I  proletari  sono  pagati  sempre  meno,  contro  un  sempre  crescente  sfruttamentodel  lavoro salariato  e  della  sua  produttività

La via d'uscita è nella ripresa della lotta di classe!

(«il comunista»; N° 104; Giugno 2007)

 

 

Lo dicono le statistiche ufficiali della grande borghesia: il peso del monte salari sul Pil (Prodotto Interno Lordo) dei paesi avanzati è sceso di 10 punti in 25 anni. La pressione capitalistica sui salari operai ha ottenuto, grazie all’opera sistematica del collaborazionismo sindacale e politico, un notevole risultato: gli operai hanno intascato meno salario, i capitalisti hanno intascato più quote di ricchezza sociale.

In un certo senso, la legge dell’economia che recita: a maggiore produttività corrispondono salari più alti, è stata invertita. La produttività del lavoro è progressivamente cresciuta, la quota dei salari è progressivamente diminuita.

Secondo la Morgan Stanley, una delle più importanti banche d’investimento mondiali, dal 2001 ad oggi i salari reali dei lavoratori sono rimasti fermi. Negli ultimi anni   la produttività del lavoro è cresciuta del 2,8% l’anno negli USA, del 2,1% l’anno in Giappone, dell’1,7% in Germania: tutti tassi di crescita sono doppi rispetto agli anni precedenti. Ma la quota in percentuale dei salari sul Pil nei paesi avanzati è scesa dal 56% del 2001 al 53,7% del 2006 (1).

Secondo il FMI, nel suo ultimo World Economic Outlook, negli ultimi 25 anni la combinazione tra globalizzazione e progresso tecnologico ha comportato - nell’Occidente industrializzato più il Giappone - una riduzione di circa 7 punti della quota del lavoro sulla ricchezza nazionale. Nel 1980, il lavoro (dipendente e autonomo) rappresentava una quota pari al 63,34% del Pil. Nel 2005, questa quyota è scesa al 61,52%: i lavoratori, secondo l’economista del Mit di Boston, Olivier Blanchard, hanno perso, nei fatti, quanto aveva guadagnato nel dopoguerra. Il FMI non dà le statistiche nazionali, ma disaggregando i dati forniti dall’Outlook - sostiene l’articolista della Repubblica citata - si avrebbe questo quadro: nei paesi anglosassoni la perdita dei lavoratori  equivarrebbe a tre-quattro punti del Pil, mentre il grosso della caduta si avrebbe nell’Europa continentale, nel cuore della tradizione socialdemocratica e del welfare state postguerra; qui la quota dei salari sul Pil è crollata di 10 punti in soli 25 anni! Nel 1980 il peso dei salari dei lavoratori europei  corrispondeva a quasi tre quarti del Pil, il 73,09%. Oggi, meno di due terzi, il 63,62%. E la tendenza è in progressiva diminuzione.

Ciò significa che, al di là delle manovre di maquillage politico che mettono in pratica i vari governi che si succedono al potere, è la struttura stessa dell’economia capitalistica ad imprimere la tendenza a schiacciare il monte salari per bilanciare la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Se da un lato aumenta la concorrenza sul mercato internazionale tra capitalisti, tra Stati, fra trust e miltinazionali, e quindi aumenta l’espansione del capitalismo anche nei paesi ad economia prevalentemente agricola in cui vengono sradicate violentemente e in modo accelerato enormi masse contadine dalla terra per essere gettate sul «libero mercato del lavoro», dall’altro aumenta appunto la massa di proletari, di braccia a disposizione del capitale per il loro sfruttamento. Solo Cina, India e Russia insieme rappresentano circa 1,5 miliardi di lavoratori salariati in aggiunta sul mercato globale. Il mondo si proletarizza sempre più - come previsto dal marxismo più di 150 anni fa - ma, in assenza di movimento autonomo di classe del proletariato, il fenomeno della più vasta proletarizzazione va ad aumentare la concorrenza tra proletari e quindi va tutta a vantaggio del capitale che va accrescendo l’appropriazione dell’enorme ricchezza sociale globale prodotta. Secondo il FMI, considerando solo gli addetti di aziende interessate all’import-export, la forza lavoro globale nel giro di vent’anni è quadruplicata; la progressiva semplificazione dei processi lavorativi permette, in buona parte, l’immissione nella produzione globalizzata di forza lavoro anche non particolarmente qualificata il che permette alle aziende che delocalizzano la propria produzione di aumentare la concorrenza tra proletari die paesi avanzati e proletari dei paesi arretrati.

