La guerra futura come crociata antitotalitaria

(«il comunista»; N° 101; Settembre 2006)

 

 

Il capitalismo, in epoca imperialista, ossia nel periodo in cui nel mercato mondiale dominano i trust, i monopoli, il grande capitale finanziario, e gli Stati nazionali al loro servizio, è obbligato a militarizzare sempre più la società. E’ una legge, non una «scelta»: la concorrenza mondiale diventa sempre più spietata, la lotta alla tendenziale caduta del saggio medio di profitto – legge del capitalismo scoperta dal marxismo – diventa sempre più acuta. Quindi, la forza economica in sé di ogni singolo capitalismo, come lo sviluppo suppostamente normale del capitalismo, non bastano più: ogni capitalisno nazionale, per imporsi sul mercato rispetto ai concorrenti, ha bisogno di un rafforzamento militare che produce un vero e proprio militarismo, dal quale non è più possibile tornare indietro. La caduta tendenziale del saggio medio di profitto, data l’ormai famosa globalizzazione, non riguarda più il singolo capitalismo nazionale, ma i diversi capitalismi nazionali sviluppati la cui lotta contro questa caduta tendenziale non si può più limitare nei confini dei singoli Stati ma riguarda sempre più il consorzio globale di tutti i paesi dominanti sul mercato mondiale, che non smettono però di farsi concorrenza su tutti i piani, a cominciare da quella commerciale per elevarsi a quella finanziaria e militare.

Aumenta, di converso, la difficoltà di sviluppo dei vari consorzi capitalistici, perché va ad aumentare la corsa di ognuno all’accaparramento di risorse e di profitti nel mercato mondiale; l’aumentata concorrenza fra gli Stati capitalistici già predominanti, sia per l’emergere nel mercato mondiale di nuovi centri di accumulazione e valorizzazione di capitale (leggi: Cina, India, Brasile, ecc.), sia per la inevitabile e tendenziale riduzione delle possibilità di far profitto mantenendo la sola «produzione di pace», porta ogni Stato capitalista a rafforzare la propria forza militare per intervenire con essa là dove, e quando, gli interessi del proprio capitalismo nazionale vengono contrastati pesantemente dalla concorrenza. Più aumentano le merci prodotte e portate al mercato, più diminuisce la capacità del mercato di assorbirne l’intera quantità, poiché al prezzo «di mercato» non è più possibile ottenere il profitto che giustifichi quella produzione e quella distribuzione: questo è il paradosso tipico del capitalismo sviluppato, più produce meno vende, meno vende meno guadagna, meno guadagna più diventa aggressivo e si militarizza. Il mercato è l’unico grande centro di attrazione delle merci ma, nello stesso tempo, è condotto a respingerne una parte che, col tempo, diventa sempre più grande fino ad intasarlo e a non consentire più alla maggioranza dei protagonisti (le aziende e i trust) di ottenere i profitti – e soprattutto quel saggio medio di profitto – che giustificano la loro esistenza. La distruzione di una parte sempre più grande di merci – di qualsiasi merce si tratti, beni di consumo, beni strumentali, capitali, o lavoratori salariati – diventa quindi necessaria per la sopravvivenza stessa del sistema capitalistico, per rigenerarlo dopo ogni crisi profonda di sovraproduzione; ma anche il tempo ha importanza determinante per il capitale, perciò quella distruzione, per essergli benefica, deve essere di grandisime proporzioni e attuata in tempo ridottissimo: la guerra, alla fin fine, si rivela il mezzo più appropriato.

 

Dall’ «equilibrio del terrore» al terrore dell’ «equilibrio»

 

Lo sviluppo capitalistico, e ancor più lo sviluppo imperialistico del capitalismo, chiede inesorabilmente la guerra: perché significa molto semplicemente distruzione in massa e in tempi ridotti di prodotti di ogni genere, di installazioni, di costruzioni, di mezzi di produzione. A grandi distruzioni seguono grandi ricostruzioni, ed è qui che si innesta il business. Nello stesso tempo, significa anche decimazione di forza lavoro, ecatombe di uomini che il «mercato del lavoro», nelle metropoli imperialistiche come nelle superaffollate metropoli dei paesi della periferia del capitalismo sviluppato, non ha la possibilità di impiegare utilmente nella permanente fabbrica del profitto capitalistico.

Andiamo ripetendo da decenni, e non smettiamo di farlo, che dalla fine della seconda guerra mondiale invece di un futuro di pace, di fratellanza fra i popoli, di sviluppo economico di tutti i paesi del mondo, il capitalismo ha offerto all’umana specie un periodo senza soluzione di continuità di terremoti sociali, di guerre, di economie asfittiche, di lotte sempre più accanite fra le borghesie di tutti i paesi del mondo per emergere o per sopraffare, per resistere all’attacco degli avversari o per attaccare in qualità di alleati altri avversari. La posta in gioco non era solo quella di ottenere dal «bagno di giovinezza», che la guerra mondiale ha rappresentato in generale per il capitale, il massimo di vantaggio economico possibile, a seconda della forza economica con cui i vari paesi uscivano dalla guerra, ma anche e soprattutto quello di una diversa ripartizione delle zone di influenza nel mondo da parte dei «vincitori», Stati Uniti in primis.

L’ «equilibrio del terrore», caratterizzato dalla formazione di due grandi gruppi imperialistici contrapposti – il campo «occidentale» con a capo gli Usa da un lato, e il campo «orientale» con a capo l’Urss dall’altro – permise un lungo perodo di «pace» (quindi di ricostruzione postbellica, di scambi commerciali, di traffici finanziari di ogni tipo e ad ogni livello) fra i grandi Stati borghesi, ma non impedì la serie interminabile di moti anticoloniali rivoluzionari in Africa, come nei casi di Algeria, Etiopia, Congo, Angola e molti altri; nel Vicino Medio ed Estremo Oriente, dall’Egitto alla Cina, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Vietnam alla Cambogia, e in America Latina come fu il caso del Guatemala, di Cuba, del Nicaragua. E non impedì qualche scossone di segno proletario come la sollevazione di Berlino del 1953 soffocata però nel sangue con l’accordo di entrambi i «campi» avversari, o come quella di Budapest del 1956 nella quale il segno proletario si confuse molto di più che a Berlino con il segno borghese e piccoloborghese della richiesta di democrazia. Nello stesso periodo, l’economia nordamericana, uscita dalla guerra ancor più forte di quanto non fosse alla sua entrata, fece da locomotiva per il capitalismo mondiale, e, approfittando della sua posizione di forza, colonizzò finanziariamente i maggiori paesi capitalistici europei, «ricostruì» le condizioni economiche di sviluppo dei vinti Germania e Giappone – occupandoli anche militarmente – ed estese la propria influenza politica, creando netta dipendenza, su tutti i paesi che si riconosceranno partecipi dell’Occidente, Italia in prima fila.

Quell’equilibrio del terrore, dominato propagandisticamente dal pericolo di una guerra atomica tra Usa e Urss, ma soprattutto dalla più micidiale falsificazione storica del marxismo ad opera dello stalinismo che etichettò lo sviluppo capitalistico in Russia – e nei paesi saltelliti – come «socialismo» realizzato, pronto per il balzo all’integrale «comunismo» – doveva necessariamente terminare poiché se c’è una cosa che il capitalismo non sopporta è la situazione di equilibrio: la concorrenza capitalistica porta sì, ad un certo punto del suo sviluppo, ad una situazione di «equilibrio», ma la sua dinamica è tale per cui questa situazione è destinata a trasformarsi presto o tardi in disequilibrio, tali e tante sono le diseguaglianze prodotte dal capitalismo stesso. Ed infatti, con l’avvento della più profonda crisi economica che il capitalismo abbia conosciuto a livello mondiale dopo la fine della seconda guerra, quella del 1975, l’equilibrio del terrore ha iniziato a cedere. Angola e Mozambico furono le ultime due ex colonie a togliersi di dosso il fardello del colonialismo, in questo caso portoghese, mentre molti altri popoli ancora in lotta per la propria emancipazione dall’oppresione nazionale, e fra di loro il popolo palestinese, non riusciranno nella storica impresa.

La nuova forma di colonialismo che l’imperialismo moderno ha messo in atto, pur prevedendo la cosiddetta «soluzione politica» con la concessione della formazione di uno Stato nazionale e di confini definiti (dalle potenze imperialistiche, ovviamente) – ossia la dipendenza diretta di quel paese dal sostegno finanziario, di questo o quel paese imperialista, al posto dell’occupazione miltare del paese – soffoca molto di più non solo ogni velleità indipendentista, ma anche solo di sopravvivenza economica dei paesi interessati. Soltanto alcuni paesi, molto estesi, con forte popolazione e con grandi risorse naturali a disposizione potevano avere la possibilità reale – a condizione che i rapporti internazionali dessero loro il tempo di svilupparsi come economie nazionali senza trascinarli in una guerra che sarebbe stata devastante per la loro economia – di accedere ad uno sviluppo che fornisse nello stesso tempo uno sbocco di mercato per le alre economie già forti. Parliamo della Cina, dell’India, del Brasile.

