Stato di «guerra permanente» e lotta di classe rivoluzionaria

(«il comunista»; N° 97-98; Novembre 2005)

 

La guerra che le grandi potenze mondiali guidate dagli USA hanno scatenato per la seconda volta contro l’Iraq, occupandolo militarmente ormai da quasi tre anni, non è un episodio isolato, come se si trattasse di una vicenda legata soltanto a fatti particolari, oltretutto falsi (possesso di armi di distruzione di massa, che non sono mai state trovate; potenziale armamento nucleare da parte dell’Iraq di Saddam, che non è mai stato provato; legami con i gruppi terroristi di Al Qaeda, che non ci sono mai stati) a fronte dei quali la cosiddetta «comunità internazionale» si è presa la briga di dare il via libera a USA e Gran Bretagna per l’attacco militare.

Questa guerra contro l’Iraq fa parte, in realtà, di un lento ma inesorabile processo di sviluppo dei contrasti fra gli Stati imperialistici che - soprattutto a causa dell’implosione dell’URSS e dell’avanzare di una nuova potenza, la Cina, sullo scenario internazionale - sono spinti a rimettere in discussione le proprie e le altrui zone di influenza, le proprie e le altrui quote di mercato, nella prospettiva di una nuova ripartizione del mercato mondiale.

Nella fase imperialistica, come ricorda Lenin, gli Stati capitalistici più forti tendono a rafforzare e ad allargare la propria oppressione sugli Stati più deboli. Nessun angolo della terra è ormai escluso dalla diretta o indiretta influenza delle politiche economiche e militari delle grandi potenze. E nessuna grande potenza può ritenersi «sicura» per lungo tempo del proprio peso politico e della quota di mercato che in un dato periodo controlla. L’economia capitalistica avvolge l’intero pianeta; la «mondializzazione», o la «globalizzazione» che dir si voglia, è la logica conseguenza dello sviluppo capitalistico e della conquista irrefrenabile di mercati sempre più grandi e in precedenza non «sfruttati» o non sfruttati «al massimo».

Lenin, citando il wuo libro sull’Imperialismo (1916) nel libro La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (1), riafferma: «L’imperialismo è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo fra i trusts internazionali ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre fra i più grandi paesi capitalistici».

Il che, per inciso, vuol anche dire che i trusts e i paesi capitalistici sono cose diverse, che i due non si sovrappongono, non sono la «stessa cosa»: lo Stato difende la rete di interessi dei trusts internazionali - o «multinazionali» come si usa dire da tempo - che fanno capo appunto al paese originario, ma le due realtà borghesi e capitalistiche sono distinte, talvolta contrastanti, in un processo di sviluppo che vede il trust, il polo capitalistico finanziario dato, come potere dominante dell’economia capitalistica. Lo Stato borghese, nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, svolge sempre più la funzione di sostegno, difensore, concentratore di risorse sociali del dominio monopolistico del capitale. E in determinate fasi acute di crisi, lo Stato, da strumento essenzialmente politico e militare a difesa del sistema dei monopoli, si trasforma esso stesso nel monopolio più importante, intervenendo nella società e nel mercato come principale forza economica.

Nulla di nuovo sotto il sole: il marxismo ha letto questo sviluppo fin dalle sue origini, identificandolo come l’ultima fase del capitalismo, l’imperialismo appunto. Fase in cui dominano il capitale finanziario e i grandi monopoli, i trust, i cartelli, entità capitalistiche che si ergono a controllori dello Stato borghese: lo Stato borghese è in sostanza il comitato d’affari della grande borghesia; agisce ed opera in funzione degli interessi dei grandi gruppi capitalistici nazionali, e internazionali, smentendo del tutto il ritornello dello Stato come rappresentante degli interessi di un intero popolo, al di sopra della divisione fra le classi.

La guerra contro l’Iraq di Saddam, come già la prima guerra del Golfo, è lo sbocco di un crescendo di contrasti fra trusts concorrenti, fra Stati che rappresentano reti di interessi contrastanti, è un passo verso una diversa ripartizione dei poteri che controllano una regione - quella mediorientale - ritenuta vitale per il capitalismo mondiale, sia per la produzione di petrolio e gas naturale, sia per la loro distribuzione. E’, d’altra parte, un’area importante anche per il fatto di controllare gli sbocchi commerciali nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano, attraverso appunto il Golfo Persico. Il fatto che i belligeranti siano da un lato un numero importante di Stati imperialisti, guidati da una alleanza di ferro anglo-americana, e dall’altro un solo Stato - l’Iraq - non deve nascondere un’altra realtà determinata dal contrasto di reti di interessi capitalistici che fanno capo a poli imperialisti concorrenti. Solo che il polo imperialistico che aveva interesse a parteggiare per l’Iraq (Germania, Francia, Russia) non ha avuto ancora la forza e la convenienza di affrontare anche militarmente l’aggressiva alleanza anglo-americana, lasciando l’Iraq di Saddam al suo destino e cercando, poi, di ricavare dalla sua posizione «non-belligerante» qualche vantaggio.

Tre anni dopo la fine della seconda guerra imperialistica mondiale nacque Israele. Il dominio britannico, soprattutto, sull’intera regione del Medio Oriente è stato particolarmente scosso; anche se questa potenza uscì dalla guerra «vincitrice», non aveva più la forza di mantenere come prima il suo dominio mondiale. L’emergere degli Stati Uniti d’America l’aveva di fatto scalzata. E nel ritirarsi, pian piano, dalle sue colonie, la Gran Bretagna lasciò in eredità non lo sviluppo economico, non la diffusione della scienza e della tecnica, ma il caos, in paesi in cui il salto rivoluzionario dalla pastorizia e dall’economia naturale al capitalismo dei pozzi petroliferi e delle banche non ha avuto in parallelo un progresso economico generale e un progresso politico di tipo democratico. L’unica vera eccezione, Israele, la si deve ad un’operazione di chirurgia diplomatica, in cui gli ebrei «senza patria» vennero convogliati in Palestina, nella loro «terra promessa», con l’obiettivo di erigere uno Stato «occidentale», comandato dalle potenze vincitrici della guerra e, infine,dagli Stati Uniti. Con questa operazione, le democrazie occidentali si ponevano due grandi obiettivi: lavarsi la coscienza per aver abbandonato nelle mani degli aguzzini nazisti milioni di ebrei europei (dare loro una «patria»), e nello stesso tempo mettere il proprio tallone di ferro - attraverso uno Stato gendarme - in un’area troppo importante, per il petrolio, che poteva finire sotto influenza sovietica. Con ciò i vecchi contrasti fra tribù e sceicchi non sono stati risolti, caso mai se ne sono aggiunti di nuovi e di portata molto più ampia, come le diverse guerre arabo-israeliane dimostrano.

E’ sintomatico, d’altra parte, che, cessando le guerre arabo-israeliane, inizino guerre in cui dichiaratamente le grandi potenze si mostrano e intervengono. Fu così già con la guerra Iraq-Iran, quando Saddam Hussein era considerato da Washington, Londra e Parigi come il più affidabile alleato contro l’espansionismo più o meno potenziale dell’Iran finito sotto il potere teocratico degli sciiti, non proprio favorevoli agli occidentali. Ed è continuato con la prima e la seconda Guerra del Golfo. Le minacce per niente velate contro la Siria e l’Iran, lanciate a più riprese da Bush, fanno parte dello stesso quadro: intimidazioni che preludono ad un attacco militare la cui data non è definita ma per la quale si attende che la congiuntura internazionale sia sufficientemente favorevole, come lo è stato per il secondo attacco all’Iraq di Saddam Hussein dopo l’attentato di Al Qaeda alle Torri Gemelle di New York nel settembre 2001.

