L’unica alternativa storica: guerra capitalistica mondiale o rivoluzione proletaria e comunista !

(«il comunista»; N° 105-106; Luglio / Ottobre 2007)

 

 

La profondità della controrivoluzione con cui il capitalismo mondiale si è assicurato un  lungo periodo di assenza del proletariato rivoluzionario dalla scena storica non lo mette al riparo da crescenti  contraddizioni che, prima o poi, esploderanno in una nuova guerra generale fra Stati riportando in primo piano l’unica alternativa storica: guerra capitalistica mondiale o rivoluzione proletaria e comunista.

Perché parliamo ancora di controrivoluzione quando le classi dominanti borghesi, da decenni, in nessun paese al mondo sono minacciate dalla rivoluzione proletaria?

Perché la borghesia, per sopravvivere come classe dominante, e mantenere il potere politico che le permette di continuare ad appropriarsi la ricchezza sociale prodotta sotto ogni cielo, deve accrescere sempre più la sua pressione economica e la sua oppressione politica e sociale al fine di sfruttare sistematicamente il proletariato di tutti i paesi, superindustrializzati o superarretrati, e la maggioranza dei popoli del mondo. L’attitudine politica e sociale che nel corso del suo sviluppo storico come classe dominante ha sviluppato, e in base alle esperienze già passate nei rari ma profondamente significativi svolti storici in cui il proletariato rivoluzionario ha dimostrato di avere la possibilità reale di scalzarla definitivamente dal potere - vedi Comune di Parigi 1871, Rivoluzione d’Ottobre 1917 -, porta la borghesia ad agire, con una sorta di spontaneità, sulla linea di una sua invarianza controrivoluzionaria. La sua «coscienza di classe» le dice che se c’è, o ci sarà, un pericolo per il suo potere, questo pericolo non è rappresentato dalla piccola borghesia o dai contadini, ma può arrivare soltanto ed esclusivamente dalla classe del proletariato.

Ma, oggi, il proletariato, rappresenta davvero una minaccia per la borghesia? In quale paese?

In nessun paese, oggi, il proletariato costituisce una minaccia per il potere borghese. Non per questo la borghesia dorme sonni tranquilli perché teme quel che può avvenire un domani. Perciò, seguendo il famoso motto: meglio prevenire che curare, sulla base della sua stessa esperienza più che centenaria di dominio sociale e politico, la classe borghese dominante ha messo in opera una strategia che potremmo chiamare di controrivoluzione preventiva.

Dalla fine della seconda guerra imperialistica mondiale sono passati più di sessant’anni; in questo periodo non vi è stato alcun episodio della lotta proletaria, alla scala mondiale, che abbia impensierito seriamente le classi dominanti borghesi.

Il proletariato dei paesi capitalisticamente avanzati, una volta resosi complice nella difesa degli interessi nazionali - negli Stati fascisti come in quelli democratici - grazie all’indispensabile opera delle forze opportuniste dello stalinismo e dei suoi derivati, è stato praticamente eliminato, come classe, dalla scena politica. La lotta del proletariato contro la borghesia è stata ridotta a livello della sopravvivenza quotidiana, livello nel quale primeggiano - come sempre  - le forze dell’interclassismo, dell’opportunismo, della collaborazione fra le classi. Nei paesi a capitalismo avanzato la corruzione borghese ha riguardato, e riguarda, non solo la famosa fin dai tempi di Marx ed Engel aristocrazia operaia, ma strati molto vasti di proletariato. Questa corruzione - linfa vitale di tutte le forze dell’opportunismo - consiste nella distribuzione di alcune «garanzie» ai lavoratori salariati in termini di salari, malattia, licenziamenti, pensioni, ecc., introdotte per primo dal fascismo ed ereditate in toto dai regimi democratici «antifascisti». Ma, come avvertivano Engels e Marx, i vantaggi che la classe borghese concede alla propria classe operaia non derivano soltanto dalle lotte economiche che i proletari - organizzati in associazioni sindacali - fanno per ottenere dei miglioramenti alle loro condizioni di lavoro e di vita, ma derivano anche dallo sfruttamento bestiale delle popolazioni coloniali, dal crescente sviluppo monopolistico dei paesi ad economia capitalistica avanzata, dall’aumento vertiginoso del militarismo attraverso il quale le potenze più forti al mondo sottomettono tutti gli altri paesi e gli altri popoli del mondo; in una parola, dal crescente imperialismo dei paesi capitalistici.   