Il proletariato, da parte sua, completamente piegato dall’opportunismo di stampo stalinista alle esigenze dei capitalismi nazionali che della «ricostruzione postbellica» fecero una loro bandiera, uscì dalla guerra o completamente prostrato e annichilito – come, ad esempio, in Germania e in Giappone – o completamente prigioniero dell’illusione che la democrazia costituisse l’unica via per battere l’oppressione della dittatura fascista e, contemporaneamente, per ottenere un effettivo progresso sociale. In realtà, l’oppressione fascista è stata immediatamente sostituita dall’oppressione democratica, non nella forma ma nella sostanza dei rapporti sociali. Con l’aggravio dovuto al fatto che con la democrazia i proletari furono indotti a credere che la loro libertà consistesse nel poter finalmente andare a votare nuovamente deputati e senatori, mantenendo fermo il modo di produzione capitalistico e il dominio di classe della borghesia. La «lotta partigiana nella Resistenza», fatta passare come nuovo modo di fare la «rivoluzione» di fronte ad un nemico prima «sconosciuto» – il fascismo – fu elevata dall’opportunismo socialdemocratico e staliniano al livello dello spartiacque fra proletariato e borghesia, dove la borghesia poteva essere divisa in due tronconi, quella «fascista», quindi cattiva, da combattere, e quella «antifascista», quindi buona, con la quale allearsi.

Che il fascismo non fosse nemico sconosciuto, la Sinistra comunista, che nei primissimi anni Venti del secolo scorso guidò il partito comunista d’Italia, lo dichiarò con grande nettezza, denunciandolo invece – a differenza di Gramsci, che lo equiparava ad un «passo indietro della storia» – come l’espressione dello sviluppo stesso dell’imperialismo capitalista, sul filo marxista di Lenin, che alla massima concentrazione e centralizzazione economica e finanziaria tende abbinare la massima centralizzazione politica. La borghesia fascista era quindi molto più coerente storicamente con lo sviluppo del suo dominio di classe che non la borghesia antifascista. Ci penserà però la guerra, il suo andamento e soprattutto la sua fine, a chiarire – per i marxisti, ovviamente, non per i rinnegati resi da tempo ciechi e sordi non solo di fronte alla storia ma anche di fronte alle esigenze elementari del proletariato – che la democrazia postfascista non farà che ereditare il sistema sociale ed economico del fascismo (lo Stato imprenditore oltre che assistenziale); essa rimetterrà in piedi logicamente gli apparati burocratici del parlamento, dello Stato e delle miriade di istituzioni elettive che racchiudono in una fitta rete l’intera attività politica e sociale, che serviranno, e servono tuttora, ad ingannare le masse proletarie e popolari sulla loro effettiva funzione di reale imbottimento dei crani intossicandoli al pari di una droga pesante.

Per i grandi paesi imperialisti, che hanno il problema soprattutto di regolare la concorrenza fra di loro in modo che gli interessi degli uni non vadano ad intaccare gli interessi degli altri oltre un certo limite, la fine del trentennio di «equilibrio del terrore» non ha significato la fine del «terrore», ma la fine dell’ «equilibrio».

Si è aperto infatti, dalla famosa crisi del 1975, simultanea in tutti i grandi paesi capitalistici, un lungo periodo che noi abbiamo chiamato di «anteguerra» non perché valutassimo lo scoppio di una guerra mondiale vicino nel tempo, ma perché gli elementi di equilibrio fra i due «campi» avversari, una volta caduti, a causa appunto di quella crisi, avrebbero fatto inevitabilmente posto ad elementi di sempre più acuto disequilibrio, di disordine mondiale che potrà trovare uno sbocco decisivo solo attraverso una terza guerra mondiale, come è nella storia del capitalismo stesso. A meno che la rivoluzione proletaria non ne fermi l’avvio, e questo è l’augurio che ogni comunista degno di questo nome si fa nel lavorare affinchè il movimento di classe proletario possa incontrare il partito comunista rivoluzionario già formato, saldo in teoria e omogeneo e disciplinato nella sua attività pratica, capace di guidarlo nella sua rivoluzione fino allosbocco finale, al comunismo.

Non avevamo la possibilità di prevedere la durata di questa fase di «anteguerra», né ci interessava indovinare l’anno «x» dello scoppio della terza guerra mondiale, come non ci interessa ora. Ciò che era, ed è sempre importante per i comunisti marxisti, è trovare conferme dalla storia del capitalismo e del suo sviluppo alla teoria marxista; trovare quindi motivo per continuare il lavoro di formazione dell’organo rivoluzionario per eccellenza, il partito di classe, anche se il periodo di controrivoluzione borghese si prolunghi per decenni, come purtroppo sta avenendo. E di conferme ne abbiamo quante ne vogliamo. Fatto salvo che i comunisti marxisti tendono in genere a vedere la rivoluzione – quindi, la crisi catastrofica del capitalismo, compresa la guerra mondiale – prima di quanto effettivamente si realizzi (così per Marx, per Engels, per Lenin, per Trotsky e per Bordiga), nella nostra ripresa del lavoro di riconquista del patrimonio teorico e politico del partito, e di ricostituzione del nucleo del partito di classe mondiale, dopo la sua crisi esplosiva del 1982, abbiamo azzardato una data, o meglio un ciclo di anni, in cui si sarebbero potute verificare le condizioni internazionali per lo scoppio della terza guerra mondiale: 2015-2020, ossia tra 10-15 anni (1). Il che per noi aveva, ed ha, il significato di insistere nel lavoro di ricostituzione del partito di classe rivoluzionario certi del fatto che senza partito la classe proletaria potrà anche sollevarsi con le armi in pugno contro la borghesia, ossia fare la rivoluzione, ma non potrà mai dirigere la propria rivoluzione allo sbocco storico decisivo, cioè l’abbattimento del potere borghese e l’instaurazione della dittatura proletaria sotto la guida dell’unico organo politico – il partito di classe, appunto – che esprime la conoscenza, e quindi la coscienza, degli obiettivi finali della lotta rivoluzionaria del proletariato: il comunismo, la società di specie, la fine del mercato, del capitale e del lavoro salariato, dunque del profitto capitalistico, dell’estorsione del plusvalore, e con questo la fine di ogni concorrenza capitalistica che porta le diseguaglianze, le oppressioni, la miseria, le guerre.

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Con la guerra in Libano si riconferma il processo di disordine mondiale

 

La recentissima guerra che Israele ha portato contro il Libano, è parte integrante di questo processo di disordine mondiale in cui le grandi potenze imperialiste, spinte a ripartirsi il mondo in modo diverso da quello ereditato dalla fine della seconda guerra mondiale, non riescono però a controllare le diverse zone di tempesta che la concorrenza mondiale fra di loro produce.

Il Vicino e Medio Oriente è sempre stata una zona di grandi conflitti capitalistici, prima di tutto economici. Per la presenza di giacimenti petroliferi giganteschi? Certo, soprattutto per questo motivo. Chi mette le mani su questa risorsa economica, e soprattutto chi controlla il flusso di questa risorsa – e quindi anche la sua quotazione sul mercato mondiale – ha in mano una delle carte vincenti non solo della tenuta economica e del suo sviluppo in questo periodo a anche della prossima guerra mondiale. Non si tratta infatti solo di avere a disposizione oggi la quantità di petrolio necessaria per l’energia atta a far girare le macchine produttive, e non si tratta nemmeno di avere a disposizione scorte sufficienti per affrontare eventuali crisi energetiche tipo quella del 1973. Tutto questo ha certamente importanza per ogni grande paese imperialista (figuriamoci poi per i piccoli paesi che non sono in grado nemmeno di pensare a possibili scorte), ma ciò cui mira ognuno di loro è averne per sé a sufficienza e impedire ai possibili avversari di domani di poterne disporre in egual misura. E’ la legge della concorrenza, che non si sospende mai.

Si dirà: ma il Libano non è un produttore di petrolio. Giusto. Ma il grande obiettivo di Israele – e dietro Israele ci sono sempre gli Stati Uniti – è quello di diventare una effettiva potenza regionale; non a caso si è dotato dell’esercito più moderno e organizzato di tutta la regione, cosa che un tempo aveva l’Iran dello Scià Reza Palevi. Per diventare una subpotenza imperialista, però, esso ha bisogno 1) di eliminare una serie di avversari ancora molto attivi e ingombranti, come appunto le organizzazioni della guerriglia palestinese o libanese che agiscono poco oltre i suoi confini o all’interno dei suoi confini e che lo impegnano in un’opera di repressione continua, 2) di dare ai propri confini statali una solidità e una durevolezza che finora non hanno mai avuto, sia a causa della sua stessa fame di terra che lo ha portato ad invadere pezzi di territorio altrui, sia per la debolezza degli Stati vicini – come un tempo l’Egitto e da sempre il Libano – della quale le organizzazioni della guerriglia di cui sopra ovviamente hanno sempre approfittato, 3) di essere riconosciuto internazionalmente come uno Stato in grado di controllare tutto ciò che succede nella regione e di intervenire, anche militarmente, ogni volta che da qualche parte sorgano pericoli di ribellione o di guerra. Obiettivo ambizioso questo, ma in qualche modo Israele vi è spinto dalla sua stessa breve storia di Stato imposto dall’esterno, per mano degli angloamericani, subito dopo la fine del secondo macello imperialistico mondiale, non solo come «compenso» per le persecuzioni e i massacri cui gli ebrei sono stati sottoposti soprattutto sotto il nazismo e di fronte ai quali gli angloamericani non hanno mai mosso un dito in loro difesa, ma anche come possibile pedina «occidentale» da inserire in una zona che avrebbe sicuramente dato problemi per diversi motivi: per i conflitti tra le varie popolazioni o tribù presenti; per la lotta di concorrenza che la fine della guerra non aveva fatto cessare ma solo cambiare nei diversi protagonisti; per sostitirsi all’influenza tedesca precedente; per assicurarsi che i nuovi Stati, o le famiglie, i clan , gli sceicchi, più o meno legati a tradizioni confessionali e precapitalistiche, non sconvolgessero i nuovi equilibri che si stavano costruendo fra i paesi imperialisti in merito allo sfruttamento delle risorse petrolifere.