E mentre tutti hanno gli occhi puntati sull’Iraq, sulla Siria e sull’Iran, potrebbe scoppiare una crisi di guerra in un altro punto nevralgico delle «zone delle tempeste» che infestano il mondo. Potrebbe essere ancora nel Sud Est asiatico, a Taiwan, in Indonesia o in Corea; potrebbe essere di nuovo in Sud America, Venezuela, Cuba o Messico; potrebbe essere ancora nell’Europa Orientale, nelle regioni della ex Yugoslavia o nelle regioni della ex Russia europea; potrebbe essere per l’ennesima volta nel Corno d’Africa, nella martoriata Somalia o nell’inconciliabile convivenza fra Eritrea ed Etiopia, o nuovamente nella regione dei Grandi Laghi così ricca di materie prime, oppure nei paesi che guardano il Golfo di Guinea.

Il periodo che stiamo attraversando è, in un certo senso, un periodo di «transizione». Dalla vecchia ripartizione del mondo fra due colossi militari, USA e URSS, ad una nuova ripartizione del mondo, in cui giganteggia un mostro statale che si chiama USA, attorniato da alcune grandi potenze e grandi paesi che non si sottomettono così docilmente agli interessi americani.

Von Clausewitz affermò che la guerra è la continuazione della politica, solo con altri mezzi, con mezzi militari appunto. Questo è tanto più vero nello stadio imperialistico del capitalismo, periodo in cui la guerra non risponde più come un tempo alla conquista di colonie o nuove colonie per il proprio capitalismo nazionale. Oggi, l’imperialismo è per la conquista di mercati, siano costituiti da nazioni grandi o piccole, Stati sovrani o semistati, grandi Stati o piccoli Stati. La colonizzazione non è più soltanto di territori e di popolazioni, ma di territori economici e di lavoratori salariati, si tratti di Nigeria o di Germania, di Algeria o di Russia, di Libia, Cina o Sudafrica.

Costante crisi di sovraproduzione

 

L’enorme quantità di prodotti di cui il modo di produzione capitalistico è capace si riversa su mercati che non la assorbono con la stessa velocità con cui viene prodotta. I mercati si intasano, le crisi di sovraproduzione di merci e di capitali si presentano con sempre più frequenza. Il bisogno capitalistico di valorizzazione del capitale corrisponde sempre più al bisogno capitalistico di distruggere prodotti invenduti o invendibili per poterli produrre nuovamente e ributtarli sul mercato. Mercato che, grazie appunto alla scomparsa di determinate merci a causa della loro distruzione, «chiede» di essere nuovamente rifornito. Ma con lo sviluppo iperfolle della produzione capitalistica (prodotti che sono merci, merci che devono essere vendute e trasformate in denaro, denaro che si trasforma in altro denaro e altre merci, in un crescendo senza fine), e l’aumento della concorrenza sul mercato mondiale, le merci e i capitali aumentano sempre più rispetto alla possibilità dei mercati di assorbirli valorizzandoli. La politica imperialistica, guidata dagli interessi dei grandi monopoli, tende a schiacciare nella concorrenza tutti i capitalisti che non si sottomettono alle loro esigenze; e quando le esigenze dei grandi monopoli coincidono con l’economia nazionale, in poche parole, con lo Stato, allora è lo Stato che direttamente pratica la politica dei grandi interessi imperialistici, assoggettando le maggiori risorse del paese a questa politica: dal punto di vista fiscale, amministrativo, sindacale, politico. Finché giunge lo sbocco obbligato della guerra, ossia della distruzione di masse enormi di beni perché la macchina produttiva, e la macchina finanziaria, non soffochino, e continuino a macinare profitti.

Quando il bisogno di distruggere masse sempre più imponenti di merci e di capitali si fa pressante, la guerra è alle porte. Non necessariamente la guerra mondiale. Tante guerre regionali, tante distruzioni di merci e di capitali, come è avvenuto dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, se si sommano equivalgono a più guerre mondiali. E questo ha senza dubbio contribuito alla cosiddetta «pace» di questi ultimi sessant’anni: «pace» nei paesi imperialisti maggiori, non certo mondiale, visto che le guerre nelle varie parti del mondo si sono susseguite senza mai un momento di tregua.

Il fatto stesso che le grandi potenze economiche, che sono anche grandi potenze militari, siano entrate in guerra - nei diversi teatri di crisi - direttamente, e non attraverso interposte borghesie locali, va a modificare un atteggiamento, e una politica, che in precedenza sono sempre stati, anche se solo di facciata, «pacifisti». Negli ultimi tempi, e in particolare negli ultimi quindici anni, l’imperialismo delle grandi potenze mostra più chiaramente il suo volto.

La teoria della guerra preventiva, che ha fatto da giustificazione a Bush e Blair per lo scatenamento dei loro attacchi militari in Afghantistan e in Iraq, non è uno slogan usato temporaneamente contro «il terrorismo internazionale». E’ la semplificazione di una esigenza vitale del capitalismo, quella appunto di sopravvivere alle sue crisi di sovraproduzione. E’, nello stesso tempo, una formula che può essere usata in qualsiasi frangente, contro qualsiasi «nemico» del momento: oggi il cosiddetto terrorismo internazionale, domani un nuovo totalitarismo o un nuovo «scontro di civiltà».

Il proletariato: carne da macello o forza rivoluzionaria
 

Ma la borghesia imperialista ha anche un altro problema, soprattutto quando la crisi economica è seria: il proletariato.

Una vecchia esperienza di dominio sociale spinge, in genere, gli elementi della borghesia più «lungimiranti», più «illuminati», a predisporre il proletariato ad una condivisione delle scelte di governo. E tale condivisione si basa su due pilastri fondamentali dell’inganno borghese: far credere che lo Stato sia effettivamente al di sopra delle parti, e al di sopra dei contrasti di classe; far credere che la guerra sia evitabile, anche quando la si definisce «preventiva» o «necessaria».

Le radici democratiche degli Stati borghesi occidentali facilitano, ovviamente, questo inganno. Il meccanismo democratico - particolarmente dispendioso - è sostenuto dalla borghesia dominante al solo scopo di far credere al proletariato, cioè alla maggioranza della popolazione, che il potere borghese non sia totalitario, ma il frutto delle scelte che il popolo fa attraverso le elezioni.

La democrazia, concretizzandosi in una serie interminabile di enti, comitati, consigli, apparati, su su fino al parlamento centrale, e poggiando su di una ampia legalità, che permette a qualsiasi cittadino o individuo, anche se solo formalmente, di associarsi, riunirsi, produrre materiali, diffonderli, ecc., appare come un bene comune, come un meccanismo necessario per vivere civilmente e socialmente: migliorabile, ma necessario. E in grado di essere cambiato a seconda delle scelte degli elettori.

L’inganno sta esattamente qua: nella «scelta». Chi ha il potere economico, cioè la borghesia, ha il potere politico e quindi quello militare. Chi non ha potere economico, anche se nella popolazione rappresenta la maggioranza, non ha possibilità di «scegliere» se non nei limiti dati dallo stesso potere borghese. E questi limiti sono determinati dal rapporto fra lavoro salariato e capitale: se vuoi mangiare, vestirti, vivere sotto un tetto, farti una famiglia, crescere i tuoi figli, sei costretto (non è una scelta, ma è un obbligo) a lavorare alle condizioni imposte dal capitale. E queste condizioni non sono egualitarie, non mettono sullo stesso piano tutti gli abitanti di un paese: rappresentano esse stesse la differenza fra le classi in cui la società capitalistica è divisa. I limiti entro i quali i borghesi possono scegliere sono quelli del potere economico, del potere finanziario, politico e militare; ossia sono i limiti più ampi che la società borghese dà alla propria classe dominante. I limiti entro i quali i proletari possono scegliere sono determinati, invece, dal lavoro salariato - ossia dal tempo di lavoro che i proletari danno al capitalista per produrre profitto - e dall’esistenza della concorrenza fra lavoratori, fra chi accetta condizioni di lavoro più svantaggiose e chi invece non le accetta, dunque fra occupati, precari, stagionali, cottimisti, lavoratori in nero, disoccupati. Questi sono i limiti entro i quali i borghesi fanno «scegliere» i proletari per poter sopravvivere.