Lo sviluppo delle condizioni economiche, sociali e politiche del capitalismo aveva prodotto, nel primo periodo del secolo scorso, un processo di maturazione delle contraddizioni che andò ad incrociare lo sviluppo delle forze del proletariato sia sul terreno delle lotte economiche di difesa immediata, sia sul terreno della lotta politica e rivoluzionaria per la conquista del potere politico. Quell’apice, rappresentato magnificamente dalla vittoria bolscevica dell’Ottobre 1917, dalla fondazione dell’Internazionale Comunista come partito comunista mondiale, e dalla vittoria nella tremenda guerra civile russa in cui tutte le maggiori potenze imperialiste del mondo, alleate alle forze della reazione zarista, tentarono di restaurare il dominio borghese in Russia, quell’apice costituiva il primo bastione vittorioso di una rivoluzione proletaria e comunista europea e mondiale. La vicenda storica non fu favorevole alla rivoluzione europea e internazionale, e la vittoria rivoluzionaria  fu bloccata al suo primo bastione russo; gravavano sui partiti comunisti europei appena formati pesanti eredità riformiste e democratiche a tal punto che, nonostante la pluriennale spinta proletaria alla lotta rivoluzionaria - ne fu splendido esempio, uno per tutti, il proletariato tedesco -, il movimento operaio e comunista in occidente non riuscì ad unire le proprie forze a quelle del proletariato russo in modo da stroncare la tenace resistenza delle forze della conservazione borghese e costituire un unico gigantesco esercito rivoluzionario.

L’affermazione del proletariato rivoluzionario, sintetizzata nella fondazione dell’Internazionale Comunista, durò qualche anno, ma fu sufficiente per terrorizzare profondamente le classi borghesi di tutto il mondo, e per generazioni. L’alternativa, chiarissima per il partito comunista, ma altrettanto chiara per la classe dominante borghese, era: dittatura dell’imperialismo capitalista o dittatura proletaria e comunista. Non c’erano terze vie.

Nel periodo rivoluzionario apertosi con la guerra imperialista mondiale del 1914, con la rivoluzione del 1917 in Russia, con i tentativi rivoluzionari in Germania, Ungheria, Polonia, alla fine non vinse la classe del proletariato ma la borghesia. La risposta borghese non fu soltanto democratico-reazionaria, come dopo la Comune di Parigi; nel corso del suo sviluppo politico e sociale la borghesia trovò una risposta più incisiva tesa ad annientare un proletariato  dimostratosi in grado di vincerla e di conquistare potenzialmente il potere politico anche nei paesi capitalisti più avanzati, ma ormai deviato e piegato da anni di opportunismo socialdemocratico: il fascismo. Il fascismo, ossia il metodo centralistico per eccellenza, apertamente dittatoriale e antiproletario, come risposta controrivoluzionaria e, nello stesso tempo, come prototipo di un nuovo  modo di governare nella fase di pieno imperialismo, come superamento della struttura democratico-liberale.

Il proletariato, una volta che il riformismo svolse fino in fondo il suo compito di intossicazione democratica, di disorganizzazione delle forze di classe, di deviazione delle energie proletarie potenzialmente rivoluzionarie, fu dato in pasto al fascismo e, per conseguenza dialettica, al suo alter ego, l’antifascismo democratico.