Israele, dunque, non poteva erigersi in quell’area che come Stato-gendarme, come Stato-poliziotto per conto delle potenze imperialistiche occidentali che lo sostenevano; ma, nello stesso tempo, sviluppata l’economia nazionale che lo ha fatto diventare uno dei paesi più progrediti – capitalisticamente, s’intende - del Medio Oriente, come ogni borghesia nazionale anche la borghesia israeliana avanza interessi suoi specifici che non sempre collimano con i suoi protettori, e in particolare col suo massimo finanziatore, gli Usa. Ecco perché Israele non ha sempre bisogno di chiedere il permesso a Washington per le sue incursioni o rappresaglie militari; queste fanno parte di quell’ «indipendenza politica» che uno Stato borghese si guadagna rispetto a Stati borghesi più forti per i quali i suoi servigi sono ritenuti indispensabili. Anche questa è una forma di compenso, di cui finora ne hanno fatto le spese soprattutto i palestinesi, e i proletari palestinesi innanzi tutto.

Se negli anni fino al 1975 i palestinesi non sono riusciti a ritagliarsi un territorio proprio sul quale erigere un proprio Stato – illudendosi di poter portare a buon fine una guerra partigiana per la distruzione di Israele, come si recitava nella carta di fondazione dell’OLP – tanto meno potevano riuscire nel periodo successivo, quando si è aperto il periodo non delle «sistemazioni» territoriali, ma del disordine territoriale più acuto (come lo stesso Medio Oriente dimostra, insieme al Caucaso, all’Africa nera, all’Estremo Oriente). Ma le mire espansionistiche in Medio Oriente non riguardano soltanto Israele; sono espresse sempre più chiaramente dall’Iran, in precedenza dall’Iraq di Saddam e dalla Siria, tutte ovviamente proporzionate alle singole forze economiche e politiche. Tenendo presente che le stesse formazioni militari palestinesi, riunite o meno nell’OLP, sono sempre state usate ora dall’uno ora dall’altro degli Stati che dicevano di sostenerne la causa nazionale – Arabia Saudita, Siria, Egitto, Giordania, Iraq, e più recentemente Iran – per finalità proprie che nulla avevano da dividere con la «causa nazionale» palestinese; non per niente, tutti gli Stati arabi, nessuno escluso, oltre ad Israele, hanno provveduto di volta in volta a massacrarli (dal settembre nero giordano a Tall el Zatar siriano) quando la loro presenza diventava pericolosa per l’influenza che avrebbe potuto avere sulle fasce più disagiate delle popolazioni locali. Cosa che è avvenuta, in effetti, ad esempio con la battaglia di Beirut del 1982.

La politica militarista di Israele, giustificata costantemente dalla propaganda occidentale per il pericolo che correrebbe lo Stato di Israele di essere distrutto ora da questo ora da quello Stato arabo, rispecchia sia nella propaganda che nell’agire la politica imperialista americana: elevata a modello di democrazia per tutto il mondo arabo-islamico, Israele è appoggiato, sostenuto e difeso da Washington come fosse un lembo degli Stati Uniti d’America. Ma le difficoltà che Israele incontra nelle sue relazioni con gli Stati arabi e islamici da cui è circondato non rimangono confinate nella sua area d’intervento, bensì si ripercuotono con sempre più velocità sulle metropoli imperialiste più importanti, a partire ovviamente da Washington, per continuare a Londra e Parigi dove la forza finanziaria di gruppi ebrei legati strettamente con Tel Aviv ha notevole peso. Queste difficoltà e queste ripercussioni, le cui cause immediate spesso dipendono da una «questione palestinese» non risolta, insistono naturalmente su tutta l’area mediorientale che periodicamente si incendia a Beirut, a Bagdad, o a Gerusalemme, al Cairo, a Kuwait City o a Teheran. Un nuovo ordine non si è stabilito in Medio Oriente né con la guerra dei sei giorni, quando l’esercito di Israele sbaragliò l’armata egiziana, né è nato dopo i molteplici accordi di pace fra OLP e Israele, né quando, istigato dagli angloamericani, l’Iraq di Saddam attaccò l’Iran di Komeini; un nuovo ordine non è uscito nemmeno dopo la prima guerra contro l’Iraq quando Saddam tentò il colpo di mano in Kuwait, trasformandosi da fidato alleato in regime terrorista, e non se ne vedono i contorni nemmeno ora con la seconda guerra contro l’Iraq.

L’occupazione militare dell’Iraq da parte degli americani, degli inglesi e dei più disparati alleati, ha prodotto un disordine ancor più violento di quello trovato all’inzio della guerra contro lo «Stato canaglia», come è piaciuto a Washington di chiamarlo. Ciò che Bush e i suoi suggeritori politici non immaginavano era che l’operazione di guerra contro l’esercito di Saddam, una volta terminata – e terminò effettivamente nell’arco di due mesi –, avrebbe dato l’avvio ad un periodo di guerra che i geni della strategia militare hanno classificato come asimmetrica: in realtà, si tratta di guerra partigiana in cui le più diverse faide, che rappresentano ognuna interessi diversi e spesso contrastanti, ma che hanno un nemico immediato comune: l’occupante angloamericano, imbrigliano l’esercito più potente del mondo. Da questo groviglio politico-militare Bush non sa come uscirne, ed è costretto a chiedere ai suoi attuali alleati europei assistenza diplomatica e politica, dopo averne preteso il coinvolgimento militare. Il disordine mondiale, se focalizzato sull’Iraq fa emergere un possibile sbocco imperialista: la divisione dell’Iraq in tre territori differenti, il nord affidato ai curdi, il centro ai sunniti e il sud agli sciiti; insomma una specie di balcanizzazione dell’Iraq, con la similitudine non solo di spezzettamento territoriale, ma anche di non-soluzione definitiva e stabile come il Kossovo, il Montenegro, la Slavonia e la stessa Bosnia stanno a dimostrare. Equilibri temporanei, raggiunti al termine di un periodo di orrendi macelli (in Iraq ormai si contano in media 100 morti al giorno), destinati prima o poi a saltare rimettendo in discussione tutti gli «accordi» e i «patti» precedentemente sottoscritti fra le parti. Non a caso gli angloamericani stanno perdendo gli alleati, soprattuto europei, militarmente impegnati in Iraq, tanto più da quando sembra evidente che il business della ricostruzione si sia in buona parte volatilizzato e il controllo del petrolio iracheno resti saldamente nelle mani angloamericane.

Le minacce americane alla Siria e all’Iran, vecchi «Stati canaglia», accusati di finanziare e dirigere organizzazioni guerrigliere (definite naturalmente «terroristiche») come Hezbollah e Hamas, funzionano più come paravento rispetto al fallimento della spedizione militare in Iraq che come anticipo di un imminente attacco militare contro di loro. Anche nei confronti dell’Iraq gli Stati Uniti usarono lo strumento delle minacce guerresche che si attuarono in una prima fase attraverso un embargo durato 13 anni che mise l’Iraq economicamente in ginocchio, per poi passare alla fase due, ossia all’attacco militare vero e proprio, quando maturarono le condizioni di coinvolgimento dei più importanti paesi europei nell’avventura. Al di là della falsificazione delle «prove» del possesso di «armi di distruzione di massa» da parte del regime di Saddam, l’Amministrazione americana doveva ad un certo punto dare sfogo al bisogno di guerra del proprio imperialismo, per motivi economici e per motivi politici, attraverso il quale dimostrare ai suoi concorrenti europei (Germania, Francia e Russia, soprattutto) che non potevano mettere le mani sui giacimenti di petrolio dell’Iraq per proprio conto (sebbene con accordi bilaterali con Saddam) – e quindi contro gli interessi americani – senza che Washington, supportato come sempre dalla Gran Bretagna, reagisse con forza, nel caso con azioni di guerra.