Lo Stato democratico, e in questo è come lo Stato totalitario e fascista, difende innanzitutto il patrimonio, la proprietà privata, il diritto del capitalista ad essere e agire come capitalista, ossia come sfruttatore di lavoro salariato, come colui che si appropria il prodotto del lavoro salariato. Solo che, in democrazia, viene concesso ai proletari di scegliere attraverso le elezioni - come ricorda Lenin - coloro i quali per un certo numero di anni continueranno a mantenere in piedi questo sistema di sfruttamento, continueranno a lubrificare i meccanismi di coercizione tipici dello Stato, continueranno a estorcere dal lavoro salariato il plusvalore, e quindi il profitto capitalistico.

Lo Stato democratico dà l’illusione che anche in periodo di crisi, e in periodo di pericolo di guerra, il proletariato abbia voce in capitolo. Da questo punto di vista, lo Stato borghese totalitario esercita più direttamente il suo ruolo di difensore-aggressore per conto del capitalismo nazionale; non ha bisogno della consultazione democratica del proletariato, perché presuppone di avere già il consenso della maggioranza della popolazione date le politiche riformistiche adottate e gli effetti di una martellante e insistente campagna nazionalistica nella quale i pregiudizi borghesi e piccoloborghesi si confondono con lo spontaneismo conservatore che alberga sempre nelle file proletarie.

Resta il fatto, però, che i proletari non «chiedono» la guerra come mezzo per risolvere contrasti internazionali fra borghesie e fra Stati; non la vogliono, la guerra; vi si oppongono, non ne vogliono sentir parlare. La guerra è un bisogno della classe dominante per difendere i suoi interessi economici e politici, è una «scelta obbligata» della borghesia dominante: è la continuazione della sua politica estera fatta con mezzi militari.

Ma chi la fa la guerra? Per fare la guerra ci vogliono i soldati, e per quanto tecnologicamente avanzata sia la tecnica militare, per occupare territori, per controllare vie di comunicazione, posizioni o luoghi ritenuti strategici, ci vogliono sempre soldati. E la grande maggioranza dei soldati è presa dal proletariato.

Dunque, il proletariato va convinto delle ragioni per le quali la classe dominante lo vuol mandare a morire in guerra.

Le ragioni della guerra borghese non nascono la notte prima della dichiarazione di guerra; vengono da lontano, vengono preparate con campagne di propaganda atte a influenzare il proletariato a conciliare i suoi interessi con quelli borghesi, a condividere gli obiettivi borghesi, a prenderli in carico come se fossero i propri. Vi sono ragioni di tipo nazionalistico, di tipo religioso, di tipo politico; ragioni legate alla cosiddetta risposta «all’aggressore», ragioni legate alla missione di diffondere nel mondo la «civiltà», la «democrazia», combattendo la «barbarie», il «terrorismo», il «totalitarismo». Insomma, ragioni di natura essenzialmente borghese, se non preborghese come nel caso del fondamentalismo religioso.

Cosa c’è di più traumatico degli attentati terroristici nei mercati, sui treni, nelle metropolitane, nei luoghi di grande passaggio o di grande concentrazione di persone indifese? Cosa può sollevare al più alto grado l’orrore e il risentimento verso i loro artefici, se non gli atti terroristici che ammazzano ciecamente anziani, donne, bambini, civili innocenti? Tanto che verrebbe da pensare che determinati atti terroristici (ricordate la cosiddetta «strategia della tensione» in Italia, a suon di attentati fascisti passati per attentati anarchici?) vengano progettati e realizzati appositamente, in modo che il potere dominante possa dotarsi di sufficienti ragioni obiettive per incrudire la repressione, sospendere molti dei diritti democratici esistenti, lanciare campagne contro organizzazioni che danno fastidio o che effettivamente si oppongono con le armi al loro strapotere (come nel caso di Al Qaeda), montare campagne che accreditino la necessità di una risposta forte, decisa, armata di fronte ad un «attacco» di cui tutti... hanno potuto vedere le conseguenze sanguinose... Dicevamo, a proposito delle Torri gemelle di New York, che se non ci pensava Al Qaeda, prima o poi ci avrebbero pensato i servizi segreti americani a provocare qualche strage per avere la ragione obiettiva e, insieme, il pretesto per lanciarsi in una guerra che, oltretutto, ha ridato respiro all’economia americana, facendola riprendere dopo un periodo di crisi e recessione.

Gli attentati terroristici di questo tipo hanno in effetti l’obiettivo di creare caos, spaventare la popolazione, per poter approfittare di una instabilità più o meno temporanea dei poteri istituzionali, al fine di ottenere vantaggi di diverso tipo, a livello economico o a livello politico; è per questa ragione che non sono mirati tanto a determinati personaggi particolarmente invisi ad una parte della popolazione o scomodi, ma colpiscono la massa, il popolino, i proletari che vanno al lavoro o che vanno al mercato. I proletari, così, diventano carne da macello non soltanto nelle guerre classiche, nelle guerre degli Stati e degli eserciti, ma anche nelle guerre di concorrenza tra fazioni borghesi; perchè questo terrorismo - che non ha nulla a che vedere, ad esempio, con gli atti terroristici dei nazionalisti borghesi che lottano contro la potenza colonizzatrice, atti rivolti esclusivamente contro i colonizzatori e il loro esercito - è la continuazione della politica di determinate fazioni borghesi, escluse dal banchetto di profitti più ricco ma intenzionate a ricavarsene una fetta comunque, armi alla mano, strage dopo strage.

I proletari, chiamati dai governi e dagli Stati ad unirsi con le istituzioni, con i poteri «legalmente» eletti, a sostenere l’azione della borghesia dominante contro le organizzazioni terroristiche - che altro non sono che fazioni della stessa classe borghese - in realtà non hanno nulla da guadagnare da quella unione, perché nulla cambierà della loro disgraziata vita di lavoratori salariati. Anche se le organizzazioni terroristiche dei vari fondamentalismi venissero prima o poi sconfitte, i proletari continuerebbero a sopravvivere sotto il dominio del capitale e del suo modo di produzione che mette al centro di ogni interesse la valorizzazione del capitale stesso, il profitto, il mercato.

I proletari sono già carne da macello nelle fabbriche, nel tormento del lavoro salariato, nel supersfruttamento quotidiano perché il salario non basta mai, nella disoccupazione, nel lavoro nero, nella clandestinità delle migrazioni. La via d’uscita non sta nell’unirsi alla borghesia consegnando nelle sue mani per l’ennesima volta la propria vita. La via d’uscita sta nel rompere con la borghesia, nel separare i propri interessi da quelli borghesi, i propri obiettivi da quelli borghesi, le proprie organizzazioni di difesa economica e immediata da quelle borghesi. La via d’uscita sta nel riconoscere l’antagonismo di classe che caratterizza la società borghese, democratica o fascista che sia, e organizzarsi in modo indipendente, e classista, mettendo in cima ai propri scopi la difesa esclusiva degli interessi proletari, comuni a tutti i proletari perché lavoratori salariati, aldilà della nazionalità, dell’età, del sesso e delle differenze di categoria, occupati o disoccupati che siano. I proletari nascono proletari, nascono già senza riserve, obbligati a faticare come bestie per un tozzo di pane; nascono già nell’insicurezza della propria vita, nella precarietà più ampia, e muoiono di malattia, di fatica, di incidenti, di repressione e di guerra. E nonostante questo maledetto destino, il proletariato col suo lavoro sostiene e mantiene l’intera società, sopporta il peso di masse sempre più avide di burocrati, di bottegai, di preti, di militari, di parlamentari, di interrmediari e di capitalisti.