Non c’è dubbio che il progresso tecnologico abbia impresso alla produzione e alla distribuzione uno sviluppo notevole in termini di quantità di merci prodotte nella stessa unità di tempo; e, nella stessa unità di tempo è aumentata la quantità di operazioni possibili. Basti pensare alla velocità impressa alle informazioni e alle comunicazioni attraverso la telefonia e il mezzo internet, per comprendere quanto tempo guadagna la circolazione dei capitali e delle merci. E il tempo, per il capitale, è denaro, e il denaro è la sua vita.

Dall’aumento della produttività, e dalla diminuzione del tempo, e in parte della fatica, per fabbricare e far circolare l’enorme quantità di merci prodotta, ne sta beneficiando esclusivamente e sempre di più solo il capitale e le classi che lo rappresentano: la borghesia, i proprietari fondiari, e il codazzo di servi piccoloborghesi che costituiscono la rete del commercio, dell’intelligentsija, del clero, della malavita, dell’amministrazione pubblica, della giustizia, insomma quella vasta e variegata rete di persone dedite alla difesa morale, pratica e violenta della proprietà privata.

Il proletariato, la massa enorme dei lavoratori salariati che, come dimostrano gli stessi borghesi, aumenta sempre più nel mondo, fa la parte della bestia da soma alla quale si dà quel che necessita per sopravvivere e per riprodurre giorno dopo giorno quella particolare risorsa così utile, e vitale, per il capitale: la forza lavoro!

Il capitale si nutre di plusvalore, e lo trasforma in profitto capitalistico. Il plusvalore è quella quota di tempo di lavoro non pagato del salariato di cui il capitalista si appropria; e se ne appropria solo in forza del dominio politico e sociale della classe di cui fa parte, della classe borghese. E’ questo dominio politico e sociale, fondato sulla struttura economica capitalistica - rivoluzionaria nei confrotni del feudalesimo, reazionaria nei confronti del comunismo - che costituisce il nodo cruciale della vita sociale dell’intera specie umana.

Come la società schiavista ha fatto il suo tempo ed è stata distrutta e sopravanzata dalla società feudale, e come la società feudale ha fatto il suo tempo ed è stata distrutta e sopravanzata dalla società capitalistica, così anche la società capitalistica - compiute le fasi rivoluzionaria e riformista -  ha fatto il suo tempo: non ha più nulla da dare alla specie umana. Tutto ciò che di rivoluzionario poteva attuare l’ha fatto, espandendo il dominio del capitalismo in tutto il mondo. La globalizzazione di cui parlano da anni gli economisti di tutti i paesi non è che l’estensione del mercato capitalistico a livello mondiale, tendenza non nuova ma congenita alla stessa economia capitalistica fin dalle sue origini; ed è perciò che il marxismo l’aveva fin dalle sue origini prevista.

L’economia capitalistica è l’economia predominante in tutto il mondo, anche là dove - e non sono poche le lande arretrate - si soffre la mancanza di sviluppo economico. La vita della stragrande maggioranza degli uomini dipende dall’economia capitalistica, dal suo andamento e dalle sue crisi, dalla lotta di concorrenza su ogni mercato, dalla violenza che spriona ogni suo atto, ogni suo movimento. Quale futuro può assicurare alla specie umana una società che ha votato ogni sua forza, ogni sua energia, ogni cellula vivente a produrre e riprodurre capitale, fonte di miseria crescente, di violenza dilagante, di spreco gigantesco di ogni tipo di risorsa, da quelle ambientali a quelle  umane?

La borghesia, come dimostrano le sue stesse statistiche, è impotente di fronte alle leggi del mercato capitalistico; è impotente di fronte alle esigenze della produzione e riproduzione di capitale, questo vero dominatore della società al cui cospetto la stessa borghesia non può che inchinarsi perché è la classe sociale che lo rappresenta e col suo dominio politico lo difende, lo conserva, ne assicura la sopravvivenza.

