Cina 1927: la controrivoluzione staliniana, dopo aver soffocato la rivoluzione socialista in Russia, fa massacrare il proletariato rivoluzionario in Cina

(«il comunista»; N° 104; Giugno 2007)

 

 

Ciang-Kai-Shek e Kuomintang, sono due nomi che il proletariato internazionale   non deve dimenticare mai perché sono stati i boia del proletariato e dei contadini poveri cinesi; la comune di Shangai e l’insurrezione di Canton, devono essere ricordate come magnifici esempi di lotta rivoluzionaria del proletariato cinese.

Ma Ciang-Kai-Shek e il Kuomintang non  avrebbero avuto il successo nella loro opera controrivoluzionaria borghese senza l’apporto tragicamente decisivo dello stalinismo. D’altra parte, il movimento borghese rappresentato dal Kuomintang, pur se i suoi compiti economici e sociali obiettivamente erano nazionalrivoluzionari e antimperialisti (nei confronti dell’Inghilterra come del Giappone), non aveva nulla in comune con la borghesia rivoluzionaria francese del 1793. Il suo ruolo, di fronte alla gigantesca rivolta dei contadini poveri e del proletariato cinesi, e al pericolo che la guida proletaria del movimento rivoluzionario degli sfruttati cinesi rappresentava, è stato molto più simile a quello dei Noske e compagnia in quanto argine di difesa borghese contro l’avanzata del movimento proletario (1). Questo pericolo, proprio per le condizioni storiche in cui il movimento rivoluzionario in Cina si svolgeva e per la possibilità concreta che il proletariato cinese ne prendesse la testa, non era ristretto soltanto alla Cina ma aveva un orizzonte mondiale.

Ed è la controrivoluzione borghese mondiale, di cui Ciang-Kai-Shek e il Kuomintang erano un efficace strumento in Cina, e l’Internazionale Comunista ormai stalinizzata la sua guida politica influente sul proletariato internazionale, che stringerà in un assedio mortale il movimento proletario cinese: con il suo affossamento verranno così distrutte le potenzialità rivoluzionarie di un formidabile periodo storico.

«Le stesse cause oggettive, sociali e storiche, che hanno determinato lo sbocco dell’Ottobre - affermerà Trotsky nel suo libro “La Terza Internazionale dopo Lenin” (2) - ci si presentano in Cina in una forma anche più aspra. I poli borghese e proletario della nazione si oppongono, se possibile, in modo più inconciliabile che in Russia, poiché da un lato la borghesia cinese è direttamente legata all’imperialismo straniero  e al suo apparato militare e, dall’altro, il proletariato cinese ha preso contatto sin dall’inizio con l’Unione Sovietica e con l’Internazionale Comunista. Dal punto di vista numerico i contadini cinesi sono una massa che predomina ancor più dei contadini russi; ma, chiusi nella morsa delle contraddizioni mondiali, dalla cui soluzione, in un senso o nell’altro, dipende la loro sorte, i contadini cinesi sono in grado ancor meno dei contadini russi di sostenere un ruolo dirigente. Ora non si tratta più di una previsione teorica: è un fatto verificato, completamente, sino in fondo e sotto tutti gli aspetti».

Nonostante in Cina il movimento rivoluzionario si presentasse a vent’anni di distanza dal 1905 russo e a quasi dieci anni  dall’Ottobre 1917, proprio per le contraddizioni mondiali in cui erano impigliati gli imperialismi più direttamente coinvolti nel grande paese, e per la formidabile spinta alla rivolta sociale delle grandi masse contadine e del proletariato cinesi, il 1925-27 cinese  poteva rappresentare la ripresa mondiale del movimento rivoluzionario del proletariato. E’ ovvio che la storia non si fa con i se, ma è assolutamente certo che le cause della fallita rivoluzione cinese del 1927 vanno addossate soprattutto all’Internazionale Comunista, alla sua politica e alla sua tattica. Nulla delle tesi del II congresso dell’IC del 1920 e del congresso di Baku sulla questione nazionale e coloniale fu tenuto in conto dalla dirigenza dell’Internazionale in quel tempo rappresentata da Stalin e Bukharin; sia dal punto di vista dell’organizzazione di partito, proletario e comunista, indipendente da ogni altra organizzazione borghese, sia dal punto di vista della valutazione della borghesia cinese e dei suoi interessi di classe, sia da quello della prospettiva rivoluzionaria di segno squisitamente proletario.

L’Internazionale, dopo aver stroncato ogni opposizione alla politica staliniana - difesa degli interessi del capitalismo in Russia e del suo Stato nazionale (la teoria della «costruzione del socialismo in un solo paese» copriva, per l’appunto, questo compito squisitamente borghese) - e dopo essersi arresa ad una burocrazia obbediente alla nuova politica staliniana, non poteva che proseguire nello smantellamento dell’impostazione coerentemente marxista e rivoluzionaria dei grandi problemi del movimento proletario mondiale e allo stravolgimento delle tradizioni proletarie, di classe, che lo stesso proletariato russso sotto la guida del partito di Lenin aveva trasmesso al  mondo.

