivi non proletari come la libertà, la patria, la democrazia ed altre simili menzogne.

5)    I comunisti rinunciano a tutta quella rosa di espedienti tattici che furono invocati con la pretesa di accelerare il cristallizzarsi dell’adesione di larghi strati delle masse intorno al programma rivoluzionario. Questi espedienti sono il compromesso politico, l’alleanza con altri partiti, il fronte unico, le varie formule circa lo Stato usate come surrogato della dittatura proletaria – governo operaio e contadino, governo popolare, democrazia progressiva. I comunisti ravvisano storicamente una delle principali condizioni del dissolversi del movimento proletario e del regime comunista sovietico proprio nell’impiego di questi mezzi tattici, e considerano coloro che deplorano la lue opportunista del movimento staliniano e nello stesso tempo propugnano quell’armamentario tattico come nemici più pericolosi degli stalinisti medesimi.

6)    La base organizzativa del partito comunista è quella per circoscrizioni territoriali e non per cellula, nuclei d’azienda o simili organismi settoriali. Nel gruppo territoriale sono posti in partenza sul medesimo piano i lavoratori di ogni mestiere e dipendenti da svariatissimi padroni, e con essi tutti gli altri militanti di categorie sociali non strettamente proletarie che il partito dichiaratamente ammette come gregari, e deve in ogni caso ricevere come tali e se occorre tenerli in maggiori quarantene, prima di chiamarli, ove ne sia il caso, a cariche di organizzazione.

7)    La concezione della Sinistra comunista sull’organizzazione di partito sostituisce allo stupido criterio maggioritario scimmiottato dalla democrazia borghese un ben più alto criterio dialettico che fa dipendere tutto dal solido legame di militanti e dirigenti con la impegnativa severa continuità di teoria di programma e di tattica.

8)    Il partito, considera il sindacato, o meglio l’associazione economica del proletariato, organo indispensabile per la mobilitazione della classe sul piano politico e rivoluzionario, attuata con la presenza e la penetrazione del partito comunista nelle organizzazioni economiche di classe. nelle difficili fase che presenta il formarsi delle associazioni economiche, si considerano come quelle che si prestano all’opera del partito le associazioni che comprendono solo proletari e a cui gli stessi aderiscono spontaneamente ma senza l’obbligo di professare date opinioni politiche religiose e sociali. Tale carattere si perde nelle organizzazioni confessionali e coatte o divenute parte integrante dell’apparato di Stato (come in sostanza gli attuali sindacati tricolore).

9)    Il partito non adotta mai il metodo di formare organizzazioni economiche parziali comprendenti i soli lavoratori che accettano i principi e la direzione del partito comunista. ma il partito riconosce senza riserve che non solo la situazione che precede la lotta insurrezionale, ma anche ogni fase di deciso incremento dell’influenza del partito tra le masse non può delinearsi senza che tra il partito e la classe si stenda lo strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica, in seno alle quali vi sia una rete emanante dal partito (nuclei, gruppi e frazione comunista sindacale).

10)  Compito del partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe proletaria è di prevedere le forme e incoraggiare l’apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata, che nell’avvenire potranno assumere anche aspetti del tutto nuovi, dopo i tipi ben noti di lega di mestiere, sindacato d’industria, consiglio d’azienda e così via. In partito incoraggia sempre le forme di organizzazione che facilitano il contatto e la comune azione tra lavoratori di varie località e di varia specialità professionale, respingendo le forme chiuse.

11)  Dato che il carattere di degenerazione del complesso sociale si è concentrato e si concentra nella falsificazione e nella distruzione della teoria e della sana dottrina, è chiaro che il piccolo partito di oggi ha ancora un carattere preminente di restaurazione e di difesa dei principi di valore dottrinale, e purtroppo manca dello sfondo favorevole in cui Lenin lo compì dopo il disastro della prima guerra mondiale. Tuttavia non per questo caliamo una barriera fra teoria e azione pratica, poiché oltre un certo limite distruggeremmo noi stessi e tutte le nostre basi di principio. Rivendichiamo dunque tutte le forme di attività proprie dei momenti favorevoli nella misura in cui i rapporti reali di forze lo consentono, e quindi il partito non perde occasione per entrare in ogni frattura, in ogni spiraglio, sapendo bene che non si avrà la ripresa se non dopo che questo settore si sarà grandemente ampliato e divenuto dominante.

12)  Il parlamentarismo, seguendo lo sviluppo dello Stato capitalista che assumerà palesemente la forma di dittatura che il marxismo gli ha scoperto sin dall’inizio, va man mano perdendo d’importanza. Anche le apparenti sopravvivenze degli istituti elettivi parlamentari delle borghesie tradizionali vanno sempre più esaurendosi rimanendo soltanto una fraseologia, e mettendo in evidenza nei momenti di crisi sociale la forma dittatoriale dello Stato, come ultima istanza del capitalismo, contro cui deve esercitarsi la violenza del proletariato rivoluzionario. Il partito, quindi, permanendo questo stato di cose e gli attuali rapporti di forza, si disinteressa delle elezioni democratiche di ogni genere e non esplica in tale campo la sua attività. Il partito, perciò, di fronte alle elezioni democratiche esprime questa non attività nel campo elettorale e parlamentare come astensionismo rivoluzionario, ossia dedica le proprie energie alla generale attività di studio, propaganda, agitazione e proselitismo nel quadro della lotta anticapitalistica, e quindi anche contro la democrazia e i suoi meccanismi di inganno e di imbottimento dei crani proletari, e per l’orientamento classista del proletariato.