Le minacce americane, quindi, non sono dirette esclusivamente contro i «terroristi», gli Stati che sfuggono al controllo di Washington, o al controllo dei suoi alleati più fidati, ma hanno anche l’obiettivo di mettere sull’avviso le altre potenze imperialiste concorrenti: attenti, non sfidateci, noi siamo già in guerra, siamo già abituati alla guerra in ogni territorio, in ogni condizione, a qualsiasi parallelo. Inoltre, nel periodo in cui un’altra grande potenza economica, la Cina, si affaccia sul mercato mondiale con l’aggressività tipica dei capitalismi giovani e con la fame inesauribile di materie prime di ogni tipo – e di petrolio, naturalmente, fra le più importanti – l’imperialismo più forte del mondo non si può permettere di lasciare zone strategicamente rilevanti (e il Medio Oriente lo è) debolmente controllate. Il bisogno di guerra attuale è direttamente collegato al bisogno di guerra futuro, perché è inevitabile che gli interessi degli Stati imperialisti più importanti al mondo, che già si scontrano sul piano commerciale e finanziario, raggiungeranno ad un certo punto un livello di scontro che porterà inevitabilmente allo sbocco di guerra al massimo livello mondiale.

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Persistenza della mistificazione democratica

 

D’altra parte, ogni Stato borghese, e in particolare ogni Stato imperialista, non può dimenticare che per condurre le sue guerre con successo ha bisogno di un largo consenso sociale, ha la necessità di riunire le diverse classi e le diverse frazoni di ogni classe intorno all’unico obiettivo, centrale, una volta indicato il nemico, di fronte alla guerra: fare la guerra e vincerla! La macchina della propaganda borghese lavora sempre, potenzialmente, per l’unione sacra necessaria allo sforzo di guerra, anche e soprattutto nei brevi o lunghi periodi di pace. La propaganda, e la pratica, della democrazia non servono infatti solo alla gestione sociale e politica del proletariato abbattendone le potenzialità di lotta classista; servono a facilitare l’irreggimentazione delle masse proletarie sotto le bandiere della patria, dell’unione sacra, dell’estremo sacrificio in difesa del proprio paese. Il collaborazionismo interclassista in tempo di pace serve come base per rafforzare il collaborazionismo in tempo di guerra. In questo senso l’opera delle varie forme di opportunismo, da quelle tipiche della socialdemocrazia a quelle del nazionalcomunismo, a quelle dell’antitotalitarismo democratico, acquista valore strategico per il mantenimento e la difesa della conservazione borghese: il proletariato, deviato per decenni dal suo terreno di classe per abbracciare la causa della borghese economia aziendale e nazionale e della democrazia come bene comune di tutte le classi sociali, e mantenuto in questo stato di estrema dipendenza dalle esigenze della società borghese capitalistica, non avrà la forza di contrastare efficacemente la spinta inesorabile della borghesia alla guerra, immolando per l’ennesima volta se stesso alla causa della spartizione imperialista del mondo.

Ecco perché i comunisti rivoluzionari sottolineano il fatto che il proletariato deve riconquistare il terreno della lotta di classe fin dalle sue esigenze elementari ed immediate di vita e di lavoro, per riuscire ad abituarsi a lottare per se stesso, per la propria classe, per le proprie esigenze di classe, attuando in questo modo una forma di disfattismo proletario nei confronti della propria borghesia che potrà, esso solo, trasformarsi in disfattismo rivoluzionario di fronte alla guerra borghese. Solo così il proletariato potrà spezzare il corso borghese di sviluppo della crisi economica capitalistica in crisi di guerra imperialista, ed innestare il suo corso di sviluppo di classe, trasformando la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria.

La difesa della libertà, l’esportazione della democrazia nei paesi che ne sono privi, sono i grandi temi della propaganda borghese con i quali ogni classe borghese dominante dei paesi imperialisti più forti del mondo – terrorista e sanguinaria mille volte di più di qualsiasi organizzazione guerrigliera che razzola nel pianeta – giustifica qualsiasi aggressione che organizza ed attua nei confronti di popolazioni e Stati che per qualche motivo si mettono di traverso ai loro disegni. Il leit motiv degli odierni Bush, Blair, Chirac, Prodi, Putin, Merkel, Zapatero, Koizuni richiama il vecchio ritornello della lotta al totalitarismo che fece da sfondo nella seconda guerra mondiale alla lotta delle «democrazie» contro il «nazifascismo». I maggiori rappresentanti del totalitarismo capitalista ed imperialista salgono sul pulpito a declamare le virtù di una democrazia che ormai, nelle proprie metropoli, è solo di facciata, per minacciare tutti i paesi che non si adeguono alla loro democrazia, e nel caso per aggredirli non importa con quale pretesto formale (possesso di armi di distruzione di massa, chimiche, biologiche o nucleari, oppure sostenitori e organizzatori di terrorismo contro le metropoli democratiche, ad esempio).

«Sebbene le democrazie occidentali evolvano progressivamente verso le forme totalitarie e fasciste, esse potranno per un complesso di ragioni inerenti alla loro base sociale ed alla loro posizione nel mondo (specialmente per l’America) recitare ancora per lungo tempo la commedia della difesa di tutte le libertà», scrivevamo nel 1946 (2); la commedia della difesa di tutte le libertà è continuata, e purtroppo per un tempo molto più lungo di quanto non si pensasse allora, e continua e continuerà nelle parole dei Bush di oggi e di domani. All’epoca, era il regime russo ad essere tacciato come dittatoriale totalitario e fascista, anche se per molti anni fece comodo alla propaganda anti-hitleriana fingere di credere alla democratizzazione del regime sovietico; successivamente, negli anni della cosiddetta guerra fredda «vedremo, a grado a grado, trasformare questa tesi in quella opposta, e rinfacciare all’apparato russo di governo il carattere oligarchico ed oppressivo e i metodi prepotenti e crudeli finora rinfacciati alle belve naziste dagli agnelli delle democrazie parlamentari». Che cosa sostennero tutti i campioni delle democrazie occidentali se non che i crimini dello stalinismo andavano equiparati ai crimini del nazismo? Che cosa sostennero se non che il comunismo, identificato nella politica interna ed estera dello stalinismo, era una forma di totalitarismo che andava combattuta tanto quanto la dittatura fascista? Per decenni, la gigantesca macchina della propaganda stalinista di falsificazione del marxismo (a partire dalla «costruzione del socialismo in un solo paese», proseguendo per le «vie nazionali al socialismo» e finendo col mercato «socialista») fece credere al proletariato mondiale che in Russia, e in Cina, e in tutti i paesi satelliti del cosiddetto campo «socialista», si stesse effettivamente erigendo socialismo mentre non si trattava che di puro, cristallino e ovviamente spudorato capitalismo; per decenni, la stessa gigantesca macchina della propaganda democratica delle borghesie occidentali svolse il suo compito di rincoglionimento dei crani proletari dando sostegno alla falsificazione staliniana del marxismo, prendendo per buone le pretese di «socialismo realizzato» in Russia e nei paesi del campo imperialista avversario, assimilando l’orrenda oppressione del proletariato e dei popoli prodotta dallo stalinismo e dalle sue varianti cinesi o castriste – espressioni di borghesie giovani, ingorde, aggressive e senza scrupoli come ogni borghesia che tenta di recuperare tempi storici per raggiungere più in fretta possibile una posizione di dominio nel consesso dei più importanti briganti imperialisti del mondo – come una caratteristica specifica del comunismo. Ma alla caduta non tanto di Stalin, ma dell’Urss e del regime sovietico, altri saranno i bersagli della propaganda delle grandi democrazie imperialiste: il regime nordcoreano, quello castrista, il regime cinese e quello libico di Gheddafi fino al regime di Saddam Hussein e, più recentemente, a quello di Ahmadinejad. In ogni caso, continuava il testo del 1946, «sarà largamente sfruttato il luogo comune della campagna contro tutte le dittature» sostenuta anche dai rinnegatori del marxismo, e la stampa borghese scoprirà di volta in volta un novello Stalin come dittatore e un novello regime sovietico come fascismo, «per impiantare su questa asserzione la tesi che la libertà democratica trionferà in un mondo pacificato soltanto dopo che una nuova guerra, vittoriosa come quella che travolse i Mussolini, gli Hitler e gli Hiro-Hito, avrà tolto dal potere Stalin o il suo successore», Stalin o i suoi successori ed epigoni, potremmo aggiungere oggi. Una nuova guerra che travolga i nuovi dittatori: ecco lo slogan dei rappresentanti delle democrazie imperialiste, quelle stesse democrazie che hanno appoggiato, sostenuto, se non ideato i Pinochet, i Videla, gli Stroessner, i Noriega, i Sukarno, i Mobutu, i Millosevich, i Tudjman, i Saddam Hussein…, salvo poi a disfarsene quando le condizioni generali dei rapporti interimperialistici cambiavano, a riprova che la dittatura moderna non è condensata in un uomo, o in una «cricca», ma è dittatura di classe, dittatura della classe borghese che domina l’intera società grazie al sistema capitalistico di produzione e di appropriazione privata dell’intera ricchezza prodotta.