Per togliersi dal maledetto destino che li ha classificati come braccia da sfruttare e carne da macello, i proletari devono scrollarsi di dosso il pregiudizio democratico che li illude di poter contare qualcosa in questa società solo rispettando le regole che la borghesia ha imposto anche per la loro protesta o la loro lotta. La pace sociale, la concertazione, la discussione parlamentare, gli iter istituzionali, sono l’altra faccia di una realtà molto più cruda e terribile, fatta di sfruttamento intollerabile, di licenziamento, di pensioni inesistenti, di malattie e morti bianche, di salari miserevoli, di disoccupazione e di disperazione. La pace sociale, la concertazione, la fiducia nelle istituzioni democratiche servono alla borghesia dominante non solo nell’immediato, per il controllo sociale, ma anche per il futuro, in vista di periodi di crisi molto più acuti di quello che stiamo attraversando. Servono perché la borghesia ha bisogno che il proletariato si abitui a collaborare e mantenga l’attitudine a collaborare, al fine di far passare la difesa dei suoi interessi capitalistici, oggi in tempo di pace, domani in tempo in guerra.

Il proletariato ha invece tutto da guadagnare nel separare i propri interessi, e i propri destini di classe, da quelli della «propria» borghesia: la pace imperialista prepara la guerra imperialista, affermava Lenin, e nella guerra imperialista chi ci rimette completamente è il proletariato di ogni paese. La dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi da sessant’anni. Dalle guerre regionali, ad un certo punto di maturazione dei grandi contrasti interimperialistici fra le grandi potenze, si passerà alla guerra generale e mondiale, e sarà la terza guerra imperialistica mondiale. Ogni borghesia nazionale sta preparandosi a questo appuntamento, e sa che non le conviene presentarsi a questo scontro fra grandi interessi capitalistici, e quindi fra Stati, senza la collaborazione del proprio proletariato, collaborazione che dovrebbe garantire la borghesia sul fronte «interno» mettendola nelle condizioni di avere le mani libere sul fronte di guerra «esterno».

La collaborazione interclassista, quindi, per la borghesia è strategica: senza di essa il proletariato non può essere contemporaneamente sfruttato a più non posso e partecipe della difesa degli interessi nazionali borghesi. In tempo di pace, la collaborazione fra le classi prepara il terreno dell’union sacrée, della collaborazione in guerra, della sottomissione incondizionata del proletariato agli interessi e alla politica di guerra borghesi.

Il capitalismo, nella fase imperialista, è molto meno liberale, democratico, pacifico di quanto non lo fosse nella sua fase premonopolistica. L’imperialismo, «cioé il capitalismo monopolistico giunto a definitiva maturità solo nel secolo XX - afferma Lenin - si distingue, in virtù dei suoi tratti economici essenziali, per un amore assai meno forte della pace e della libertà e per un maggiore e generalizzato sviluppo del militarismo» (2). Ciò significa che il militarismo non è una caratteristica solo dei regimi pre-borghesi, come volevano gli opportunisti dei primi del Novecento, nè una caratteristica di paesi capitalistici arretrati, come vogliono certi opportunisti odierni (difendendo, ad esempio, la democrazia di Allende contro il militarismo di Pinochet).

Con lo sviluppo dell’imperialismo si sviluppa il militarismo, in quanto, sviluppandosi i contrasti fra trusts e fra paesi imperialistici, aumenta il bisogno di ogni Stato borghese di adeguare militarmente la propria forza sia in vista di scontri con altri Stati, sia in vista di conflitti sociali interni. Questo vuol dire che la collaborazione interclassista, in fase imperialista, è collaborazione col militarismo imperialista; ne giustifica, di fatto, la funzione sociale, e lo ammette come un «naturale» sviluppo degli apparati dello Stato.

Ma gli opportunisti, campioni del collaborazionismo interclassista da sempre, e professanti il pacifismo sociale e politico, si sono preparati una «via di fuga»: ci sono guerre «giuste», «necessarie», ad esempio contro la Yugoslavia di Milosevich, rea di opprimere i kosovari e i bosniaci, alle quali - sotto la foglia di fico dell’ONU - è «doveroso» partecipare, e guerre «non necessarie» ma «comprensibili», come ad esempio contro l’Iraq di Saddam Hussein, regime dittatoriale senza dubbio, ma borghese quanto quello di Pinochet e di Bush, alla quale - mancando la foglia di fico dell’ONU - non era «doveroso» partecipare, salvo parteciparvi a guerra «ufficialmente» finita e naturalmente per scopi «umanitari» come è stato il caso dell’Italia, e di molti altri paesi che si sono affrettati a raggiungere gli anglo-americani nella speranza di accaparrarsi una fettina del bottino. La «via di fuga» è proprio l’umanitarismo, o, come è stato assurdamente declinato, la «guerra umanitaria». In un caso e nell’altro, il collaborazionismo interclassista partecipa attivamente alla propaganda di guerra della borghesia, coprendo con posizioni pacifiste ed umanitariste i veri scopi e i veri interessi capitalistici delle azioni di guerra.

E contro il collaborazionismo interclassista non vi è che il disfattismo proletario, ossia l’atteggiamento del proletariato ad affrontare il nemico di classe principale - che è la borghesia - sul terreno dell’antagonismo di classe, della negazione degli interessi «comuni» fra proletari e borghesi, della negazione della conciliazione fra le classi.

La guerra non ha mai un solo obiettivo
 

La guerra borghese non ha mai un solo obiettivo, ne ha diversi. Nel caso della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein ne abbiamo già ricordati un paio: il controllo di una produzione petrolifera significativa e il controllo di un territorio che non può essere abbandonato al caos, proprio perché la sua produzione petrolifera è strategica per le grandi potenze.

Ma ci sono certamente altre ragioni. Una riguarda il rapporto tra potenze imperialistiche. Germania, Francia, Russia, non hanno accettato di allearsi con USA e Inghilterra nell’attacco di guerra contro l’Iraq. Esse avevano - ed hanno - interessi importanti verso il petrolio iracheno, tanto che avevano già concordato con Saddam Hussein una divisione di territori su cui impiantare le proprie attrezzature di ispezione e di pompaggio. Gli Usa e la Gran Bretagna, con la loro guerra, hanno di fatto mandato all’aria questa mossa che avrebbe permesso a Germania e Francia in particolare di dipendere meno di oggi dal mercato internazionale del petrolio e di aprire un mercato petrolifero parallelo in euro invece che in dollari. Alla Russia, invece, avrebbe permesso di riprendere la sua antica vocazione imperialistica verso l’Asia Minore e di partecipare ad un profittevole business.

Dunque, i contrasti interimperialistici fra Usa e Gran Bretagna, da un lato, e Germania, Francia e Russia, dall’altro, hanno prodotto una frattura la cui importanza si vedrà in futuro. Al momento, come succede a tutti i briganti, anche quelli che non hanno partecipato alla guerra fin dall’inizio, si sono messi tutti tranquilli attorno al banchetto accettando le magre porzioni che i «padroni di casa» anglo-americani hanno deciso di distribuire.

C’è una novità, nel frattempo, che non coglie neanche tanto di sorpresa: il Ciagate, ossia il fatto, svelato dal braccio destro di Cheney, vicepresidente americano, che tutta la vicenda legata al materiale nucleare che Saddam Hussein stava comprando dal Niger è una montatura, un falso di enormi proporzioni. Vi sarebbe coivolta non soltanto la Cia, ma anche il Sismi italiano. Si tratta, in poche parole, di carte truccate, appositamente preparate per costruire un pretesto in più a sostegno della guerra che Bush e Blair intendevano scatenare contro l’Iraq di Saddam Hussein. I pretesti e le carte truccate rispetto alla guerra di concorrenza fra borghesi, e alla guerra guerreggiata, non sono certo una sorpresa. Ma l’attuale Ciagate, Nigergate o Sismigate che dir si voglia, svela tensioni sotterranee che possono scuotere alleanze esistenti; e in ogni caso possono ribaltare il presidente degli Stati Uniti, che si dice essere l’uomo più potente del mondo, e mettere in grave difficoltà il suo socio inglese, Blair.