La collaborazione con il Kuomintang, il sostegno della politica del blocco delle quattro classi (borghesia, contadini, piccola borghesia urbana, proletariato) e, infine, l’adesione-scioglimento del giovane Partito comunista cinese nel Kuomintang, sono stati i passi decisivi per impedire che il movimento rivoluzionario del proletariato industriale delle città e delle masse contadine cinesi al suo seguito scardinasse l’ordine imperialistico nell’Estremno Oriente e rimettesse in discussione la stessa prospettiva staliniana dello sviluppo capitalistico nazionale in Russia.

L’Internazionale, il cui compito stava subendo una rotazione di 180 gradi, trasformandosi da guida del movimento proletario mondiale con le direttive adatte ai paesi di capitalismo avanzato e ai paesi che avevano ancora il compito di uscire dal colonialismo e dall’arretratezza preborghese, a guida della controrivoluzione, di fronte al movimento rivoluzionario cinese mise a segno una serie di tradimenti che non potevano portare che alla sicura sconfitta.

Far passare il Kuomintang per un partito, sì di natura borghese, ma in grado di lottare «in generale» contro l’imperialismo, serviva a giustificare il pieno appoggio dell’Internazionale Comunista a Ciang-Kai-Shek e al suo Kuomintang, e a giustificare la direttiva dello scioglimento del giovane  Partito comunista cinese nel Kuomintang.

Trotsky, riportando le parole del rappresentante del Pcc al VII Plenum del Comitato Esecutivo dell’IC, fine 1926, che a proposito di Ciang-Kai-Shek e del Kuomintang affermava: «Sul piano della politica internazionale è passivo nel senso più lato della parola... E’ incline a lottare solo contro l’imperialismo inglese; per quanto riguarda gli imperialisti giapponesi, in certe condizioni è disposto a stabilire un compromesso» , sottolinea giustamente che

«L’atteggiamento del Kuomintang verso l’imperialismo fu, sin dall’inizio, non rivoluzionario, ma impregnato di spirito collaborazionistico. Esso intendeva sconfiggere e ributtare indietro gli agenti di certe potenze imperialistiche per iniziare dei mercanteggiamenti, con queste stesse potenze o con altre, a condizioni più vantaggiose». E poco più oltre, caratterizzando in modo inequivocabile la borghesia cinese, Trotsky scrive: «La borghesia cinese è abbastanza realista e conosce abbastanza da vicino la natura dell’imperialismo mondiale per capire che una lotta veramente seria contro di esso esigerebbe una spinta delle masse rivoluzionarie tanto forte che essa stessa, come borghesia, ne sarebbe minacciata. Se la lotta contro la dinastia Manciù fu un compito di una portata storica minore del rovesciamento dello zarismo, al contrario la lotta contro l’imperialismo mondiale è un problema storicamente più vasto. E se sin dai nostri primi passi abbiamo insegnato agli operai russi a non credere che il liberalismo fosse disposto e la democrazia piccolo-borghese fosse capace di rovesciare lo zarismno e di abolire il feudalesimo, avremmo dovuto con altrettanta forza iniettare sin dall’inizio agli operai cinesi questo sentimento di sfiducia. In fondo, la nuova teoria, assolutamente falsa, di Stalin-Bukharin sullo spirito rivoluzionario “immanente” della borghesia coloniale non è che menscevismo tradotto nel linguaggio politico cinese. Essa serve solo a trasformare la situazione di oppressione della Cina in una specie di premio politico interno a profitto della borghesia cinese e getta sul piatto della bilancia dalla parte della borghesia un peso supplementare che controbilancia il piatto del proletariato cinese tre volte oppresso» (3).

In verità, l’Internazionale Comunista disponeva non solo di Tesi fondamentali ma anche di direttive inequivocabili, basta rifarsi alle Tesi del 2° congresso del 1920.

Ad esempio, nelle Tesi integrative, al punto 6, si afferma che:

«L’imperialismo straniero, forzatamente imposto ai popoli orientali, ha impedito loro di svilupparsi socialmente ed economicamente fianco a fianco con i loro fratelli d’Europa e d’America. Grazie alla politica imperialistica, il cui proposito è stato di ostacolare lo sviluppo industriale nelle colonie, il proletariato indigeno in effetti ha cominciato ad esistere soltanto di recente.