13)  Per accelerare la ripresa di classe non sussistono ricette bell’e pronte. Per fare ascoltare ai proletari la voce di classe non esistono manovre ed espedienti, che come tali non farebbero apparire il partito quale è veramente, ma un travisamento della sua funzione, a deterioramento e pregiudizio della effettiva ripresa del movimento rivoluzionario, che si basa sulla reale maturità dei fatti e del corrispondente adeguamento del partito, abilitato a questo soltanto dalla sua inflessibilità dottrinaria e politica.

 

*  *  *

 

Molti sarebbero ancora i punti interessanti da svolgere, ma rimandiamo, anche per ragioni di lunghezza, a successive occasioni di ripresa delle questioni che il testo della nuova manchette richiama.

E’ indispensabile, lo precisiamo anche se è evidentemente implicito, rifarsi al lavoro di bilancio delle crisi che abbiamo svolto in tutti questi anni, e in particolare ad alcuni testi come gli articoli seguenti, pubblicati nel 1981-1982 in “il programma comunista”: «La capacità del partito di interrogarsi sulla strada percorsa, presupposto per andare avanti sulla strada della rivoluzione proletaria» (RG novembre 1981, nn. 10, 11 e 12 del 1981), «Le questioni poste dalla crisi del nostro partito» (RG ottobre 1982, n. 20 del 1982); e pubblicati, fra il 1985 e il 1987 in “il comunista”: «Propaganda comunista, fattore essenziale della preparazione rivoluzionaria» e «In difesa del programma comunista» (n. 2, Aprile 1985), «Punti sulla questione della lotta immediata e degli organismi proletari indipendenti» (nn. 3-4, 5 e 6, Luglio-Dicembre 1985), «Che cosa significa fare il bilancio della crisi di partito?» (n. 6, Novembre 1986), «La riconquista del patrimonio teorico e politico della Sinistra comunista passa anche attraverso la riacquisizione della corretta prassi di partito» (nn. 8, 9-10, Agosto-Dicembre 1987), «Rapport du centre international à la Réunion général du parti», Luglio 1982 (in “Programme communiste” n.89/1987); inoltre, «La critica senza l’errore non nuoce nemmeno la millesima parte di quanto nuoce l’errore senza la critica» (“il comunista” n. 45, Aprile 1995), e «Sulla questione della formazione del partito dopo la crisi esplosiva del 1982-84 del “partito comunista internazionale-programma comunista”, in Italia e in altri paesi» (“il comunista” nn. 56/1997, 57-58/1998 e 62/1998).

 

 


 

 

(24) Il testo della nuova manchette fu pubblicato a partire dal n.1 del 1976 de “il programma comunista”.

(25) Cfr. Lenin, «Stato e rivoluzione», Editori Riuniti, Roma 1981, pag. 109.

(26) Vedi «Il principio democratico», di A Bordiga, pubblicato in “Rassegna Comunista” n. 18 del 28 febbraio 1922, raccolto in volume nella serie «i testi del partito comunista internazionale», n.4, intitolato «Partito e classe»; le citazioni sono alle pagg. 56-59.

(27) Cfr le Tesi per il III Congresso del partito comunista, 1926, nel volumetto di partito intitolato «In difesa della continuità del programma comunista», Firenze 1970, punto 5 (Disciplina e frazioni) del primo capitolo “Questioni generali”, pag. 105.

(28) Cfr le Tesi sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della sinistra comunista, dette anche «Tesi di Napoli», presentate alla riunione generale di partito a Napoli il 17-18 luglio 1965 e pubblicate ne “il programma comunista” n.14, Luglio 1965; poi raccolte nel volumetto intitolato «In difesa della continuità…», cit.; la citazione è ripresa dal punto 11., a pag. 180.

(29) Vedi il testo «Forza, violenza dittatura nella lotta di classe», di Amadeo Bordiga, pubblicato per la prima volta nella rivista “Prometeo” tra il 1946 e il 1948, poi ripreso nel volumetto di partito intitolato «Partito e classe», cit.; i passi citati sono alle pagg.116-117.

(30) I testi da cui abbiamo ripreso qualche passo sono: Forza violenza dittatura nella lotta di classe, Partito rivoluzionario e azione economica, Tesi caratteristiche del partito, Considerazioni sull’organica attività del partito nelle situazioni storicamente sfavorevoli, tutti già citati in questo articolo.

 

Partito comunista internazionale

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