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Il fascismo, aperta dichiarazione di dittatura di classe della borghesia

 

La democrazia, che basa la sua forte presa sul fascino che sprigiona l’idea borghese che sia l’individuo a scegliere, il singolo individuo ad escogitare «soluzioni» politiche, economiche, diplomatiche, il singolo individuo a volere determinate cose piuttosto che altre, e a decidere i propri acquisti, il proprio schieramento, il proprio successo, il proprio futuro; la democrazia, che rilancia costantemente – nonostante le innumerevoli prove a contrario – l’idea che si possa sempre rimediare ai guasti del sistema borghese sul piano sociale e su quello dell’ambiente naturale, basta che gli uomini di buona volontà prendano il sopravvento sugli uomini di cattiva volontà con i mezzi della persuasione, del consenso, del «confronto civile», e che si cerchi di controbilanciare le esagerazioni cui il capitalismo spinge i singoli o i gruppi (accumulo di ricchezza, schiavismo, delinquenza, oppressione, guerra) con la «coscienza» della maggioranza degli uomini di limitare quelle «esagerazioni», limitando l’accumulo di ricchezza nelle mani di pochi, combattendo lo schiavismo, la delinquenza, l’oppressione e la guerra con le armi della… democrazia, della buona volontà dei più che vogliono giustizia, vivere civile, ordine, benessere, equilibrio.

Quante volte si sono sentiti discorsi che si appellano alla giustizia, al vivere civile, al benessere, all’equilibrio, ossia allo sviluppo «sostenibile» dell’economia e della società umana; e quante volte, di converso, si sono sentiti discorsi che giustificano le ingiustizie, i contrasti sociali, le diseguaglianze, gli squilibri, lo sviluppo ineguale dell’economia e della società umana; dove le ingiustizie vengono di fatto accettate ma si vorrebbero che cd ne fossero meno, i contrasti sociali sanati grazie agli accordi che i diversi gruppi sociali dovrebbero prendere, le diseguaglianze superate almeno per quel tanto che si possa dire che non sono così profonde, gli squilibri bilanciati grazie all’intervento dall’esterno di istituzioni appositamente messe in piedi, ecc. ecc. Il fatto è che piùsi sviluppa il capitalismo, più la società borghese avanza nel tempo e più i contrasti, le diseguaglianze, gli squilibri diventano acuti, in pratica insostenibili.

Ogni appello a qualsiasi forma di intervento nella società che si fermi alla superficie dei problemi sociali – ovvero ogni pretesa di rimediare ai guasti della società borghese senza porre il problema centrale e fondamentale del modo di produzione capitalistico e del sistema borghese eretto sul capitalismo e in difesa del capitalismo – è vano, come è in realtà dimostrato da più di centocinquant’anni di storia di sviluppo del capitalismo. La democrazia borghese ha il compito di nascondere questa verità storica, ha il compito di negare che la società sia eretta sull’antagonismo di classe tra le due classi principali, proletariato e borghesia; che il potere dominante della borghesia sia mantenuto con la forza economica che proviene dall’appropriazione privata borghese della ricchezza sociale prodotta e con la forza militare dello Stato con la quale la borghesia difende il suo potere economico; che capitalismo significa fondamentalmente oppressione salariale da parte borghese dei lavoratori, dei senza riserve, e che questa oppressione produce una serie di altre oppressioni: quella nazionale, quella della donna, quella culturale, quella religiosa, quella etnica, quella linguistica, ecc.; che capitalismo significa lotta della borghesia contro il proletariato per mantenerlo nella schiavitù salariale e lotta della borghesia di una nazione contro le borghesie di altre nazioni per motivi di espansione economica, di concorrenza, di guerra. La democrazia borghese tende a rendere naturale ciò che la storia delle società umane classifica come epoca transitoria, ossia come se denaro, merce, profitto, mercato, concorrenza fossero categorie da sempre esistite e che esisteranno sempre, di fronte alle quali la società capitalistica moderna avrebbe avuto il merito di svilupparne il massimo di propulsione sociale universalizzando un unico sistema economico che, grazie alla diffusione della democrazia, sarebbe in grado di trovare in sé gli elementi di compensazione e di sviluppo «sostenibile» superando di volta in volta le crisi e le contraddizioni che lo sviluppo stesso della società borghese non può non produrre.

I vecchi socialisti riformisti dei primi del Novecento, condizionati dal forte movimento proletario di lotta allora esistente ma attratti in modo irresistibile dal fascino della democrazia parlamentare borghese, cercarono di salvare «capra e cavoli»: l’obiettivo dell’emancipazione proletaria, per la quale non si negava in assoluto l’uso della violenza, e il mezzo del parlamentarismo democratico col quale si cercava di usare pacificamente la forza del numero. La storia rivelò che questo matrimonio diede solo figli bastardi: l’emancipazione proletaria la si fece dipendere sempre di più dal successo parlamentare, la violenza fu confinata nell’episodicità dell’asprezza di certe lotte, dunque la rivoluzione – ossia quel movimento di classe che avrebbe dovuto ottenere l’emancipazione proletaria attraverso l’abbattimento violento del potere borghese e l’instaurazione del potere proletario, unico e dittatoriale, sull’intera società – fu ridotta a movimento democratico parlamentare sempre più non-violento fino a diventare fautore della pacificazione fra le classi, della collaborazione fra le classi, dell’interclassismo elevato a teoria generale del movimento operaio. Il riformismo si trasformò inevitabilmente in collaborazionismo con laclasse dominante borghese.

Ci volle l’avvento del fascismo, e la sua netta dichiarazione di arma in mano alla classe dominante borghese in lotta contro la classe del proletariato, con il suo disvelamento dell’essenza dittatoriale di classe da parte della borghesia, per riproporre al proletariato la questione del potere politico, della lotta di classe, della rivoluzione come lotta armata che la classe proletaria conduce contro la classe borghese per la vita o per la morte, con l’obiettivo di abbatterla ed instaurare la propria dittatura di classe al fine di impedirle di riorganizzarsi e di riprendersi con la forza il potere perso. Ma i guasti che l’intossicazione democratica aveva prodotto si rivelarono particolarmente estesi e profondi; attaccato da un cancro andato in metastasi, nonostante il potente slancio che il proletariato russo, guidato dal formidabile partito di Lenin, diede alla rivoluzione internazionale con la propria vittoria, con l’instaurazione del primo Stato proletario al mondo e con la fondazione dell’Internazionale Comunista, il proletariato dei paesi occidentali- - dei paesi capitalisticamente più sviluppati e determinanti per la vittoria della rivoluzione proletaria nel mondo, o per la sua sconfitta – non riuscì a guarire in tempo dall’intossicazione democratica, lasciandosi così lentamente morire come classe rivoluzionaria. I partiti comunisti, in ispecie quelli europei, riuniti nell’Internazionale comunista, salvo pochissime eccezioni fra cui il partito bolscevico dei primi anni guidato da Lenin e il partito comunista d’Italia quando diretto dalla Sinistra comunista, capitolarono uno dopo l‘altro e guidarono il proletariato non alla rivoluzione ma alla controrivoluzione. Fu la sconfitta più grande che poteva avvenire poiché prese le sembianze di una «vittoria» solo confinata nell’ambito di una nazione (la Russia) perdipiù capitalisticamente arretrata, quando invece, giusta Lenin, non avrebbe mai potuto progredire economicamente se non grazie all’aiuto della vittoria rivoluzionaria in qualcuno dei paesi europei più sviluppati, pena la difficilissima resistenza di un potere politico proletario basato su un’economia capitalistica arretrata, in attesa che la rivoluzione proletaria in Europa corresse in aiuto alla Russia bolscevica . Potere politico proletario che, come la storia ha mostrato, ha esso stesso ceduto trasformandosi - non senza che fosse decimata a centinaia di migliaia la vecchia guadia bolscevica e rivoluzionaria – in potere politico borghese.

L’abbandono della mistificazione democratica da parte della borghesia che utilizzò il fascismo come metodo di governo per stroncare una volta per tutte le potenzialità rivoluzionarie di un proletariato che aveva dimostrato, nelle sue lotte e nella sua guida di partito rivoluzionario, di avere la forza di rovesciare il potere borghese seguendo l’esempio dei bolscevichi in Russia e dando a sua volta esempio ai proletariati europei, in primis al proletariato tedesco, avrebbe dovuto essere considerata dal comunismo internazionale – e non solo dalla Sinistra comunista italiana – come un’occasione storica positiva per la lotta di classe rivoluzionaria proprio per la chiarezza dell’antagonismo di classe emersa col fascismo stesso, antagonismo di classe da sempre apertamente dichiarato dai marxisti rivoluzionari e finalmente ammesso e accettato dal nemico di classe. Invece, la recidiva democratica nei paesi europei occidentali fu molto più forte di quanto non ci si potesse immaginare, tanto da aggredire purtroppo con successo la saldezza teorica e politica del bolscevismo leninista, avendone alla fine completamente ragione. Il fascismo, dunque, con la sua dichiarazione di aperta guerra di classe contro il proletariato non provocò nel proletariato la spinta decisiva ad accettare la sfida in campo aperto, classe contro classe, ma la spinta contraria a rifugiarsi nella lotta interclassista, nella lotta per il ritorno della democrazia pre-fascismo, nella rinuncia alla lotta non solo rivoluzionaria, ma alla elementare lotta di classe. Il peggior prodotto del fascismo, sosterrà il nostro partito nel lavoro di bilancio generale alla fine della seconda guerra mondiale, fu l’antifascismo democratico, la lotta «contro tutte le dittature».