«L’industria domestica locale frantumata ha ceduto il posto alla industria centralizzata dei paesi imperialisti; di conseguenza, la stragrande maggioranza della popolazione è stata costretta ad occuparsi nell’agricoltura e ad esportare all’estero le materie prime.  D’altra parte, si è avuta una concentrazione rapidamente crescente della terra nelle mani dei grandi proprietari fondiari, dei capitalisti e dello Stato; questo fatto a sua volta, ha portato ad un enorme aumento dei contadini senza terra. La stragrande maggioranza della popolazione di queste colonie vive pertanto in uno stato di oppressione (...) La violenza impedisce sistematicamente il libero sviluppo della vita sociale; perciò il primo passo della rivoluzione dovrà essere la soppressione di questa violenza. Pertanto, appoggiare la lotta per abbattere il dominio straniero nelle colonie non significa affatto sostenere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma piuttosto spianare al proletariato delle colonie la via per liberare se stesso».

E al punto 11 delle Tesi, dopo aver elencato una serie di direttive tattiche, al paragrafo e) si può leggere:

«E’ necessario lottare con energia contro il tentativo di applicare nei paesi arretrati un’etichetta comunista ai movimenti rivoluzionari di liberazione che tali effettivamente non sono. L’Internazionale comunista ha il dovere di appoggiare il movimento rivoluzionario nelle colonie e nei paesi arretrati soltanto allo scopo di raccogliere tutti i componenti dei futuri partiti proletari - quelli effettivamente comunisti e tali non soltanto di nome - in tutti i paesi arretrati e suscitare in loro la consapevolezza dei loro compiti particolari, che consistono nella lotta contro la tendenza democratico-borghese nella propria nazione. L’Internazionale comunista deve favorire un incontro temporaneo o addirittura un’alleanza con il movimento rivoluzionario delle colonie e dei paesi arretrati, ma non può fondersi con esso; al contrario, deve conservare assolutamente il carattere autonomo del movimento proletario, anche se esiste soltanto in forma embrionale» (4).

Più chiare di così!

Lo stalinismo ha, invece, stravolto tutto, utilizzando la grandissima influenza che il movimento rivoluzionario del proletariato russo e la vittoria del bolscevismo  nella rivoluzione d’Ottobre avevano guadagnato sul proletariato internazionale concentrata poi nella fondazione dell’Internazionale Comunista cui tutti i proletari del mondo e tutti i movimenti di liberazione nazionale nelle colonie guardavano come propria guida e faro.

Il marxismo, ricorderà ancora Trotsky, ha sempre insegnato che «le conseguenze di certi atti che la borghesia è costretta a compiere per la sua stessa situazione, saranno tanto più decisive, stabili e sicure quanto più l’avanguardia proletaria sarà indipendente nei confronti della borghesia e quanto meno questa avanguardia sarà incline a lasciarsi addentare le dita dalla borghesia, ad abbellirla, a sopravvalutarne lo spirito rivoluzionario e la disposizione ad un fronte “unico” e alla lotta contro l’imperialismo» (5). L’Internazionale stalinizzata, obbligando il Partito comunista cinese a fondersi nel Kuomintang, non solo ha tradito le sue stesse tesi originarie, ma ha impedito al partito comunista cinese di svolgere il compito che le stesse Tesi dell’Internazionale gli dettava di svolgere, quello di guidare il proletariato con fermezza rivoluzionaria e in assoluta autonomia di programma e di organizzazione.

Inutilmente, e tragicamente, quando ormai il Kuomintang di Ciang-Kai-Shek era già passato a scatenare il terrore e a massacrare i proletari di Shangai, la dirigenza dell’Internazionale spinse i proletari ad insorgere - guidati dal Kuomintang “di sinistra” - sotto l’ennesima parola d’ordine equivoca della dittatura democratica degli operai e dei contadini. Ma il movimento reale del proletariato dimostrò che nella situazione cinese dell’epoca, la borghesia, benchè combattesse armi alla mano contro i vecchi poteri legati al dispotismo asiatico e all’imperialismo inglese, si dimostrava incapace di portare il proprio movimento rivoluzionario fino al traguardo finale che la lotta antimperialista - pur di segno nazionalrivoluzionario borghese - poneva storicamente: la sovranità nazionale, la rivoluzione agraria, il mercato nazionale, il monopolio del commercio estero. Questo obiettivo non fu raggiunto dal Kuomintang, che rimase prigioniero della politica frazionistica e di sudditanza alle forze dell’imperialismo che di volta in volta fornivano vantaggi e protezione.