Ma anche se Bush e Blair dovessero cadere in disgrazia, cambierebbe sostanzialmente la politica americana e inglese? No, resterebbe in piedi il problema di difendere gli interessi dei grandi trusts e dell’economia «nazionale» dagli attacchi della concorrenza mondiale; resterebbe in piedi il problema di come «uscire» dal caos iracheno, dopo aver lasciato sul terreno più di 2000 soldati americani morti («per la patria» o per gli interessi di Halliburton e compagnia?); resterebbe in piedi il problema di mantenere viva la concorrenza anglo-americana - in fatto di armamenti e di petrolio - rispetto alle altre potenze imperialistiche, come resterebbero in piedi i problemi di come controbattere l’ingresso sul mercato mondiale di un nuovo potentato, la Cina. La politica imperialistica non può che prevedere situazioni di contrasto che si acutizzano, perché è sostanzialmente una politica di concorrenza e di conflitto, dove le forze determinanti sono i grandi monopoli e i grandi Stati che li sorreggono e li difendono.

La guerra borghese non è evitabile: solo la rivoluzione proletaria può fermarla
 

Nei fatti, la politica imperialistica è una politica di guerra, il cui raggio d’azione - regionale, continentale, mondiale - dipende dalla maturazione dei contrasti interimperialistici, dalla loro profondità e dalla preparazione degli Stati imperialisti più importanti allo scontro di guerra. Certo, la guerra di concorrenza non è immediatamente guerra guerreggiata, e i contrasti anche acuti fra Stati non sboccano automaticamente in guerra fra Stati. Da questo punto di vista, e nella concezione democratica e pacifista, la guerra guerreggiata appare evitabile, nel senso che gli uomini di governo, i rappresentanti degli Stati, se animati dalla volontà di negoziare gli interessi che rappresentano e di trovare un accordo, possono prolungare la pace ed evitare la guerra. La concezione democratica e pacifista ammette che ci siano uomini e rappresentanti del capitale più buoni e illuminati di altri, e che si tratta di mettere in mano il potere politico ai «buoni» - togliendolo ai «cattivi» - quando la situazione si fa particolarmente critica e il pericolo di guerra è imminente, o è già presente. Nel passato è successo più volte che in queste situazioni siano stati proprio i rappresentanti della socialdemocrazia, dell’opportunismo operaio e socialista ad essere investiti del compito di ammorbidire la politica borghese «guerrafondaia», al solo vero scopo di ingannare il proletariato, deviandone le spinte antimilitariste e antiguerrafondaie verso obiettivi altrettanto nazionali e patriottici dei borghesi «cattivi», orientando le energie e le forze proletarie verso la «difesa dall’aggressore», verso la difesa della democrazia dall’autoritarsimo, dal fascismo. E quando il proletariato è sufficientemente disorientato, entra in campo regolarmente il militarismo «buono», la guerra «giusta», il sacrificio «doveroso», la partecipazione alla guerra! E’ successo con il voto dei socialisti ai crediti di guerra il 4 agosto 1914 e la partecipazione alla prima guerra imperialistica mondiale, gettando il proletariato europeo nella più caotica confusione e imponendogli un colossale macello; è successo ancor più nel 1939-40, quando i partiti stalinisti fecero propaganda e organizzarono il proletariato a fianco di una parte della borghesia contro l’altra, giustificando così al proletariato mondiale un secondo olocausto. E i loro successori si preparano ad agire nello stesso modo in vista di una terza guerra mondiale.

Il modo di produzione capitalistico porta inevitabilmente, crisi economica dopo crisi economica, alla guerra. La storia passata lo dimostra senza possibilità di dubbio. Non c’è pacifismo e democrazia che tengano; il loro baluardo contro la guerra è sempre crollato miseramente. Ciò significa che tutto l’impianto ideologico del pacifismo e del democratismo non serve a fermare la guerra, semmai a giustificarla.

La guerra è un fenomeno sociale estremamente complesso, provocato dalla combinazione di una serie di fattori a loro volta complessi. Vi entrano i fattori economici, i rapporti di forza fra gli Stati, gli equilibri nella lotta di concorrenza mondiale, gli interessi contrastanti e insieme concilianti delle diverse frazioni borghesi e dei diversi gruppi monopolisti che dominano il mondo. Vi entrano fattori politici e di rapporti di forza fra le classi nei paesi imperialistici più importanti, e fattori di consenso e di unità sociale, e fattori di convenienza immediata o futura per le diverse borghesie coinvolte. La guerra è indubbiamente un fenomeno materiale in cui tutti gli elementi di crisi della società trovano il loro sbocco, estremizzandosi come sempre succede quando la violenza virtuale insita nei fenomeni sociali si trasforma in violenza cinetica. La stessa classe borghese dominante, che rappresenta gli interessi del capitale e del suo modo di produzione e riproduzione, è in realtà guidata da questi interessi: oltre un certo limite di contrasto essa non riesce più a governare la sua economia, e ne viene travolta. La guerra imperialista, che è la politica imperialista fatta con altri mezzi, diventa ad un certo punto della tensione internazionale uno sbocco obbligato, perché i capitalismi nazionali, soprattutto dei paesi imperialisti più potenti, non cedono facilmente alla concorrenza, resistono, si armano e si combattono sapendo che la guerra - nel bene e nel male - rappresenta comunque un gigantesco affare grazie alla mastodontica distruzione di merci e di uomini. Calza bene, anche in questo caso, il detto di De Coubertain, a proposito delle Olimpiadi e divenuto famoso: l’importante non è vincere, ma partecipare!

L’evitabilità della guerra non sta nelle possibilità della politica borghese; la borghesia può allontanarla nel tempo, può rimandare lo scontro diretto fra i grandi mostri statali con una serie di politiche atte ad attutire le conseguenze delle crisi di sovraproduzione che comunque si manifestano, ma non riuscirà mai a dare al mondo la pace. Quale forza, dunque, può deviare la corsa inesorabile dello sviluppo capitalistico verso la guerra? E come?
Il proletariato, la forza della classe proletaria mondiale, è l’unica forza sociale in grado di farla finita con la guerra imperialistica. Dire questo oggi, quando il proletariato fa fatica anche soltanto a difendersi sul piano immediato del salario e dell’orario di lavoro, può sembrare una proposizione inconsistente, un non senso. Ma la storia delle società umane e della lotta fra le classi non avanza progredendo lentamente, gradualmente, uno scalino per volta. La storia si svolge su archi di tempo anche molto lunghi, e soprattutto a sbalzi, a rotture verticali di cui, certamente, anche le guerre fanno parte.

Masse contadine dormienti per secoli, in Russia a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, e in Cina nei primi decenni del Novecento, improvvisamente si risvegliano alla vita politica, e al moto rivoluzionario. Non certo per virtù propria, ma in seguito a stravolgimenti mondiali che aprono questi paesi ai contrasti di classe moderni. Sta di fatto che nel giro di pochi anni, milioni di contadini russi, grazie all’azione rivoluzionaria degli strati borghesi più avanzati prima, e, soprattutto, all’azione rivoluzionaria del proletariato, poi, si trasformano da docili oblomov in mano all’aristocrazia zarista e al clero in armate della rivoluzione, prima borghese antizarista e poi proletaria e comunista.
Il risveglio del proletariato alla sua azione di classe, in particolare nei paesi capitalistici avanzati e più civili, intontito da decenni di democrazia, di pacifismo e di collaborazione interclassista, avverrà in un certo senso come avvenne per il contadiname russo. Stravolgimenti mondiali apriranno nuovamente ai contrasti di classe insanabili, non più conciliabili almeno per la maggioranza del proletariato, e allora, in una rottura sociale verticale, la classe proletaria riacquisterà capacità e volontà di lottare sul proprio terreno, quello dell’antagonismo di classe aperto e inconciliabile. E questo è l’unico terreno su cui si può radicare una effettiva opposizione alla guerra borghese, una efficace azione rivoluzionaria; è il terreno della rivoluzione antiborghese.