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Il punto di vista proletario

 

Ritorniamo quindi al punto centrale della propaganda borghese di questo nostro tema: la guerra futura come crociata antitotalitaria. L’abbiamo scritto nel 1946, e non possiamo che riprenderlo nel 2006, a sessant’anni di distanza. Non soltanto le dichiarazioni dei Bush, dei Blair, dei Prodi o degli Chirac di oggi e di domani, ma la loro propaganda di guerra, mistificata come «spedizione di peacekeeping» o meno, va esattamente in questa direzione, e ciò ci conferma nella nostra giusta valutazione di essere in un periodo di «anteguerra», ossia in un periodo nel quale le borghesie imperialiste più potenti al mondo sentono urgere il bisogno di far passare nelle masse proletarie l’idea che ad una guerra più estesa, più devastante, insomma mondiale, prima o poi ci dovrannno andare; che i sacrifici cui sono chiamati i soldati oggi in Libano, o in Iraq, in Afghanistan o in Somalia, in Bosnia o in uno qualsiasi dei paesi che nello scontro di interessi interimperialistici emergerà come focus di contraddizioni, non sono nulla in confronto di quelli che dovranno essere sostenuti in una futura guerra. Ma l’obiettivo propagandistico rimarrà sempre quello: lotta al totalitarismo, che può anche passare attraverso la lotta al «terrorismo», internazionale o meno che sia.

I proletari che cos’hanno da dire in proposito?

Oggi i proletari che sono contrari alle spedizioni di guerra abbracciano il pacifismo come prolungamento della democrazia, di quel «vivere civile» cui sono spinti a credere dalla incessante propaganda ideologica di ogni borghesia, anche la più aggressiva e militarista. I danni che l’intossicazione democratica, legalitaria, pacifista ha prodotto nel corpo del proletariato sono particolarmente vasti; tanto sembra potente il peso e la forza delle classi dominanti borghesi agli occhi di tutti che la famosa e mielosa opinione pubblica – a leggere i giornali e ad ascoltare radio e tv – come dà per scontata l’onnipotenza del capitalismo dà ovviamente per spacciata per sempre la forza di classe del proletariato. E quest’idea dell’impossibilità di contrastare la politica borghese e imperialista e le sue azioni di pace e di guerra ha fatto talmente presa sul proletariato che quest’ultimo si è convinto di non poter far nulla senza l’ausilio dei partiti politici e delle organizzazioni economiche accettate dalle controparti, cioè dai borghesi che hanno in mano tutto: produzione, distribuzione, comunicazione, cultura, e soprattutto forza armata. La collaborazione di classe, ossia la pratica dell’interclassismo, in effetti parte dal presupposto che partiti e sindacati, associazioni e organizzazioni che riguardano il proletariato siano fondati sull’accettazione da parte borghese dei loro programmi, dei loro statuti, dei loro obiettivi, dei mezzi e metodi che intendono utilizzare per la loro attività. Dunque, siamo ben oltre il vecchio riformismo, che partiva dalle esigenze di emancipazione del proletariato, dandole per scontate come esigenze contrastanti con quelle della borghesia, per convergere su quelle borghesi. Ora, per il collaborazionismo operaio, le esigenze primarie non sono più quelle espresse dalle condizioni di vita e di lavoro, immediate, particolari e generali del proletariato in quanto classe distinta dalle altre presenti nella società; sono invece dipendenti fin dall’inizio dalla compatibilità che ogni rivendicazione proletaria ha con l’economia aziendale e nazionale, e con l’ordinamento esistente, ossia con le priorità che la classe borghese dominante detta all’intera società: sia la «lotta all’evasione fiscale», più propagandistica che altro, sia la «lotta al terrorismo», molto più producente per la borghesia in termini di abbattimento dei vincoli che essa stessa ha dovuto ideare per dare al suo sistema democratico una certa credibilità.

Più che ai tempi di Lenin, il partito operaio borghese è la norma per i partiti che si richiamano al proletariato e che nella loro propaganda usano ancora una terminologia che ricorda lontanamente quella del marxismo: classe operaia, lotta di classe, perfino rivoluzione. Ebbene, questi partiti operai borghesi, e i sindacati operai collaborazionisti, hanno in realtà una funzione ancora di primissimo livello nel mantenere il proletariato nella situazione di inferiorità, di sudditanza e di prostrazione in cui lo si trova oggi in tutti i paesi, soprattutto in quelli capitalisticamente più sviluppati.

In questi paesi il disfattismo proletario, ossia quella politica operaia che mette al centro della propria attività esclusivamente la difesa degli interessi proletari contro gli interessi borghesi, quella politica che unisce realmente i proletari di ogni categoria, settore, nazionalità, sesso, età in un’unica lotta di classe, è lontano mille miglia. E senza questo disfattismo proletario non sarà possibile per il proletariato contrastare efficacemente la corsa alla guerra della propria borghesia; ne sarà, al contrario, risucchiato, vittima predestinata, in una spirale dalla quale ne uscirà come è già successo in precedenza: massacrato, dilaniato, completamente calpestato nella sua esistenza quotidiana. E tutto questo per quale grande obiettivo? Per far ripartire con più forza, velocità e vigore la macchina infernale del profitto capitalistico, contribuendo con il proprio sangue e con i propri morti alla conservazione della schiavitù salariale in cui il capitalismo lo ha gettato da più di centocinquant’anni!

Il proletariato, oggi, sembra che non abbia alcuna via d’uscita che non sia quella dettata dalla borghesia, che non abbia alcun futuro come classe distinta da ogni altra in questa società. Di più, sembra che non sia nemmeno più una classe nel senso non soltanto marxista – che significa forza storica capace di rivoluzionare l’intera società capitalistica per portare l’intera specie umana, attraverso la propria emancipazione dalla schiavitù salariale, all’emancipazione dal capitale, dalla merce, dal denaro, dalla proprietà privata – ma anche nella semplice accezione di classe sociale cui era giunta la stessa borghesia agli albori della sua rivoluzione. Il proletariato è dunque sparito dalla scena, cancellato, ridotto ad una categoria sociale superata dal progresso tecnico e politico della società capitalistica. Oggi sono tutti popolo, cittadini, consumatori, produttori, individui che vendono e comprano; all’orizzonte non si scorge altro che mercato alle cui leggi, d’altra parte, è sottoposta dittatorialmente tutta l’umanità, dagli avanzatissimi abitanti di quel paradiso della tecnica moderna che sono gli Stati Uniti d’America agli arretratissimi pigmei dell’Amazzonia. Dunque la dittatura esiste al di sopra degli individui, al di sopra dei grandi personaggi della storia, al di sopra delle volontà dei singoli. Si tratta in effetti della dittatura di classe della borghesia, semplicemente perché la borghesia è la classe che rappresenta il capitalismo, che ne difende le leggi, ne sviluppa i processi produttivi e beneficia direttamente dei privilegi che derivano da questa sua posizione sociale, difendendoli con la forza armata di eserciti attrezzati allo scopo, lottando contro ogni altra classe sociale – non solo e non tanto rappresentante della società precapitalistica, come potevano essere i nobili o i latifondisti che ormai sono figure folcloristiche – e in particolare contro il proletariato perché la storia delle lotte fra le classi ha dimostrato essere l’unica classe sociale capace di mettere in pericolo per sempre la conservazione borghese del potere, e quindi dei suoi privilegi sociali. Non fosse che per quel che è già successo storicamente – con i moti proletari del 1848, con la Comune di Parigi del 1871, con la rivoluzione russa del 1917, con i tentativi rivoluzionari in Europa negli anni Venti e fino alle Comuni di Shangai e Canton del 1927 – la borghesia ha motivi storici più che validi per temere il risveglio di classe del proletariato, per temerne la forza dirompente e irrefrenabile che già in precedenza mise seriamente in pericolo il suo potere in tutto il mondo. La borghesia queste lezioni storiche le conosce e non se le dimentica, perciò continua la sua lotta di classe contro il proletariato su tutti i piani, da quello economico immediato a quello ideologico e politico generale, anche se il proletariato non dà – come sta succedendo da molto tempo – ancora segni di ripresa di classe.

Sarebbe sciocco, però, pensare che tutto ciò che la borghesia fa sia fatto in funzione della sua lotta contro il proletariato per paura del suo risveglio di classe. Le contraddizioni in cui le diverse borghesie sono immerse non riguardano soltanto quelle relative all’antagonismo di classe che agisce costantemente in profondità anche se non si vede in supeficie. Esse riguardano la borghesia stessa in quanto classe nazionale, e quindi la concorrenza con le altre borghesie nazionali per la supremazia sul mercato che ormai è sempre più mondiale. Ciò non toglie, dato che nella società borghese tutte le relazioni sociali sono sempre più intrecciate, che ogni attività della borghesia contenga una quota di contrasto nei confronti del proletariato: ciò avviene perché non può farne a meno, poiché la sua ricchezza proviene fondamentalmente dall’estorsione di plusvalore dal lavoro salariato e molti elementi della lotta di concorrenza fra borghesi sono determinati dall’appropriazione privata di quote di plusvalore, all’interno dei propri confini nazionali come all’esterno, negli altri paesi. L’espansione del dominio del capitalismo fino negli angoli più sperduti del pianeta, e quindi la costituzione di un mercato mondiale che non è più la somma dei mercati nazionali ma sono questi ultimi a dipendere da quello, mette molto più in evidenza la legge marxista della divisione internazionale del lavoro: il capitale, che di per sé ha estremo bisogno di nascere in azienda ma di svilupparsi al di là di ogni confine aziendale o nazionale, colonizzando tutto il mondo riduce la stragrande maggioranza delle popolazioni esistenti in masse proletarie, in masse di lavoratori salariati da cui estorcere il plusvalore, vitale per la sopravvivenza del capitale stesso. Il proletariato, prima ancora di rendersi conto di essere una classe mondiale, è mondializzato dalla stessa borghesia che ne sfrutta a proprio esclusivo vantaggio la forza lavoro.