Si prenda l’esempio dell’insurrezione di Canton del dicembre 1927 - con la quale l’avventurismo staliniano cercava di riparare all’opportunismo della politica collaborazionista con il Kuomintang di Ciang-Kai-Shek -, qui i proletari tentarono, al grido: «Abbasso il Kuomintang!», di prendere il potere nella città. Sotto la direttiva dell’Internazionale, il C.C. del Partito comunista cinese, ormai abbondantemente depurato, dopo il terrore anti-operaio dell’aprile 1927, lanciò l’appello di «organizzare immediatamente delle insurrezioni» dovunque questo fosse possibile e in particolare nelle campagne, visto che nelle città non era più possibile dato il loro controllo da parte del Kuomintang di Ciang-Kai-Shek (6). Questo avventurismo, dato che tutta la politica precedente fu attuata nel segno della collaborazione col Kuomintang e nella fusione del Pcc nel Kuomintang stesso, portò inevitabilmente alla rapida repressione del tentativo proletario. Nulla fu preparato dal partito, nè sul piano della propaganda, nè su quello organizzativo e militare, nè tanto meno fu fatta quell’attività indispensabile alla formazione di soviet operai e contadini nei quali le masse potessero allenarsi a prendersi in carico la propria lotta e i problemi della propria lotta. Nonostante l’assenza completa di un partito indipendente e allenato alla guida del movimento rivoluzionario secondo un proprio programma e una tattica coerente con i grandi obiettivi della rivoluzione proletaria, gli operai di Canton,  nei pochi giorni di gestione di un effimero potere sovietico, promulgarono alcuni decreti davvero emblematici: «nell’interesse degli operai... il controllo della produzione per mezzo dei comitati di fabbrica, la nazionalizzazione della grande industria, dei trasporti e delle banche», e alcune misure come la «confisca di tutti gli appartamenti della grande borghesia e di tutti i suoi beni a vantaggio dei lavoratori...» (7).

Dunque, contro le direttive dell’Internazionale Comunista che indicavano come obiettivo la dittatura democratica degli operai e dei contadini, sotto la guida del Kuomintang, e benché Canton si distinguesse da Shangai e da altri centri industriali per il suo carattere piccolo-borghese, «l’insurrezione rivoluzionaria contro il Kuomintang» - secondo Trotsky - «ha condotto automaticamente alla dittatura del proletariato» - in un certo senso come successe alla Comune di Parigi - «che, sin dai primi passi, è stata costretta, a causa della situazione generale, ad applicare misure più radicali di quelle con cui la rivoluzione d’Ottobre aveva cominciato» (8).

Una volta soffocata ogni velleità proletaria di insurrezione e di rivoluzione, la tattica dell’«offensiva rivoluzionaria» con il suo inevitabile e tragico sbocco nella sconfitta dimostrava di essere nulla di più che il seguito di un’altrettanto tragica tattica, quella dell’alleanza e delle fusioni con le formazioni politiche borghesi che l’Internazionale stalinizzata diffuse in tutti i paesi, a capitalismo avanzato come a capitalismo arretrato.

Gli avvenimenti della Cina 1925-1927 potevano essere interpretati come l’impossibilità da parte del proletariato di attuare la presa del potere, per il quale avrebbe avuto sempre bisogno di accodarsi alle forze borghesi. Successivamente, con il movimento maoista, si tornerà ovviamente a porre la questione del blocco delle quattro classi e ad  etichettare come socialista un movimento del tutto borghese e come comunista un partito populista e borghese. Ma c’erano le tendenze opposte, quelle legate allo stalinismo, che interpretavano la sconfitta del proletariato cinese come conseguenza dell’incapacità dei dirigenti cinesi del partito comunista, quello stesso partito che la dirigenza dell’Internazionale aveva depurato in modo che diventasse sottomesso alle sue direttive e che aveva obbligato solo poco tempo prima ad aderire al Kuomintang, e al quale la stessa Internazionale aveva continuato a dare in pochissimi anni  direttive del tutto contrastanti tra loro.

Dopo la sconfitta di Canton, lospezzettamento della Cina divenne ancor più grave di quanto non fosse la situazione precedente al movimento rivoluzionario, poiché i generali costituirono le loro zone particolari (come i «signori della guerra» fanno ancor oggi in Somalia o in Afghanistan), e nelle zone più arretrate nacque pure una «Cina comunista» dove sussistevano «insieme con le forme rudimentali dell’economia primitiva, le necessità di uno sfruttamento delle masse ancora più intenso di quello in vigore nelle altre zone» (9). A dimostrazione che la borghesia cinese, e tanto più la piccola borghesia, non avevano la forza di portare la propria rivoluzione fino in fondo.

La nostra corrente, la Sinistra comunista, ha sempre combattuto - a costo di rimanere sola e isolata per decenni - l’espedientismo e le oscillazioni tattiche. «La nostra corrente» riguardo il bilancio delle sconfitte di Shangai e di Canton, sosteneva che «se la situazione non-rivoluzionaria non consentiva di sollevare la parola fondamentale della dittatura, se dunque la questione del potere non si poneva più in forma immediata, non per questo si doveva rabberciare il programma del partito che doveva essere invece riaffermato integralmente sul piano teorico e della propaganda, mentre la ritirata non poteva effettuarsi che sulla base delle rivendicazioni immediate delle masse e delle loro organizzazioni di classe corrispondenti» (10).