«Nel periodo immediatamente seguente alla prima guerra mondiale – scrivevamo nel 1946 – il processo di accrescimento delle forze proletarie, prima contenuto e immaturo ideologicamente e organizzativamente, avvia concretamente, attraverso la costituzione e l’azione dell’Internazionale e dei partiti comunisti, la soluzione rivoluzionaria dei contrasti sviluppatisi nel sistema di produzione capitalistico. Il partito del proletariato, in coerenza alla sua concezione della lotta di classe, alla sua intransigenza rivoluzionaria e alla esatta impostazione dei rapporti tra situazioni oggettive e interventi soggettivi, adotta per primo una struttura organizzativa militare nella lotta politica. La borghesia intuisce che in questo senso deve svilupparsi anche la sua azione e ritorce contro il proletariato, moltiplicandola in mezzi e in capacità, l’arma che questi aveva applicato allo sviluppo storico. L’affermazione degli Stati fascisti segna esplicitamente questa fase e non  ha importanza alcuna il fatto che le borghesie più forti abbiano evitato il ricorso a questi estremi di difesa limitando la loro reazione in rapporto alle ridotte possibilità rivoluzionarie presentate dalla situazione. Il principio organizzativo passava automaticamente nelle mani della classe dirigente d’ogni paese e premeva sul proletariato con altrettanta efficacia di quella dei paesi fascisti» (1).

Il pericolo corso dalle classi borghesi dominanti era stato talmente grave che il proletariato doveva essere eliminato come classe, doveva essere decapitato del suo partito di classe, e a questo si è giunti sia negli Stati fascisti che negli Stati democratici e nella stessa Russia dove il potere proletario rivoluzionario venne alla fine soffocato e sostituito dal potere borghese che il giovane e violento capitalismo nazionale instaurò passando attraverso la degenerazione del partito bolscevico.

Sconfitta, negli anni Venti del secolo scorso, la rivoluzione proletaria in Occidente, e soffocata la rivoluzione bolscevica in Russia sotto il peso del nazionalismo stalinista, il proletariato mondiale è stato ricacciato indietro di parecchi ventenni.

Diverse sono le lezioni che il movimento comunista deve tirare dalla sconfitta della rivoluzione proletaria. Se, come afferma Marx nei suoi scritti del 1848, «anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario» (2), vuol dire che dalla vittoria della controrivoluzione, quindi dalla sconfitta della rivoluzione proletaria, si deve imparare molto di più che dalle vittorie del proletariato.

Una prima lezione, che ha tirato la nostra corrente di Sinistra comunista, consiste nel comprendere che si deve rigettare del tutto la rivendicazione della democrazia sia in funzione «antifascista», sia come condizione «più favorevole» perché il proletariato trasformi il suo movimento sociale in movimento rivoluzionario. Sono proprio il principio democratico e il metodo politico democratico le armi più efficaci, e di più lungo utilizzo, che la classe borghese dominante ha da sempre usato, e usa, nella sua lotta per mantenere la classe del proletariato nelle condizioni di schiavitù salariale.

La democrazia borghese, superato il periodo della rivoluzione antifeudale, è infatti l’espressione più caratteristica della lotta che la classe borghese attua per la  migliore difesa dei suoi interessi contro la classe del proletariato (Lenin, Stato e rivoluzione), non solo perché attraverso la democrazia essa riesce ad ingannare meglio i proletari (coi falsi ideologici, e pratici, dell’eguaglianza, della libertà, della comunanza di interessi), ma anche e soprattutto perché riesce a coinvolgere i proletari nei meccanismi di gestione del potere politico, attraverso le elezioni, il parlamento, e la miriade di istituti periferici attraverso i quali fa passare la propaganda di una «giustizia sociale» che «solo attraverso la partecipazione democratica di tutti» si può ottenere. Gli Stati democratici, e «antifascisti», hanno ottenuto la piena sottomissione del proletariato, non solo attraverso le proprie leve corruttrici sul piano economico e sociale, ma soprattutto attraverso i partiti socialisti e comunisti traditori che hanno deviato sistematicamente le energie di classe proletarie sul terreno della collaborazione interclassista e dell’interesse nazionale.