Una domanda che spesso è circolata negli ambienti della sinistra rivoluzionaria è: può la rivoluzione fermare lo scoppio della guerra mondiale, può la rivoluzione impedire lo scatenamento della guerra imperialistica con il suo corredo di orrori e di macelli?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo farcene un’altra: può formarsi, prima della situazione di guerra, nei paesi imperialistici più grandi, un forte e potente movimento proletario rivoluzionario? Soltanto un forte e potente movimento proletario rivoluzionario, guidato da un partito altrettanto forte e compatto, può avere qualche possibilità di fermare la guerra imperialistica prima che scoppi. Questa è una possibilità che in linea di principio non si può escludere, ma che risulta essere piuttosto improbabile. Le condizioni di formazione di un grande e forte movimento proletario di classe, a livello internazionale, non sono date dalla volontà di gruppi o partiti; sono date dalla dinamica dello sviluppo della lotta di classe.

Finchè non vi è ripresa di classe, finché non vi è un movimento proletario di lotta che si stacca dalla tutela dell’opportunismo e si riorganizza in modo indipendente sul terreno di classe, non vi potrà essere un forte movimento proletario rivoluzionario. Non è un caso che le classi dominanti siano in genere molto sensibili su questo punto, ed è perciò che utilizzano a più non posso meccanismi ed apparati democratici di ogni tipo e personale opportunista di ogni colore per imbrigliare le energie proletarie e convogliarle verso azioni e obiettivi del tutto inefficaci rispetto alle loro esigenze di vita e di lavoro. Ed è grazie all’azione martellante, sistematica, copiosa e monopolista della propaganda che la borghesia continua ad influenzare le grandi masse proletarie e ad abituarle alla guerra, ai suoi orrori, alle sue conseguenze.
Che cosa in realtà deve guidare la tattica del comunismo rivoluzionario di fronte alla guerra imperialista?

Rispondiamo con Lenin: il compito fondamentale dei comunisti rivoluzionari si esprime nella famosa parola d’ordine, sempre valida, di «trasformare la guerra imperialista in guerra civile».

Anche per l’applicazione di questa tattica ci vogliono un forte movimento proletario rivoluzionario e l’influenza decisiva su di esso del partito comunista rivoluzionario. Ma questa è l’unica prospettiva da dare al proletariato e sulla quale il partito di classe si deve fondare. «Ogni lotta di classe conseguente in tempo di guerra, ogni tattica di “azione di massa” seriamente applicata, conduce inevitabilmente a questo» (3), alla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, appunto. E il preveggente Lenin, come se rispondesse alla domanda: ma quando il movimento rivoluzionario potrà effettivamente fermare e sconfiggere la guerra imperialista?, aggiunge subito dopo: «E’ impossibile sapere se un forte movimento rivoluzionario scoppierà in seguito alla prima o alla seconda guerra imperialistica fra le grandi potenze, durante o dopo di essa, ma in ogni caso è nostro preciso dovere lavorare sistematicamente e con perseveranza proprio in questa direzione».

Il grande rivoluzionario non aveva cambiali politiche in scadenza, non si faceva condizionare dalla propria vita personale di militante; guardava lontano, confortato dalla dialettica marxista, e poteva affermare che il lavoro del partito proletario rivoluzionario non doveva cambiare direzione anche se il movimento rivoluzionario non fosse stato in grado già durante o in seguito alla prima guerra imperialista mondiale di capovolgere la situazione, di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, in rivoluzione proletaria.

Non ci sono ricette la cui applicazione garantisca l’evitabilità della guerra imperialistica; finché perdura la società borghese, la società capitalistica, l’unica via per farla finita con gli orrori e i macelli delle guerre borghesi è la via rivoluzionaria. Soltanto il proletariato rivoluzionario, alla scala mondiale, avrà la forza per combattere il capitalismo e i capitalisti e vincere la loro resistenza. Ma sarebbe sbagliato concepire la via rivoluzionaria, e quindi la lotta rivoluzionaria del proletariato internazionale, come un fenomeno simultaneamente mondiale. Come esistono paesi avanzati e arretrati, così esistono classi avanzate e arretrate; ed esistono differenze di sviluppo classista nei diversi proletariati del mondo.

Lo sviluppo ineguale del capitalismo ha trasformato le grandi masse contadine in proletari, in operai di fabbrica, non simultaneamente ma in periodi storici diversi. E questo fatto materiale condiziona lo stesso sviluppo della lotta di classe, paese per paese, determinando obiettivamente un parallelo fra classe borghese e classe proletaria dello stesso paese. In un certo senso, e senza prendere per assoluto quanto stiamo per scrivere: se il paese è capitalisticamente arretrato, tendenzialmente il proletariato è meno numeroso, più arretrato, inesperto, più legato alle tradizioni contadine o tribali; se il paese è capitalisticamente avanzato, tendenzialmente il suo proletariato è molto numeroso, più avanzato, esperto, con tradizioni proletarie che hanno seppellito le tradizioni contadine e piccoloborghesi.

Ma ogni paese è legato agli altri paesi nella circolazione delle merci e dei capitali, ogni paese anche arretrato economicamente è sempre meno isolato dagli altri: lo sviluppo del capitalismo sviluppa il mercato mondiale, e dal mercato mondiale non sfugge ormai più nessuno. Oggi, dunque, l’arretratezza economica di un paese come la Cina o il Brasile può non voler dire automaticamente arretratezza del proletariato, come nel fatidico decennio 1905-1915 non si poteva dire per il proletariato russo che, allora, viveva un’arretratezza molto più radicata e pesante della Cina o del Brasile di oggi. E’ la situazione generale, mondiale, dello sviluppo del capitalismo e dello sviluppo della lotta fra le classi che, in realtà, può determinare la possibilità da parte di proletariati, considerati come meno avanzati, di rappresentare addirittura la punta più avanzata del movimento proletario rivoluzionario a livello mondiale in un determinato periodo storico, come è avvenuto per il proletariato russo dalla rivoluzione d’Ottobre per un decennio. Dunque, l’analisi della situazione generale è quella che ci dirà quali sono le tendenze principali dei movimenti di classe, riguardino la classe borghese o la classe proletaria.

Oggi, possiamo rilevare che la tendenza alla concentrazione monopolistica da parte dei grandi trusts e dei grandi poli imperialistici non solo non si è fermata da quando Lenin la analizzava nel suo Imperialismo (1915), ma ha proseguito la sua marcia, passando attraverso non solo una prima ma anche una seconda guerra mondiale, e andando verso una terza guerra imperialistica fra le grandi potenze. Dunque, la scala dei contrasti interimperialistici non si è fermata, e continua a salire in un crescendo vorticoso che in sessant’anni ha fatto milioni e milioni di morti in una successione spaventosa di guerre locali. La prospettiva, in un certo senso sintetizzata da Bush, è la guerra preventiva, ossia lo stato di guerra permanente. La crisi di sovraproduzione, che può trovare uno sbocco nel mercato cinese appena apertosi ma certamente non risolutivo, è molto più profonda di quel che le statistiche ufficiali dicono.