Nulla va tolto alle argomentazioni di Trotsky che abbiamo anche qui molto succintamente riportato, circa la critica delle direttive dell’Internazionale Comunista. Ma la nostra corrente non mancò di polemizzare molto duramente con lo stesso Trotsky quando la nuova situazione non permetteva più di lanciare la parola d’ordine della dittatura proletaria. Trotsky sosteneva che «una parola intermedia dovesse essere sollevata nella questione del potere: quella dell’Assemblea Costituente e di una costituzione democratica in Cina» (11). Ossia, la sconfitta del movimento rivoluzionario in Cina, dovuta alla tattica opportunistica della direzione dell’Internazionale, veniva considerata come la sconfitta della parola d’ordine della dittatura proletaria, e si ricadeva proprio in quella dittatura democratica degli operai e dei contadini - o addirittura della «quattro classi» -, nella visione della  «rivoluzione per tappe» che Trotsky stesso aveva combattuto nel suo libro «La Terza Internazionale dopo Lenin». Come fosse una scorciatoia attraverso la quale si fosse potuto ingannare la storia; ma di scorciatoie la storia non ne conosce e, sistematicamente, una tattica che si fonda sugli espedienti e sulla collusione di più classi, la destina alla sicura sconfitta. Con un’aggravante: che la ripresa del movimento rivoluzionario sulle giuste e corrette basi teoriche e programmatiche, dalle quali discende la tattica, si fa inevitabilmente più dura e si allontana nel tempo.

 In verità, anche la parola d’ordine della «dittatura democratica degli operai e dei contadini», che Lenin molto prima del 1917 richiamò, va ben compresa. Lenin parla, a proposito della questione del potere politico posta in un paese arretrato come era la Russia, di un potere del proletariato che si appoggia sui contadini, di un potere proletario che trascina dietro di sè la massa dei contadini poveri. Il movimento rivoluzionario dei contadini non era in grado di esprimere un programma politico capace di attuare le riforme radicali che la rivoluzione borghese - e tanto più la rivoluzione proletaria - doveva attuare per liberarsi dei vincoli sociali, economici e politici delle vecchie società feudali. Questo programma politico era espresso o dalla borghesia rivoluzionaria, o dal proletariato rivoluzionario, con una differenze sostanziale: che la borghesia rivoluzionaria avrebbe introdotto riforme e misure sociali che difendevano sì gli interessi del grande capitale e dei proprietari fondiari suoi stretti alleati ma che nello stesso tempo conservassero la posibilità di compromesso con le vecchie classi; mentre  il proletariato rivoluzionario era l’unica forza storica in grado di liberare i contadini proveri dall’oppressione dei grandi proprietari fondiari, delle mille gabelle cui i contadini poveri erano sottoposti, dello sfruttamento bestiale e dell’usura.

Ma contro la visione di Lenin, tutte le tendenze antimarxiste, a partire dai menscevichi per passare attraverso i socialisti rivoluzionari e poi gli stalinisti e, in seguito, i maoisti, intesero la dittatura democratica degli operai e dei contadini come una formula di governo nella quale il proletariato dovesse anacquare le proprie rivendicazioni di classe a favore della “nuova classe rivoluzionaria” - i contadini - fino a mettersi al sevizio semplicemente della democrazia borghese.

Per l’ennesima volta, non possiamo fare a meno di Lenin: «Le rivoluzioni dell’Asia ci hanno mostrato la stessa mancanza di carattere e la stessa viltà del liberalismo, la stessa straordinaria importanza dell’autonomia delle masse democratiche, la stessa demarcazione netta tra il proletariato e qualsiasi borghesia» (12). Siamo nel 1913 e questi sono gli insegnamenti che Lenin tirava dalla prima ondata delle rivoluzioni nazionali borghesi in Oriente: Russia (1905), Persia (1906), Turchia (1908), Cina (1911). Ma di questi insegnamenti, come delle Tesi dell’Internazionale Comunista del 1920, lo stalinismo non tenne nessun conto: stravolse tutto per poter limitare la formidabile spinta rivoluzionaria del proletariato russo nei confini della costruzione del capitalismo in Russia e per deviare i movimenti rivoluzionari nel mondo sul binario della conservazione sociale borghese.

Tutte le lezioni, come dirà Trotsky, del 1848, 1871, 1905, 1917, del partito comunista dell’Urss e dell’Internazionale Comunista, andarono perdute. Al movimento proletario e comunista fu fatto fare un balzo indietro di ventenni.

«In realtà - sottolineeremo nelle nostre Tesi di partito del 1964 sulla Cina - nelle grandi battaglie della rivoluzione cinese fra il 1924 e il 1927 non fu la sorte di una Cina “indipendente, ricca e potente” ad essere compromessa per molti anni, ma la sorte di tutto il movimento operaio nelle colonie per un periodo storico infinitamente più lungo e doloroso» (13).