Sarebbe sbagliato, però, credere che con il fascismo la borghesia dominante non abbia tentato di fare la stessa cosa. Infatti, l’eliminazione del proletariato come classe (quindi come soggetto di storia con propri fini, proprio programma, propri organi politici), il  fascismo l’ha ottenuta  non solo con le violenze e le uccisioni delle sue squadracce in tempi di democrazia imperante, ma soprattutto, una volta preso in mano il potere e lo Stato, andando verso il popolo con gli ordinamenti corporativi e con l’impianto della serie di ammortizzatori sociali che ricordavamo più sopra.

Nello stadio dell’imperialismo, dunque,  il capitalismo tende non solo a concentrare e centralizzare monopolisticamente l’economia, dando vita a giganteschi trusts (o multinazionali che dir si voglia) che travalicano i confini dei paesi d’origine per diventare vere e proprie potenze trasversali all’interno di ogni  paese in cui agiscono, con proprie ramificazioni e proprie organizzazioni politiche, culturali, religiose, militari, ma tende anche a far sì che le sovrastrutture politiche statali corrispondano con sempre più aderenza alle proprie esigenze di difesa di interessi che sono sempre più planetari. Alle alleanze o agli urti di concorrenza fra trusts, corrispondono sempre più alleanze o urti fra gli Stati che sorreggono il nucleo vitale di quei trusts. Si capisce come l’America di Bush, in profondo contrasto, anche se non visibile a tutti, con i trusts del petrolio concorrenti (russi, tedeschi e anche francesi) abbia mosso guerra all’Iraq di Saddam Hussein perché i propri interessi non corrispondevano con quelli dei concorrenti che in Iraq  stavano per mettere le proprie zampe su gigantesche riserve petrolifere. L’attentato alle Torri Gemelle di New York costituì il pretesto più azzeccato per giustificare la guerra non solo in Afghanistan ma soprattutto in Iraq. Le mani sul petrolio irakeno ce le mettono i trusts americani, sorretti dalla potenza militare dello Stato USA, mentre gli «alleati» attendono che nella ripartizione del bottino  qualcosa giunga anche a loro; nello stesso tempo, dato che i contrasti interimperialisti a scala mondiale non hanno raggiunto ancora il livello di tensione che provoca l’urto diretto fra le stesse potenze imperialiste, l’America ha coinvolto in una superalleanza imperialista i suoi maggiori concorrenti, chi direttamente nella guerra guerreggiata, chi indirettamente sul piano politico e diplomatico. Dopo la guerra scatenata in Jugoslavia contro la Serbia, dopo la prima guerra del Golfo «in difesa» del Kuwait, dopo la guerra di occupazione in Afghanistan, si è costituita un’altra larga alleanza fra potenze imperialiste per occupare l’Iraq. Questa guerra di rapina e di occupazione, che doveva terminare nel breve volgere di qualche mese, dura invece da più di 4 anni e la baldanza con cui l’America mostrava nel voler gestire la ripartizione del bottino con i suoi più fidati alleati si sta trasformando in un fallimento dal quale non le sarà facile uscire indenne. Ciò nonostante, l’alleanza inter-imperialista tiene. 

Se è vero, come è dimostrato dal corso  storico del capitalismo mondiale, che «le alleanze “inter-imperialiste” o “ultra-imperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste» (3), è anche vero che tali alleanze rispondono ai rapporti di forza tra le potenze imperialiste, rapporti di forza che però si modificano, «giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami d’industria, paesi, ecc.». Lenin faceva l’esempio della Germania e del Giappone di mezzo secolo prima confrontati con la potenza capitalista dell’Inghilterra. Oggi potremmo fare l’esempio dell’Inghilterra stessa rispetto agli Stati Uniti d’America, o della Russia per non parlare dell’emergente Cina.

«Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta» (4). L’unico e identico terreno di cui parla Lenin è quello della concorrenza mondiale fra Stati capitalisti che seguono dinamiche di sviluppo del tutto difformi e che portano alla formazione di alleanze e alla loro rottura secondo linee di interessi economici, finanziari, politici, militari, diplomatici che pesano sempre di più sulle politiche di ciascuno Stato. La contraddizione più acuta dello sviluppo del capitalismo, nei rapporti fra Stati, è determinata dall’ineguale sviluppo capitalistico nei diversi paesi, nei diversi territori economici in cui il pianeta è borghesemente suddiviso. Un ineguale sviluppo che attraversa periodi di pacifica concorrenza e periodi di guerra guerreggiata per la conquista di nuovi mercati e territori economici diventati maturi per essere ulteriormente sfruttati. Il terreno della concorrenza mondiale è allo stesso tempo il terreno della pace e della guerra capitaliste, è il solo terreno nel quale si formano e si disfano le allenaze fra imperialismi.

L’instabilità perenne dei rapporti di forza fra le potenze imperialiste, e dei rapporti di forza fra loro e il resto del mondo, trova perfetto riscontro nelle continue oscillazioni del mercato, non solo quello dei prodotti, ma soprattutto quello finanziario dove la valorizzazione dei capitali può ampliarsi e ingigantirsi o volatilizzarsi con estrema facilità a seconda della tenuta o meno di determinati rapporti di forza fra trusts, fra singole imprese, fra rami d’industria, fra Stati.

In questo aggrovigliato gioco di interessi capitalistici, le classi borghesi dominanti assumono come compito politico fondamentale quello di agire sempre più come classe, quindi come rete di interessi generali, al fine di mantenere e difendere il potere politico e, a seconda del grado di antagonismo e di tensione nei rapporti fra le classi, predisporsi ad utilizzare qualsiasi mezzo - legale o illegale, democratico o fascista - per ottenere il più ampio consenso interno, la più ampia stabilità interna.

Perciò, al di là del tipo di alleanza che l’imperialismo di casa nostra si propone di fare, di cambiare o di mantenere, restano  obiettivi permanenti di ogni classe borghese dominante: 1) eliminare la minaccia classista del proletariato, 2) convogliare la maggioranza del proletariato sul terreno della classe borghese, sul terreno della difesa degli interessi borghesi.

Per ottenere il primo obiettivo la borghesia ha usato con grande abilità sia la democrazia che il fascismo, e in Russia - dove aveva da fare i conti con una rivoluzione proletaria vittoriosa e gravida di ulteriori vittorie in Europa - lo stalinismo, ossia la nuova forma di opportunismo che utilizzò a piene mani sia concetti, terminologia, atteggiamenti marxisti falsandone i contenuti e le finalizzazioni, che la repressione terroristica e statale. La degenerazione dell’Internazionale Comunista, del partito bolscevico e di tutti i partiti dell’Internazionale Comunista corrispose nei fatti a decapitare del suo partito di classe il proletariato mondiale; alla corruzione ideologica borghese del partito di classe seguì la persecuzione e l’eliminazione fisica dei militanti più tenacemente resistenti sulla linea diritta del marxismo e della rivoluzione mondiale. Le classi borghesi dominanti di tutto il mondo non possono che felicitarsi con lo stalinismo e i suoi derivati, perché senza la loro opera costante di sviamento, inganno, terrorismo e repressione difficilmente avrebbe ottenuto come risultato così duraturo l’eliminazione del proletariato come classe attiva dalla scena politica mondiale.

Per ottenere il secondo obiettivo la borghesia non doveva fare altro che affidarsi alla sua lunga esperienza di dominio sulla società e, anche qui, utilizzare a tutto campo tutte le tendenze opportuniste che sorgevano e sorgono dallo sviluppo stesso della sua economia e dei contrasti sociali che ne derivano. Abbattuti i regimi fascisti, ereditati i metodi di collaborazione di classe del fascismo e le sue misure sociali, alla borghesia democratica «antifascista» non restava che  continuare a nutrire il proletariato con la propaganda delle proprie superstizioni classiche: elezioni e parlamentarismo, mescolate con una «democrazia economica» che facilitasse l’imprenditorialità individuale (così cara ad ogni piccolo borghese), sviluppando in questo modo gli strati di piccola borghesia così utili alla conservazione sociale e come veicolo di influenza interclassista sul proletariato.