In realtà le grandi potenze - salvo gli Stati Uniti e, in parte, la Gran Bretagna - non hanno ancora imboccato seriamente la strada dell’accelerazione degli armamenti e quindi non sono «pronte» a misurarsi sullo scenario mondiale in uno scontro bellico diretto. Ma questo non deve ingannare il proletariato, e tanto meno i comunisti rivoluzionari. Il peggioramento delle condizioni di lavoro, e quindi di vita, del proletariato dei paesi capitalistici avanzati non ha raggiunto ancora quei limiti insopportabili a causa dei quali il proletariato reagisce con rabbia e con violenza, in modo più o meno organizzato. Di risorse, a disposizione per la «pace sociale», e per un consenso ancora «ampio», la borghesia dei paesi imperialistici più forti ne ha ancora a disposizione, e le sta usando, anche se ciò non le impedisce di affondare continui attacchi alle condizioni di lavoro e di vita del proletariato rimangiandosi a poco a poco il complicato castello di «garanzie» e di «ammortizzatori sociali» che è stato costruito nel trentennio di espansione dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Il proletariato, da parte sua, soprattutto dei paesi imperialistici più forti e, in genere, occidentali, rivela la sua enorme debolezza attuale nel contrastare i continui peggioramenti delle sue condizioni di lavoro e di vita. Intossicato fino al midollo di collaborazionismo e di democratismo, imbambolato come un pugile suonato, si fa dirottare continuamente dalla sana reazione di classe. Il ricatto del posto di lavoro, il ricatto del salario, la paura di precipitare in condizioni di vita ancor peggiori fanno sì che la gran parte degli operai sperino ancora nelle istituzioni, nella bontà dei padroni, nella difesa da parte dei sindacalisti collaborazionisti, nella buona stella e, perché no, nella vincita alla lotteria!

Ma la vecchia talpa, nonostante quel che succede e si vede in superficie, lavora! Nel sottosuolo economico si sviluppano i fattori di crisi che, ad un certo punto, il potere borghese non sarà più in grado di addomesticare. Questo succederà anche se applica, generalizzandola, una attitudine già presente dalla fine della seconda guerra imperialistica in poi, e cioè un metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica costituito da «una forma di autolimitazione del capitalismo», metodo che conduce «a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore» (4). Quando questa forma di «autolimitazione» salterà, salteranno anche le misure sociali di tipo riformistico, e nella società capitalistica la situazione di crisi precipiterà in modo accelerato. Le punte massime e acute di sfruttamento padronale non troveranno più ostacoli, e il proletariato dei paesi più civili e avanzati, abituato ad un tenore di vita e ad un ambiente culturale mai conosciuto nei periodi storici precedenti, avrà davanti agli occhi la prospettiva di essere rigettato nella brutalità dello sfruttamento schiavistico, nell’ignoranza, in una vita da bestie da soma, nell’indigenza e nella miseria più nera. Il popolo degli abissi farà nuovamente, e minacciosamente, la sua comparsa sulla scena storica.

Il partito comunista rivoluzionario
 

Il movimento proletario, nella storia, ha già espresso apici rivoluzionari di grande importanza. Il primo, nel 1871, con la Comune di Parigi, quando il proletariato parigino si ritrovò isolato dal proletariato degli altri paesi d’Europa e subì la pressione e l’attacco di tutti i poteri allora esistenti, borghesi e feudali, alleati all’unico scopo di abbattere la prima repubblica rossa. La sconfitta della Comune comportò la fucilazione di più di trentamila comunardi, un’ecatombe che fece gridare a Marx la denuncia più amara contro la borghesia francese: cannibalismo controrivoluzionario! Le lezioni di quella durissima lotta rivoluzionaria fanno parte del patrimonio politico e teorico del marxismo quanto a Stato dittatoriale rivoluzionario e quanto a Partito di classe unico.

Il secondo, nel 1917, con l’Ottobre bolscevico, la vittoria della rivoluzione proletaria e socialista in Russia e la costituzione dell’Internazionale Comunista. In questa occasione, i fattori di crisi internazionale furono favorevoli alla rivoluzione in Russia, preparata di lunga mano dai bolscevichi e guidata con grande fermezza teorica e grande maestria politica. Le lezioni di questa rivoluzione si intrecciano con le lezioni della controrivoluzione, in questo caso particolarmente dura, vasta e duratura. Non bastò il partito unico del proletariato a Mosca, non bastò la spinta rivoluzionaria delle masse proletarie - e non solo, ma anche contadine nei paesi coloniali - per disarcionare le classi borghesi e possidenti dal potere nei paesi capitalistici avanzati, e per mantenere saldo il potere proletario. Il nemico di classe aveva in serbo un’arma ancora letale per il proletariato: l’opportunismo nazionaldemocratico, che si travestì da rivoluzionario sotto le spoglie dello stalinismo. Il potere proletario classista cadde, i morti furono più di un milione: il cannibalismo controrivoluzionario aveva colpito ancora, e in maniera più atroce. Le lezioni di questa tragedia furono tirate che da un pugno di militanti rivoluzionari che si aggrapparono alla tradizione teorica e politica della Sinistra comunista, alla quale noi ci colleghiamo. Nemmeno il grande Trotsky ebbe la lucidità teorica e la forza di tirare fino in fondo tutte le lezioni dalla controrivoluzione staliniana; il suo attaccamento ad un’idea sbagliata del socialismo in Russia (difesa dell’Urss), e soprattutto lo scivolone sul terreno della democrazia borghese (schierandosi per la democrazia contro il fascismo), gli impedirono di contribuire in modo decisivo alla restaurazione teorica del marxismo dopo lo scempio attuato dallo stalinismo e dalle sue successive varianti.

La curva della controrivoluzione borghese non è finita. Con la propaganda democratica antifascista, con la partecipazione del proletariato alla seconda guerra imperialistica (altro che disfattismo rivoluzionario contro entrambi i fronti di guerra, di leniniana memoria!) e alla ricostruzione post-bellica dell’economia nazionale, i partiti stalinisti si misero dichiaratamente al servizio delle borghesie democratiche, applicando in modo scientifico il collaborazionismo di classe. Il «disfattismo» che essi propagandarono e attuarono durante e dopo il fascismo era esclusivamente di segno democratico, quindi borghese. Ma quel che rimane nella loro tradizione, e nelle abitudini del proletariato, è il collaborazionismo, la pratica della conciliazione fra le classi per principio, la pratica del mettere sempre davanti le esigenze dell’azienda, dell’economia aziendale, della produttività, della competitività, dei costi di produzione, dell’economia nazionale: tutti obiettivi squisitamente capitalistici, e solo capitalistici.

Dal punto di vista politico, il collaborazionismo si esercita nel parlamento, nei consigli regionali, provinciali e comunali: la difesa della «democrazia» e della «costituzione» è divenuta il baluardo della politica degli opportunisti e della politica dei loro epigoni che, nel corso del tempo, hanno trovato conveniente sciogliersi, dividersi, cambiare nome, allearsi con altri partiti ai quali fare poi lo sgambetto, ecc. La «lotta di classe» non esiste più nemmeno nel loro vocabolario; figuriamoci «la lotta di classe portata fino in forndo, fino alla dittatura del proletariato», come ribadiva Lenin nella lotta contro il kautskismo.

E’ chiaro che da questi partiti, che da queste tradizioni, il proletariato non può aspettarsi nulla di diverso che politiche borghesi travestite da “socialiste” o “comuniste”: fregature assicurate!

Il bilancio che la Sinistra comunista ha tirato dal corso storico delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, con lo scopo di restaurare il marxismo come fece Lenin al tempo dei Bernstein, dei Vandervelde, dei Turati, dei Kautsky, è il lavoro che prioritariamente dovevano fare quei militanti comunisti che si trovavano sul solco del marxismo rivoluzionario e che avevano la volontà di organizzare le proprie forze in un partito.

Il partito di classe non nasce, certo, per volontà di teorici o di professori di marxismo; nè, tantomeno, nasce dal basso, dalle esigenze immediate di operai combattivi. Si forma intorno ad un programma, ad una teoria, ad una tradizione storica. Programma, teoria e tradizione storica che esistono già e che sono dati: il marxismo è la teoria, il programma politico è il risultato di lotte teoriche, politiche e pratiche del movimento rivoluzionario, ed è dato fondamentalmente - nel nostro caso - dal programma intorno al quale si organizzò il partito comunista d’Italia nel gennaio 1921 a Livorno; la tradizione storica è la tradizione delle lotte operaie e delle lotte del socialismo e del comunismo nell’arco di più di 150 anni, cioé a partire dalla pubblicazione del Manifesto del partito comunista nel 1848. La costituzione del proletariato in classe, quindi in partito, data dal 1848; e che la sua costituzione in classe debba diventare costituzione in classe dominante, quindi - dopo la Comune di Parigi - in dittatura proletaria, è un altro principio irrinunciabile del marxismo. Dittatura proletaria esercitata dal partito di classe: è dialettica, non formalismo costituzionale.