Ma la sopravvivenza del capitale, e quindi della stessa borghesia come classe dominante, non è garantita soltanto dalla stessa borghesia, dalla sua intelligenza e dalla sua esperienza di potere. Vi contribuiscono anche tutte quelle forze che mediano la conciliazione fra le classi, dall’opportunismo sindacale e politico di marca «operaia» alle tendenze pacifiste, ambientaliste, dell’umanitarismo, dalla chiesa al democratismo delle più diverse scuole. E vi contribuisce la fitta rete del malaffare e della malavita che parassitariamente vivono di una illegalità che è congenita alla sovrastruttura del potere e alle sue istituzioni.

Una sola forza sociale, però, ha la possibilità di interrompere i cicli distruttivi dello sviluppo capitalistico e sostituirli con l’impianto di una nuova società e una nuova economia: la classe del proletariato, la classe dei senza riserve, quella classe dalla quale il capitale estorce il plusvalore per sviluppare se stesso e, nello stesso tempo, per rafforzare il proprio dominio sull’intera società.

La classe del proletariato nel corso storico del suo sviluppo e del suo movimento ha dimostrato che la forza rivoluzionaria potenziale che possiede può diventare cinetica, reale, e quindi agire per cambiare completamente la società, solo se alla forza del numero - essa rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione in ogni paese del mondo, come le stesse statistiche borghesi affermano - si accompagna la forza del programma rivoluzionario; solo se il programma rivoluzionario rappresentato dal partito di classe (e dalla teoria marxista) permea il movimento proletario di resistenza al capitale, influenza i settori decisivi della classe proletaria guidandoli nella lotta di classe e nella rivoluzione comunista.

I fatti materiali del corso del capitalismo dimostrano che l’economia attuale ha sviluppato a tal punto la produttività del lavoro da non aver assolutamente bisogno di uno sviluppo ulteriore della produttività, utile invece esclusivamente alla lotta di concorrenza capitalistica. Il fatto stesso che il capitalismo va incontro ormai da tempo solo a crisi di sovraproduzione - crisi che gli Stati capitalisti affrontano sempre più spesso con le guerre guerreggiate e con distruzioni di beni sempre più massicce - dimostra che il capitalismo non ha più alcun progresso nè economico nè politico nè sociale da offrire alla specie umana: esso produce per distruggere, distrugge per produrre e ridistruggere ancora in una spirale senza fine. Il fine della produzione capitalistica non è la produzione di beni che servano a soddisfare i biosgni della specie umana, ma la produzione di merci, ossia di valori di scambio e non ha alcuna importanza se non soddisfano i bisogni della specie umana poichè essi devono soddisfare i bisogni della valorizzazione del capitale, insomma i bisogni del mercato capitalistico; tali valori di scambio sono il mezzo, il veicolo per concretizzare il guadagno capitalistico, il profitto. Togliete il valore di scambio dai beni prodotti e avrete tolto il motivo d’esistenza del capitalismo.

La sopravvivenza del capitalismo, di questa economia della sciagura, della miseria crescente, della violenza sprigionata da ogni suo poro, in realtà dipende anche dalla lotta di classe del proletariato.

Se la lotta di classe del proletariato è assente, come ormai da troppo tempo si verifica, il capitalismo non trova ostacoli se non nel suo stesso sviluppo, e li supera con metodi e misure borghesi: distruggendo merci e capitali in sovrabbondanza attraverso le guerre, riducendo in schiavitù popolazioni intere e sfruttandole fino all’ultima goccia di sangue, schiacciando il proletariato in condizioni di pura sopravvivenza quotidiana, limitando di tanto in tanto la propria sete di profitto per ripartire a determinati strati della popolazione qualche briciola in più; il tutto in attesa che la crisi passi e si riprenda la corsa sfrenata al profitto. Ma se il proletariato non lotta sul terreno di classe non significa che sia assente anche la borghesia. La borghesia non è mai assente dalla lotta contro le classi proletarie; per estorcere il plusvalore dal tempo di lavoro dei salariati, la borghesia è in continua lotta poiché ogni azienda non è un’isola felice, ma è inserita nel mare magnum del mercato in cui si incontrano e si scontrano tutte le aziende capitalistiche in una lotta di concorrenza che non smette mai.