La nostra valutazione degli avvenimenti cinesi di allora non è cambiata. La Cina è alla fin fine diventata “indipendente, ricca e potente”, e oggi, nelle sue inevitabili contraddizioni di embrionale potenza imperialistica, costituisce una minaccia per i grandi imperialismi del mondo; essa non è più così facilmente colonizzabile come nell’Ottocento o nei primi del Novecento, ma anche se le Borse di Hong Kong o di Shangai non possono competere con Wall Street o Londra, Pechino si è affacciata sul mercato mondiale con caratteristiche di aggressività e di vitalità capitalistica che - se, da un lato, minacciano le posizioni finora dominanti dei trust americani, inglesi, tedeschi o francesi - possono, dall’altro, dare maggior respiro alla circolazione delle merci e dei capitali, allungando così la vita al capitalismo internazionale.

Il movimento operaio nelle colonie è stato così compromesso dallo stalinismo e dalle micidiali sconfitte degli anni Venti del secolo scorso, che ancor oggi - nonostante le lotte di «liberazione nazionale» abbiano prodotto alcuni risultati storicamente positivi in diverse parti dell’Africa e della stessa Asia - non si intravvede la possibilità di ripresa di classe nemmeno lontanamente simile a quella che annunciò i grandi movimenti del proletariato russo del 1905-1917 e del proletariato cinese del 1925-27.

Questo fatto non scoraggia i marxisti, perché sanno che la storia non presenta i propri conti a scadenze fisse o programmabili; le contraddizioni capitalistiche stanno accumulandosi in quantità enormi a causa dell’estensione delle basi economiche del capitalismo in molti più paesi di quanto non fosse avvenuto all’inizio del secolo scorso in Europa e nell’Estremo Oriente; il proletariato, ossia le masse dei senza riserve, si allarga sempre più numericamente inglobando masse contadine diseredate e immiserite dalla pressione e dall’oppressione borghese e capitalistica in ogni angolo del pianeta. Il magma sociale ribolle nelle viscere del vulcano capitalistico e la sua potente esplosione è scritta nella storia delle contraddizioni sociali. Ai marxisti il compito di   dedicare forze, pazienza ed energie per la formazione del partito di classe in stretto collegamento con le lezioni delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni; ai proletari di Cina, d’America, d’Europa, di ogni paese del mondo, il compito di tornare prepotentemente sul terreno della lotta di classe, anche cominciando dalla semplice, ma indispensabile, lotta di difesa economica ed immediata.

Oggi, la «questione nazionale e coloniale» potrebbe sembrare del tutto superata per il fatto che i paesi  coloniali hanno in gran parte fatto la loro «lotta di liberazione» raggiungendo una qualche forma di Stato nazionale e che le nazionalità non hanno più la spinta progressista della lotta contro l’oppressione straniera del secolo scorso. Ai moti anticoloniali, a partire dalla sconfitta dei tentativi rivoluzionari del proletariato cinese degli anni 1925-27, e per tutto il periodo del grande risveglio dei popoli di colore nel secondo dopoguerra, è mancata la guida di una Internazionale Comunista salda sulle basi teoriche e programmatiche e capace di una rigorosa tattica rivoluzionaria internazionalista - come lo era stata l’Internazionale di Lenin nei suoi primi due congressi. La guida proletaria e comunista avrebbe fatto fare un gigantesco balzo in avanti a tutti i popoli di colore, verso l’emancipazione non solo dall’occupazione straniera ma anche dal capitalismo in cui trova le proprie radici il moderno imperialismo. Ma quella guida fu tradita e distrutta dalla più profonda ondata opportunista che la storia del movimento proletario e comunista internazionale abbiano mai concosciuto: lo stalinismo. Con il capovolgimento di rotta impresso al partito bolscevico e all’Internazionale sotto la bandiera della «costruzione del socialismo in un solo paese» - perdipiù arretrato come lo era la Russia del 1926 -, con la distruzione del giovane ma vigoroso movimento proletario cinese offrendolo al massacratore Ciang.Kai-Shek e al suo partito il Kuomintang, con la distruzione dell’ultimo tentativo proletario di rialzare la testa in Spagna, nel 1936, prima dell’immane carneficina della seconda guerra imperialista mondiale, lo stalinismo poteva vantarsi di aver offerto al capitalismo e al dominio borghese sul mondo molti altri decenni di vita. E verrà il giorno in cui il proletariato, non importa in quale paese ricomincerà la sua lotta rivoluzionaria, dovrà ricordarselo!

In ogni caso, la pressione e l’allargamento dello sviluppo capitalistico nel mondo hanno comunque contribuito allo sviluppo economico di paesi un tempo prigionieri di economie arretrate e primitive (basti pensare alla Turchia, alla Persia, alla Cina, all’India, all’Algeria, all’Egitto, al Sudafrica ecc.) e questo non è avvenuto senza scatenare contraddizioni sempre più forti dovute alla contemporanea mancanza di sviluppo capitalistico in quegli stessi paesi. La legge marxista dello sviluppo ineguale del capitalismo non è stata smentita nemmeno nei casi in cui i moti anticoloniali cacciarono le potenze straniere dai loro paesi dando vita ad uno Stato indipendente, visto che lo sviluppo capitalistico in quei paesi ha riguardato e riguarda soprattutto i settori di economia più fortemente interessati alle esportazioni (vedi materie prime) dalle quali dipendono le loro risorse finanziarie nazionali; ed è proprio questa dipendenza che agisce da freno allo sviluppo di tutti gli altri comparti economici nei paesi di giovane capitalismo, costretti dalla concorrenza mondiale e dalla pressione dei paesi imperialisti più forti a potenziare quanto più possibile lo sfruttamento del lavoro salariato nei settori economici, appunto, più direttamente interessati alle esportazioni (che si tratti di petrolio, carbone, diamanti, oro, elettronica di consumo, abbigliamento o calzature).