Ebbene, a quel partito, al partito che rappresenta nell’oggi l’avvenire del movimento proletario e rivoluzionario, al partito che sarà la guida della rivoluzione e della dittatura proletaria, a questo partito - unico, perché la classe del proletariato ha scopi storici unici e non frazionabili - noi stiamo lavorando nella consapevolezza che questo organo, indispensabile per la rivoluzione proletaria, per la sua vittoria e per l’emancipazione non solo della classe proletaria, ma del genere umano nel suo insieme dal giogo del capitale, avrà - come ha avuto anche in questo ultimo cinquantennio - alti e bassi, momenti di sviluppo e momenti di crisi, pur nella sua modestissima dimensione. I nostri legami con la classe, con la vita di classe del proletariato sono oggi quasi inesistenti, e non perché ci neghiamo alla lotta immediata del proletariato e ai suoi problemi di organizzazione, ma perché la vita di classe semplicemente non c’è e non la possiamo creare per semplice volontà «rivoluzionaria». Siamo perciò isolati dal proletariato per come il proletariato è oggi; isolati dalla sua grettezza, dal suo individualismo, dai suoi pregiudizi piccoloborghesi, dalla sua droga ideologica che va per la maggiore - la democrazia - dalle sue titubanze, dalle sue paure. Ma, in questo apparente isolamento, noi siamo molto più vicini al proletariato di quanto il proletariato non si avveda, e di quanto credono di esserlo i falsi comunisti ma veri nazionalcomunisti, i falsi rivoluzionari ma veri riformisti e conservatori, i falsi rappresentanti degli operai ma veri rappresentanti degli interessi borghesi.

Siamo a fianco della classe del proletariato, quindi al proletariato che si muove - si muoverà - come classe antagonista della borghesia e delle mezze classi piccoloborghesi, come classe che lotta per i propri interessi, anche immediati, con mezzi e metodi di classe, ossia con mezzi e metodi che non siano condivisibili dai padroni e dalle mezze classi. Siamo a fianco della classe del proletariato che aspira a liberarsi dalle catene dello sfruttamento capitalistico, che lotta contro ogni forma di oppressione borghese, contro ogni sopruso, contro ogni discriminazione. Siamo a fianco della classe proletaria che reagisce al peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita accomunando in questa lotta i proletari occupati e disoccupati, i proletari anziani, ipoteticamente «più garantiti», e i proletari giovani e sicuramente più esposti al ricatto del posto di lavoro e del salario. Siamo a fianco della classe del proletariato e dei suoi elementi più combattivi e sensibili in ogni tentativo di sottrarsi al dominio degli apparati del collaborazionismo sindacale e politico, in ogni tentativo di organizzarsi fuori dell’influenza e degli apparati del sindacalismo tricolore nella prospettiva di una indispensabile riorganizzazione classista sul terreno della difesa economica immediata.

Il partito non si nasconde che il periodo che stiamo attraversando è ancora estremamente sfavorevole alla ripresa della lotta di classe e, ancor più, alla ripresa della lotta rivoluzionaria. Ma non cede a ripensamenti, a teorizzazioni più addolcite, a programmi meno definiti e più aperti, ad esigenze e proposizioni di altri partiti, di altri raggruppamenti politici. Non cerchiamo il successo immediato, non cerchiamo di aumentare il numero dei militanti attraverso espedienti tattici o tecnici.

Con Lenin ribadiamo: «Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per avere costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione. Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “Andiamo nel pantano!”. E, se si comincia a confonderli, ribattono: “Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà di invitarvi a seguire una via migliore?”. Oh, sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati [un modo di dire: casa e famiglia, NdR]. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso» (5).

Noi non seguiamo il movimento proletario che tende spontaneamente ad adottare la linea del minimo sforzo e, a maggior ragione, combattiamo tutti i raggruppamenti politici che rappresentano e diffondono nel proletariato questa linea. Lenin afferma che il movimento operaio spontaneo è il tradunionismo, il puro economismo: è appunto la linea del minimo sforzo. Se il lavoro dei comunisti nelle file proletarie, per influenzare la parte decisiva del proletariato, seguisse la linea del minimo sforzo non farebbe che riportare i proletari nelle braccia dell’economismo, del sindacalismo tricolore, della collaborazione fra le classi che è parte fondamentale dell’ideologia e della politica borghesi.

E, a proposito di collaborazione fra le classi, dobbiamo tener presente un altro aspetto della politica sociale borghese, per nulla secondario. Riprendiamo il concetto esposto sopra sull’autolimitazione del capitalismo nell’estorisione del plusvalore dal lavoro salariato. Nella fase imperialistica successiva alla fine della seconda guerra mondiale, la politica sociale delle borghesie democratiche eredita dal fascismo il sistema di ammortizzatori sociali che il fascismo aveva adottato per controllare la situazione sociale e affrontare da una posizione più favorevole alla borghesia i conflitti fra le classi. La democrazia post-fascista adotta queste politiche «al fine di ritardare il più possibile le crisi di urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione» (6). Ma sarebbe impossibile per le classi dominanti borghesi ottenere risultati duraturi «senza riuscire a conciliare, in una certa misura, l’aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie [a questo ci ha pensato non solo il fascismo ma anche lo stalinismo], e un tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse». Questo connubio tra riformismo sociale e aperta difesa armata del potere, che nell’esempio del fascismo trova appunto una efficace integrazione, è in realtà il vero patrimonio di esperienza di governo che la borghesia fascista, e nazista, lascia alle borghesie democratiche. Il totalitarismo borghese, che in regime fascista è dichiarato e aperto, in regime democratico è mistificato, mascherato, nascosto, mimetizzato; basta l’avanzare di crisi economiche più acute di altre, ed ecco che i veli iniziano a cadere. La dittatura del capitale finanziario, dei grandi monopoli si esprime attraverso il dominio dei grandi Stati imperialisti sul mondo. Il totalitarismo borghese, sull’onda di crisi e di contrasti sempre più acuti a livello mondiale, spinge le borghesie democratiche ad assumere sempre più le sembianze vere della dittatura di classe borghese. La «guerra preventiva» di Bush e Blair è un esempio lampante, è la dichiarata e aperta difesa armata del potere statale di due grandi potenze imperialistiche che dettano il gioco: oggi, soprattutto nei confronti delle potenze concorrenti, a livello di contrasti interborghese, ma domani anche nei confronti del proletariato, nella misura in cui non soggiacerà alle esigenze e agli interessi capitalistici della propria borghesia dominante.

Collaborazione di classe significa morte delle energie rivoluzionarie, morte del movimento proletario indipendente, morte della prospettiva di emancipazione del proletariato dal giogo del lavoro salariato. Il partito proletario che cede alla collaborazione di classe non è partito di classe, non è il partito comunista rivoluzionario di cui il proletariato ha bisogno per risorgere dal pantano della conciliazione interclassista e dell’asservimento al capitale, e imboccare la sua strada della lotta di classe e rivoluzionaria.

 




(1) Cfr. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, in Opere, XXVIII, Editori Riuniti, pp. 234-235.
(2) Ibidem, p. 243.
(3) Cfr. Lenin, Il socialismo e la guerra,1915, in Opere, XXI, Editori Riuniti, p.286, anche il brano successivo.
(4) Cfr. il testo di partito del 1946, Forza violenza dittatura nella lotta di classe, raccolto in Partito e classe, p.97; anche per i brani successivi.
(5) Cfr. Lenin, Che fare?, Ed. Riuniti, Le idee, 1974, p.39.
(6) Cfr. il testo di partito Forza violenza dittatura nella lotta di classe, cit., p.97, come i brani successivi.

 

Partito comunista internazionale

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