Perciò i capitalisti sono interessati, spinti e costretti ad ottenere dallo sfruttamento del lavoro salariato il massimo di produttività possibile, perché la produttività del lavoro è l’unico vero metro di misura del guadagno del capitalista. Aumento della produttività significa aumento della quota potenziale di plusvalore da estorcere dal lavoro salariato di ogni singolo lavoratore. E questo aumento il capitalista lo può ottenere in diverse maniere: aumentando le ore di lavoro a parità di salario erogato, aumentando la quota di salario in nero, aumentando il numero di lavoratori pagati meno, aumentando i ritmi e i carichi di lavoro per ciascun operaio, aumentando la produzione nella stessa unità di tempo grazie alle innovazioni tecniche, non pagando o diminuendo al massimo le contribuzioni per malattia, infortuni, pensioni, allungando il tempo di utilizzo dei macchinari e diminuendo i costi di manutanzione e delle misure di sicurezza, sostituendo i lavoratori fissi con lavoratori precari e a salario più basso, sfruttando forza lavoro clandestina,  e mille altre strade legali e illegali.

I proletari che cosa possono fare per arginare questa enorme pressione sulle loro condizioni di vita e di lavoro? Devono lottare, devono necessariamente ribellarsi a condizioni che peggiorano progressivamente sempre più. Ma come? Con quali mezzi e con quali metodi?  

Con i mezzi e i metodi della lotta di classe, finalmente accettata a viso aperto; quella lotta che la classe borghese non smette mai di fare contro il proletariato deve trovare una risposta sullo stesso terreno antagonistico, e la risposta è: lotta di classe indipendente, autonoma, a difesa esclusivamente degli interessi immediati proletari!

E’ ovvio che nei tentativi che i proletari hanno fatto, fanno e faranno per organizzarsi in questa lotta hanno trovato, trovano e troveranno mille difficoltà. Si troveranno contro non solo i capitalisti e i loro sgherri, in giacca e cravatta, in tonaca o in divisa; si troveranno contro tutta quella schiera di opportunisti che hanno dedicato la loro vita - e per questo vengono pagati profumatamente - a conciliare gli interessi proletari con gli interessi borghesi, ma a beneficio di quelli borghesi; si troveranno contro tutta quella schiera di conservatori e reazionari pronti a difendere patria, democrazia, pace sociale e diritti civili, ma pronti a trasformarsi in cani ringhiosi da guardia della conservazione borghese quando il proletariato alza finalmente la testa e si muove in difesa soltanto del suo diritto a vivere, a dar da magiare alla propria famiglia, a dare un tetto e da vestire ai propri figli, in difesa del suo diritto a non morire di fatica, di miseria, di fame.

I proletari devono sapere che non basta unire le proprie forze per ottenere un risultato positivo. Gli scioperi, le manifestazioni, le adunanze oceaniche non sono mancati in tutti questi anni. Ma, a che cosa sono serviti se i loro salari perdono costantemente potere d’acquisto, se il tasso di sfruttamento del lavoro salariato invece di diminuire continua ad aumentare, se la garanzia di vita anche dopo la fine del ciclo attivo di lavoro è sempre più negata, se le generazioni più giovani e future sono sempre più destinate ad una vita precaria, insicura, di miseria e di fame?

Essi devono unire le proprie forze sul terreno della lotta di classe e organizzarsi su questo terreno intorno ad obiettivi di classe, ossia fuori dalle compatibilità con l’andamento dell’economia aziendale o nazionale. Unire le forze in associazioni di difesa immediata che mettano nel proprio programma, nella propria piattaforma di lotta obiettivi come: drastica diminuzione della giornata lavorativa a parità di salario! - aumento di salario più alto per le categorie peggio pagate! - salari uguali per uguali mansioni, uomini o donne, indigeni o stranieri! - no al lavoro nero e clandestino!