Per questo motivo, il proletariato dei paesi ex-coloniali è ancor più sfruttato di quello dei paesi capitalistici sviluppati: su di esso, pur essendo cambiate le condizioni sociali, continuano a pesare le contraddizioni di uno sviluppo capitalistico forsennato in determinati settori economici e la mancanza di sviluppo in tutti gli altri settori, aggravato dal fatto che l’economia di sopravvivenza di un tempo (le forme di artigianato e di agricoltura familiare) è quasi completamente sparita proprio per l’intervento distruttore del capitalismo e delle sue leggi di mercato.

La «questione nazionale» non è una questione specifica del movimento proletario; è una questione specifica della classe borghese. La «questione nazionale» diventa una questione di interesse del proletariato nell’epoca della fase rivoluzionaria del capitalismo e, quindi, della classe borghese. Come ripeterà mille volte Lenin, solo nella misura in cui il proletariato, attraverso il suo partito di classe, esprime un programma suo specifico che è anticapitalistico e si organizza in modo assolutamente indipendente da ogni altra classe (aristocratica, borghese, piccoloborghese), nel periodo delle rivoluzioni borghesi antifeudali può - e deve - partecipare alla rivoluzione per abbattere i poteri feudali e aprire la strada alla lotta di classe diretta contro la propria borghesia. Il proletariato non può esimersi dal partecipare alla rivoluzione borghese: vi è coinvolto direttamente, come vi sono coinvolti direttamente i contadini, solo che il proletariato ha la possibilità di incidere sul corso storico rivoluzionario con il proprio programma rivoluzionario che supera i confini della rivoluzione borghese, dello Stato nazionale e del mercato nazionale, mentre i contadini - che sono socialmente una frazione della borghesia - non sono in grado di esprimere un programma politico e una prospettiva che si differenzi nettamente da quelli della grande borghesia. La storia si è incaricata di dimostrare che i contadini, la piccola borghesia, non sono in grado di rappresentare un’alternativa storica al capitalismo; questa alternativa è rappresentata esclusivamente dalla classe del proletariato e dal suo programma comunista.

Ed è il corso storico delle lotte rivoluzionarie del proletariato che ha messo in luce come - raggiunto un certo grado di sviluppo da parte dei più grandi paesi del mondo  e la formazione di un pugno di Stati superindustrializzati che dominano il mercato mondiale - la borghesia abbia sempre più costretto la rivendicazione della «liberazione nazionale» dall’oppressione straniera nella politica utilitaristica dei vantaggi e degli svantaggi per la tale frazione borghese più o meno legata al tale o tal altro paese imperialista dominante. Se la «questione nazionale», nella sua caratteristica rivoluzionaria, non è più attuale ed è abbandonata dalla stessa borghesia, perde tanto più interesse - in quanto tale - per la lotta del proletariato. Ciò non significa che la classe borghese abbia risolto dappertutto i problemi che la «questione nazionale» riassume; ha semplicemente sostituito la rivendicazione sostanziale di una «indipendenza» e di una «sovranità» nazionali con la politica del compromesso e degli accordi che di volta in volta, a seconda delle oscillazioni degli equilibri fra le grandi potenze e delle spinte sociali locali, si rendono possibili. Se il corso storico della dominazione borghese sulla società ne ha evidenziato tre fasi, quella rivoluzionaria, quella riformista e quella reazionaria, le borghesie che non riescono ad esprimere la propria fase rivoluzionaria vengono catapultate direttamente nella fase riformista che è destinata, inesorabilmente, a passare la mano alla fase reazionaria. In quest’ultima fase vi sono immerse tutte quelle borghesie che per fatti storici e per propria inconsistenza di classe non sono state in grado di rappresentare un effettivo progresso politico ed economico per il «proprio» popolo; vedi la borghesia palestinese e di molti paesi arabi, o quella dei diversi paesi del Caucaso, della Somalia come dell’Afghanistan.