Solo che il proletariato, accecato dalla propaganda borghese che ha interesse a confinarlo nell’idiotismo dell’individualismo, non percepisce quanto sia potente la sua forza solo che la disponesse sul terreno della lotta di classe. Ma questo avverrà, nonostante l’apparente impotenza dell’oggi. Nessun borghese, nessun nobile, nessun illustre politico o intellettuale russo, o tedesco, o inglese, o francese, avrebbe mai immaginato che il proletariato russo, ignorante e pezzente, e ancor meno il contadiname russo, del tutto analfabeta e abituato com’era all’orizzonte di un orto o di un campo, si sarebbero trasformati in protagonisti della più grande e profonda rivoluzione dell’età contemporanea, una rivoluzione che scosse le fondamenta non solo della società precapitalistica a Mosca, ma della stessa società borghese a Londra come a Parigi, a Berlino come a Roma, a Shangai o a Washington.

Ebbene, che i borghesi di oggi, dichiaratamente difensori dei propri privilegi di classe o mimetizzati da difensori dei diritti e delle esigenze del proletariato, nei loro miseri contenuti di propaganda continuino a diffondere l’idea che il proletariato come classe in sé e per sé non esista praticamente più, è ovvio e naturale: fa parte della loro lotta ideologica contro il comunismo – non quello falsamente appiccicato alla Russia di Stalin, alla Cina di Hu Jintao o alla Cuba di Fidel Castro – contro cioè l’obiettivo storico del rivoluzionamento completo della società presente che vede, appunto, come unica classe capace di questa rivoluzione, il proletariato. Essi preferiscono mille volte avere a che fare con il terrorismo di Al Qaeda, con la guerriglia irachena o palestinese, piuttosto che con la lotta di classe proletaria, e il motivo è per noi comunisti rivoluzionari chiaro: il terrorismo di Al Qaeda, la guerriglia irachena o palestinese, o ogni altra forma simile di ribellione all’ordine imperialistico mondiale, pur nell’attuale disordine, sono elementi del contrasto interborghese perfettamente integrati nella lotta di concorrenza esistente. Sono borghesi contro borghesi, perciò si tratta di una lotta, o di una guerra, che non metteranno mai in discussione il sistema capitalistico di produzione e i suoi rapporti sociali: quel che mettono in discussione è chi, quale frazione borghese si accaparra i proventi dello sfruttamento di risorse naturali e di manodopera in questa o quella zona del mondo.

La lotta di classe del proletariato, se lotta di classe è effettivamente, mette in discussione non questa o quella frazione borghese, ma la classe borghese in generale, il suo potere in generale, il suo Stato, la sua stessa esistenza come classe. L’obiettivo non è di mantenere il capitalismo e cambiare solo chi beneficia dei privilegi che provengono dall’essere al potere; l’obiettivo è cambiare il mondo, farla finita con ogni borghesia e quindi col capitalismo in generale, come sistema economico, come sistema di vita sociale. La lotta di classe per la ripresa della quale i comunisti rivoluzionari lavorano è quella che non si ferma alla difesa delle esigenze immediate del proletariato, alle riforme che vadano a soddisfare questa o quella esigenza di vita o questa o quella condizione di lavoro, ma che procede fino in fondo, fino all’obiettivo storico della rivoluzione proletaria. Questa lotta di classe,ossia quella che il marxismo non adulterato chiama lotta di classe, combatte a viso aperto la dittatura che il capitalismo ha imposto all’intera società umana, e quindi non può che lottare contro la dittatura di classe che la borghesia esercita a difesa del capitalismo. La rivoluzione proletaria, d’altra parte, non potrà mai avere successo in un determinato paese e non potrà mai innescare movimenti rivoluzionari nei vari paesi del mondo, se non sostituisce lo stato borghese con un altro stato, lo Stato proletario guidato e diretto dal partito proletario di classe in forma dittatoriale, concentrando perciò al massimo grado tutte le risorse rivoluzionarie a disposizione per combattere sui tre fronti principali: contro la reazione borghese interna, sul terreno economico e sociale, e contro le armate controrivoluzionarie organizzate dagli altri paesi borghesi che correranno in soccorso della borghesia vinta. Dittatura proletaria contro dittatura dell’imperialismo, non ci sono alternative.

Perciò la lotta contro tutte le dittature non potrà mai far parte del patrimonio politico e programmatico del proletariato rivoluzionario, ma solo dei rinnegati del comunismo, dei traditori della causa proletaria, dei collaborazionisti, dei mestatori che falsificano la realtà storica per deviare il corso di ripresa della lotta del proletariato sul suo terreno di classe.

La guerra futura, ma anche quella attuale, è giustificata dalla borghesia come crociata antitotalitaria, mistificando per l’ennesima volta i veri, e molto più prosaici, motivi. Ma la guerra che in futuro il proletariato farà alla borghesia non avrà bisogno di mistificare nulla, anzi, il proletariato sarà l’unica classe che dichiarerà apertamente di scendere in guerra contro la classe dominante borghese, negando di fare la guerra per la borghesia sui fronti della concorrenza mondiale e trasformando invece quella guerra in guerra rivoluzionaria, in guerra civile perché il primo nemico da combattere e vincere sarà sempre la propria borghesia.

Partire oggi per il Libano, come ieri per l’Iraq, l’Afghanistan, la Bosnia, la Somalia, fa parte di un disegno imperialista di spartizione del mercato mondiale che non si ferma alla zona interessata di quel momento; fa parte di un processo che inevitabilmente porterà prima o poi alla guerra mondiale. Essere «contro» la spedizione in Iraq o in Afghanistan, ma essere «per» la spedizione in Libano, col pretesto che in Libano ci si va perché chiamati dal governo di Beirut e sotto le insegne dell’Onu, come fa ad es. Rifondazione comunista oggi, vuol solo dire che si usano di volta in volta argomenti fittizi come quelli della «missione di pace» per giustificare un’operazione militare rispetto ad un’altra, ma che sempre operazione militare di una potenza imperialistica è. Andare in Libano come forza militare europea, svincolata dall’imposizione americana –come invece è stato per Iraq e Afghanistan – dovrebbe essere argomento sufficiente per giustificare ai proletari l’azione imperialistica della propria borghesia dominante, appoggiandola e sostenendola. Come se appoggiando le frazioni borghesi più europeiste contro quelle più americaniste – insomma, governo di centrosinistra al posto di quello del centrodestra – si facesse politica proletaria: questo è disfattismo antiproletario, è mettersi al servizio di rincalzo dell’imperialismo di casa nostra.

L’interesse proletario, da quando la rivoluzione borghese antifeudale è stata fatta e si è consolidata, non è mai stato di appoggiare una frazione borghese contro un’altra, ma di seguire una propria politica di classe che si oppone a tutte le frazioni borghesi, di destra, di centro o di sinistra che siano, perché tutte sono accomunate dalla loro lotta contro il proletariato in quanto classe, in quanto classe che combatte per prendere alla fine il potere centrale abbattendo il potere borghese fosse in quel momento storico di destra, di centro o di sinistra.

Perciò noi siamo innanzitutto contro qualsiasi spedizione militare dell’imperialismo di casa nostra, come contro ogni manifestazione dell’imperialismo di tutte le altre borghesie al mondo. Siamo quindi contro la politica falsamente proletaria di tutti quei partiti o gruppi politici che, abbracciando l’ideologia del pacifismo e dell’umanitarismo, sono sempre disposti ad appoggiare la borghesia dominante che prende le sue iniziative imperialistiche sotto le insegne della pace, della missione umanitaria, della ricostruzione postbellica.

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Invarianza delle posizioni marxiste

 

Nel testo di partito del 1946 già ricordato, Le prospettive del dopoguerra, mettevamo in evidenza come le gerarchie disfattiste del proletariato l’abbiano sistematicamente chiamato «ad abbandonare la lotta classista per accorrere, coalizzato con altre forze sociali e politiche nel campo nazionale o in quello mondiale, a difendere i più diversi postulati: la libertà, la democrazia, il sistema rappresentativo, la patria, l’indipendenza nazionale, il pacifismo unitario, ecc. ecc., facendo gettito delle tesi marxiste per cui il proletariato, sola classe rivoluzionaia, considera tutte quelle forme del mondo borghese come le migliori armature di cui a volta a volta si circonda il privilegio capitalista, e sa che, nella lotta rivoluzionaria, nulla ha da perdere oltre le proprie catene. Questo proletariato, trasformato in gestore di patrimoni storici preziosi, in salvatore degli ideali falliti della politica borghese, è quello che l’opportunismo ‘difesista’ ha consegnato più misero e schiavo di prima ai suoi nemici di classe nelle rovinose crisi svoltesi durante la prima e seconda guerra imperialistica», è quello che si prepara a consegnare in condizioni ancor più schiaviste nelle crisi catastrofiche prossime venture.