Essi devono organizzarsi in associazioni che si impegnano, per statuto, ad utilizzare i mezzi della lotta di classe che sono tutti quelli che, per il loro uso, non dipendono da una precostituita sudditanza alla conciliazione di classe, alla pace sociale e al burocratismo dei sindacati tricolore. E’ inevitabile, in certe situazioni, in cui la rabbia proletaria scoppia improvvisa, che il movimento di protesta e di ribellione sfoci in atti violenti; di per sé l’atto violento non è il paradigma di ogni agire del movimento operaio, e in genere se si trasforma in atti di vandalismo gratuito è contrario all’interesse più generale della lotta proletaria. Ma la sopraffazione, la vessazione, lo sfruttamento sfrenato della forza lavoro è violenza sistematica della borghesia nei confronti del proletariato, una violenza in parte tollerata e difesa dalle stesse istituzioni borghesi; perciò i casi in cui proletari, nella spinta ribellistica, si lascino andare ad atti di violenza personale o anche gratutita non sono che logiche risposte ad una violenza sociale che colpisce tutti i giorni per una vita intera e che talvolta, invece di dirigersi verso i familiari o i vicini si rivolgono verso quelli che possono essere scambiati per simboli del potere, simboli di forze non bene identificate ma che vengono considerate parte del regime di violenza generalizzato sotto il quale si conduce una vita grama.

La lotta di classe è ben altro, ed ha un respiro ed obiettivi ben più ambiziosi. Con la lotta di classe è la classe del proletariato che si pone sulla scena con tutta la sua pressione grazie alla quale capovolgere i rapporti di forza fra le classi a proprio favore. Sarà una lotta durissima, perchè la classe borghese non intenderà mai - sebbene rappresenti una stretta minoranza della popolazione - dimettersi dal potere; il potere che ha ancora saldamente in mano non lo lascerà per nessuna ragione al mondo perchè da questo potere essa trae tutti i benefici e i privilegi di classe per i quali lotta con tutti i mezzi - legali, illegali, pacifici, democratici e violenti - contro qualsiasi forza sociale (e nell’epoca moderna questa forza sociale è rappresentata soprattutto dal proletariato) li voglia limitare se non, addirittura, eliminare.

La lotta di classe del proletariato storicamente ha già mostrato quale potenza è racchiusa nel movimento del proletariato: nella misura in cui questo movimento è diretto in modo conseguente con gli obiettivi storici dell’emancipazione del proletariato dall’oppressione capitalistica, la potenza della classe proletaria spaventa tutte le borghesie del mondo, spingendole ad interrompere la loro lotta di concorrenza per unirsi e battersi con tutti i mezzi contro il proletariato, tanto più se quest’ultimo, come a Parigi nel 1871 e a Mosca nel 1917, ha preso il potere e lo usa nella prospettiva dell’impianto di una nuova società basata non più sulla produzione e riproduzione del capitale, non più sul denaro e il mercato, non più, quindi, sullo sfruttamento del lavoro salariato, ma sulla soddisfazione dei bisogni reali della specie umana.

Nessun borghese è in grado di comprendere quel che i comunardi del 1871 e i proletari russi del 1917 avevano compreso attraverso la loro lotta: che è possibile finirla con la borghesia e con l’economia capitalistica, e aprire la società degli uomini ad un futuro in cui sopraffazione, violenza, guerra non hanno più ragione di esistere. Ma per giungere a quel fine è necessario passare attraverso la lotta di classe e la rivoluzione dei proletari in tutto il mondo. Anche se oggi gli stessi proletari, rincretiniti fino all’ultima cellula del cervello dalla democrazia e dalla rassegnazione, non si riconoscono in questo futuro, saranno proprio loro, e i loro figli, guidati dal loro partito di classe, a diventare protagonisti di una gigantesca rivoluzione grazie alla quale cambierà completamente la società umana. E allora le statistiche borghesi del FMI o della Banca Mondiale non serviranno più a nulla perchè la dimostrazione della realtà di classe la si troverà sul terreno: sul terreno della lotta di classe saranno allora gli scarponi proletari a battere il tempo della rivoluzione!

    


 

(1) Cfr. la Repubblica, 28.4.2007. 

 

Partito comunista internazionale

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