Il capitalismo porta con sè, quindi, non solo lo sviluppo economico, la rivoluzione tecnica nella produzione e nella distribuzione, alzando il tasso di produttività del lavoro a livelli del tutto inimmaginabili soltanto cinquant’anni fa; porta con sè una crescente miseria delle masse proletarie e diseredate del mondo insieme ad un contemporaneo accrescimento dello sfruttamento del lavoro salariato e dell’oppressione da parte delle classi possidenti (borghesi, proprietari fondiari, monarchi, oligarchie tribali, mercanti e preti). E, in questo groviglio di contraddizioni sociali, aumentano le tensioni di ogni tipo e grado: razziali, religiose, nazionali, locali, familiari, personali, aumentando in proporzioni sempre crescenti la violenza economica, politica, sociale e militare. La società che avrebbe dovuto portare l’umanità al progresso e al benessere progressivo si rivela la società della violenza, della sopraffazione, dell’aggressione, della prepotenza sistematica. Il proletariato, e solo laclasse dei senza riserve, potrà farla finita con le classi che si sppropriano di tutto, di ogni risorsa, di ogni ricchezza,  della vita di miliardi di esseri umani.

Ma, nella sua strada, la classe del proletariato troverà tutti i problemi sociali e politici che la borghesia non ha risolto, e non può più risolvere, compresa la questione più che «nazionale», delle nazionalità.

Si ripropone perciò, al partito della classe proletaria, al partito comunista rivoluzionario, in termini cambiati perché la storia dello sviluppo capitalistico è andata avanti, la grande e ardua questione della tattica nei confronti di tutti quei popoli - di colore ma anche bianchi - che in tutti questi decenni hanno subìto e subiscono l’oppressione nazionale da parte di paesi, e di popoli, economicamente più forti. Ecco perché l’impostazione anti-indifferentista e anti-codista che la Sinistra comunista ha sempre avuto in questo campo, in perfetta coerenza con l’impostazione data da Lenin sulla questione dell’«autodecisione dei popoli» e dall’Internazionale al II congresso del 1920 sulla questione «nazionale e coloniale», non va messa in soffitta (14). I buoni marxisti non buttano il metodo di interpretazione della storia e l’impostazione generale data alle questioni sempre aperte della società borghese e capitalistica, col pretesto che la questione specifica non appare più, agli occhi di noi europei, così predominante. Con la stessa leggerezza teorica, gli indifferentisti rispetto alle questioni tattiche lo sono anche rispetto alla questione del partito di classe, che è questione centrale per ogni marxista, come rivendicò con forza la nostra corrente opponendosi con tutte le proprie forze - anche se con nessuna speranza di successo visto il dominio dello stalinismo - all’adesione del Pcc cinese nel Kuomintang.

 

 


 

 

(1) Vedi O. Perrone, La tattica del Comintern,  pubblicato a puntate nella rivista teorica del partito comunista internazionalista Prometeo; la puntata relativa alla «questione cinese (1926-1946) è apparsa nel suo n. 3 Ottobre 1946. Il testo è stato poi pubblicato in volumetto dalle Edizioni Sociali, Borbiago, 1976. I riferimenti si trovano alle pp. 61 e 64 di questo volumetto.

(2) Cfr. L. Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin, Schwarz editore, Torino 1957, pp. 199-200. Il titolo originario di questo scritto era  Progetto di programma dell’Internazionale Comunista, che Trotsky scrisse nel giugno 1928 quando si trovava confinato ad Alma Ata, ed era rivolto formalmente ai delegati del VI Congresso dell’IC. In verità solo un piccolissimo numero di delegati ne poterono prendere visione e, comunque sia, la commissione per il programma non ne tenne conto alcuno.

(3) Cfr. L. Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin, cit. pp.190-192.

(4) Cfr. A. Agosti, La Terza Internazionale, storia documentaria, Ed. Riuniti, Roma 1974, vol 1, cap. IV, il II Congresso dell’Internazionale Comunista, Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale, pp.242-251.

(5) Cfr. L. Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin, cit., p. 192.

(6) Vedi O. Perrone, La tattica del Comintern, cit., p. 76.

(7) Cfr. L. Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin, cit., p. 197.

(8) Ibidem, p. 198.

(9) Vedi O. Perrone, La tattica del Comintern, cit. p. 78.

(10) Ibidem, p. 79.

(11) Ibidem, p. 79.

(12) Cfr. Lenin, I destini storici della dottrina di Karl Marx, 1913, in Opere, vol. 18, Editori Riuniti, Roma 1970, p.563.

(13) Vedi le Tesi di partito sulla questione cinese, dal Rapporto alla riunione generale di Marsiglia 11-13 luglio 1964, pubblicate su «il programma comunista n.23/1964 e n.2/1965, e ripubblicate ne «il comunista» n. 97-98. I lettori di lingua francese possono riferirsi al testo «Le mouvement social en Chine», pubblicato nella rivista teorica di partito «programme communiste» nei nr. 27, 28, 30, 31, 33, 35, 37.

(14) Gli interessati possono riprendere alcuni nostri lavori, ad esempio sulla questione «palestinese» come i nr. 79 e 80-81 de «il comunista»; ci si può riferire anche all’opuscolo del «prolétaire» del 2004 intitolato «Le marxisme et la question palestinienne».

 

Partito comunista internazionale

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