Si parla di opportunismo difesista, non a caso. Si precisa infatti, nel testo, che «l’attitudine preconizzata per il nostro movimento (rivoluzionario, ndr) nella possibile futura terza guerra imperialistica è quella di rifiutare e respingere, in entrambi i campi della grande lotta (il campo delle democrazie occidentali e quello del falso socialismo sovietico, ndr) ogni parola avente carattere di difesismo – termine già ben noto ed adoperato da Lenin nella battaglia critica e politica contro l’opportunismo del primo ciclo 1914-18 – e contro ogni intermedismo, termine col quale vogliamo intendere la pretesa di indicare come obiettivo precipuo e pregiudiziale della forza e degli sforzi del proletariato rivoluzionario non l’abbattimento dei suoi oppressori di classe, ma la realizzazione di certe condizioni nei modi di organizzarsi della presente società, che gli offrirebbero terreno più favorevole a conquiste ulteriori». Il fatto che il campo del falso socialismo sovietico sia crollato con il crollo dell’Urss e la conseguente disgregazione del suo «impero» non cambia la tesi di fondo che basa la critica marxista sulla lotta proletaria contro tutti i gruppi di Stati imperialisti che si organizzano in contrasto fra di loro per una diversa spartizione del mercato mondiale, che tali gruppi siano due o più.

Quanto all’intermedismo, la politica comunista coerente con i dettami del marxismo ha sempre respinto e combattuto la pretesa di fissare alla lotta rivoluzionaria del proletariato degli obiettivi intermedi fra l’inizio della lotta e la finale conquista del potere politico, considerati pregiudiziali per il buon andamento delle conquiste proletarie, in realtà devianti della lotta proletaria e armi al servizio della classe borghese dominante. Nel testo si sottolinea, infatti, che «l’intermedismo trionfò in mille forme, sempre sfociando però nel metodo della collaborazione di classe, della guerra rivoluzionaria cui Mussolini chiamava i socialisti italiani nel 1914 (giustificando così la partecipazione dell’Italia alla prima guerra imperialista, ndr), alla insurrezione partigiana ed alla democrazia progressiva, che nella recente guerra (la seconda guerra mondiale, ndr) i transfughi del comunismo della III Internazionale hanno creato come surrogato della lotta rivoluzionaria e della dittatura del proletariato, con l’aggravante di camuffare questo mercimonio di principi come l’applicazione della tattica elastica che attribuiscono a Lenin», cosa cui ancor oggi si dedicano gruppi di nostalgici stalinisti, ad esempio i Carc, con la pretesa di rappresentare il vero partito proletario capace di «far politica» e di «agire» nella situazione «reale».

Spezzare le insidie dell’opportunismo difesista e dell’intermedismo è dunque, per il movimento proletario rivoluzionario, obiettivo fondamentale nella prossima possibile frattura del fronte imperialistico mondiale perché è parte integrante dell’invariante posizione rivoluzionaria del marxismo: non si può, infatti, spezzare la presa che l’opportunismo collaborazionista ha sul proletariato – grazie al sostegno vitale che riceve dalla politica borghese e dai suoi grandi mezzi di propaganda – in vista della futura mobilitazione di guerra se nelle file del proletariato non si rigenera una corrente classista che si colleghi direttamente alle grandi tradizioni del movimento proletario rivoluzionario. Noi, comunisti marxisti, continueremo la nostra battaglia critica contro le posizioni opportuniste sapendo che il filo rosso del marxismo incrocerà il montante movimento di classe del proletariato quando ci saranno le condizioni obiettive della ripresa della lotta di classe, e quando perciò il movimento proletario avrà bisogno per svilupparsi e dirigersi verso lo sbocco finale della rivoluzione di un partito che avrà mantenuto ferma nel tempo la rotta dell’invariante teoria marxista, come fece con successo il partito di Lenin nei lunghi anni della reazione zarista e dell’oppressione borghese internazionale.

La guerra in Libano, o quella in Iraq, la guerra in Afghanistan o quella di ieri nell’ex Yugoslavia, non hanno tutte la stessa portata e gli stessi effetti nello schieramento e nei contrasti fra le potenze imperialiste, questo è evidente e i comunisti marxisti – pur affermando posizioni antiborghesi e antimperialiste di fronte a qualsiasi guerra borghese – tengono conto nelle loro analisi delle differenze. Ne tengono conto non per pendere in considerazione quale schieramento imperialista appoggiare e quale rifiutare, poiché il nostro disfattismo rivoluzionario è contro qualsiasi schieramento imperialista, anche se la guerra per ragioni contingenti e di rapporti di forze specifici può essere condotta con le forme della guerriglia partigiana. Ne tengono conto per comprendere lo spostamento di alleanze e di forze che ogni guerra innesta o produce negli schieramenti imperialisti, per individuaree quindi contrastare più efficacemente gli argomenti di propaganda che le borghesie e le forze dell’opportunismo collaborazionista usano per convincere i propri proletari a farsi massacrare, e per valutare lo sviluppo delle possibili azioni di classe. Ma vi sono posizioni che, pur mescolate con argomenti i più diversi, si ripresentano al proletariato sistematicamente , e che i comunisti marxisti hanno il dovere di confutare. Il testo di partito del 1946 ci aiuta anche in questo.

«1°) Non vi è guerrain cui da ciascuna parte del fronte non sia possibile l’artata presentazione degli obiettivi di una delle parti come il preteso trionfo di valori e ideali universali che corrispondono alle aspirazioni dell’umanità e delle classi sacrificate.

«2°) Una ipotesi arbitraria è che lo spostamento di rapporti prodotto dal prevalere di una delle forze militari sull’altra determini una evoluzione sociale generale nel senso del diffondersi nel mondo del tipo di organizzazione e di regime propri degli Stati vincitori.Non solo le possibilità dei riflessi sono molto più complicate, ma anzi il corso storico nel suo complesso ha piuttosto mostrato un carattere dialetticamente inverso. Le invasioni barbariche spezzarono la difesa militare dell’Impero Romano, ma tutta l’Europa fu condotta a organizzarsi secondo il tipo sociale e le leggi Romane. Le coalizioni contro la Francia rivoluzionaria pervennero alla sconfitta di Napoleone e ne distrussero senza appello la forza militare, la l’Europa intiera andò organizzandosi secondo i principi borghesi e il codice napoleonico». Ed aggiungiamo che, con la seconda guerra mondiale, gli Stati che sostenevano di rappresentare le democrazie parlamentari hanno sì distrutto e schiacciato la forza militare dei regimi fascisti, ma ne hanno ereditato l’organizzazione sociale e la centralizzazione economica e politica.

«3°) Quando anche le due soluzioni del conflitto siano apportatrici di diverse possibilità, sicuramente prevedibili e calcolabili per il movimento, la stessa utilizzazione di queste possibilità non può venire assicurata che evitando di compromettere nella politica dell’infeudamento opportunista, le energie principali di classe e le possibilità di azione del Partito.

«Il Partito di avanguardia marxista, se ha per compito essenziale il decifrare accuratamente lo sviluppo delle condizioni favorevoli all’azione massima di classe, è quello che deve in tutto il corso storico dedicarsi a svolgere e condurre vittoriosamente quell’azione, e non a costruire le condizioni intermedie.Ciò va inteso nel senso marxistico e dialettico che la condizione centrale perché il socialismo vinca è il capitalismo stesso, mentre il partito rivoluzionario, dal suo primo sorgere, lotta spietatamente contro di lui, e secondo i rapporti delle forze materiali ascende la scala che va dalla critica scientifica all’opposizione di principio, alla polemica politica, alla insurrezione armata; e appunto e soltanto per la continuità di questo atteggiamento la sua funzione è uno degli aspetti del maturarsi di condizioni rivoluzionarie che costituiscono il contenuto della crisi capitalista.».

Né un uomo né una cartuccia per nessuno dei contendenti borghesi imperialisti: parola d’ordine semplice e chiara, ma attività inarrestabile alla formazione del Partito di classe, di una corrente classista nelle file del proletariato, alla lotta perché sia spezzata la presa dell’opportunismo collaborazionista sul movimento proletario.

 


 

(1) Vedi il nostro studio Antimilitarismo di classe e marxismo, pubblicato ne «il comunista» nn.  , poi raccolto in opuscolo dallo stesso titolo nel…Il riferimento citato è a pag….. dell’opuscolo.

(2) Cfr. Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito, pubblicato nel n. 3, Ottobre 1946, pagg. 111-112 di «Prometeo», all’epoca rivista teorica del partito; ripubblicato successivamente dal partito nel volume intitolato Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, n.6 della serie «i testi del partito comunista internazionale».

 

Partito comunista internazionale

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