La classe borghese dominante ha potuto perciò permettersi di avere parlamenti dove i partiti «di sinistra» fossero rappresentati con un numero considerevole di parlamentari, pur mantenendo ben lubrificati i meccanismi di potere esterni al parlamento e ben più decisivi per gli interessi borghesi generali. Sullo stesso solco, la borghesia si è permessa governi di ogni tipo, nelle cui formazioni si potevano trovare partiti di estrema destra o di estrema sinistra, e non solo in paesi a tradizione democratica bipolare (conservatori e laburisti), ma anche in paesi come l’Italia dove resiste ancor oggi la tradizione provinciale e campanilistica che produce continuamente piccoli partiti su basi estremamente particolaristiche.

E il proletariato?

Ha continuato ad andare a votare, in massa, convinto che la via parlamentare indicata dalla borghesia fosse, e sia, la via più efficace attraverso la quale raggiungere miglioramenti nelle sue condizioni di vita e di lavoro.

Che i proletari siano stati ingannati dai partiti falsamente socialisti e comunisti è un fatto storico indiscutibile. Per anni, dopo la debacle dell’Internazionale Comunista, e la vittoria dei fascismi, i proletari hanno creduto a quanto i partiti opportunisti andavano loro propagandando, e cioè che senza la riconquista della democrazia non avrebbero avuto alcuna possibilità rivoluzionaria. La partecipazione proletaria alla resistenza «antifascista» e alla guerra borghese «per la democrazia» è la conferma che l’inganno stalinista era passato, che i proletari hanno creduto alla «necessità» di riguadagnare il terreno della democrazia per avviarsi alla propria rivoluzione; che i proletari hanno creduto che il mondo fosse veramente diviso tra un «campo socialista» con a capo la Russia e un «campo capitalista» con a capo l’America. Le sollevazioni proletarie a Berlino 1953, a Budapest 1956, e la denuncia dei misfatti e dei crimini di Stalin e dello stalinismo fecero vacillare non poco quelle convinzioni. La «rivoluzione» stava allontanandosi sempre più dall’orizzonte dei proletari dei paesi occidentali, nei quali, d’altra parte, la ripresa economica postbellica permetteva alle borghesie dominanti di fare concessioni che un tempo non avrebbe mai fatto o potuto fare. La forte sindacalizzazione, con sindacati «temuti» dai padroni - ma in realtà contingui, collaborazionisti e sempre più integrati nelle strutture statali - dava la sensazione ai proletari di possedere un potere contrattuale molto più incisivo di quanto non fosse nella realtà. La prospettiva di un benessere finalmente visibile, di posti di lavoro che duravano una vita intera, di una casa di proprietà, di un «futuro lavorativo» per i propri figli, la presenza di sindacati che ottenevano delle concessioni dai padroni, e di partiti «operai» che si battevano in parlamento per i diritti di tutti e quindi anche degli operai, tutto concorreva a giustificare l’idea che i proletari avrebbero potuto ottenere una vita migliore senza bisogno di fare la rivoluzione: bastava fare le riforme che chiedevano i partiti «operai», e magari mandare al governo i partiti di sinistra, e tutto poteva svilupparsi senza guerre civili, del tutto pacificamente. La rivoluzione, semmai aveva una giustificazione per i paesi «incivili», per i paesi «sottosviluppati», per i popoli coloniali che agognavano a liberarsi dall’occupazione straniera. In Europa, in Occidente non era più tempo di rivoluzione...

L’inganno con il quale lo stalinismo riuscì a deviare il cammino di classe del proletariato aveva svolto il suo compito. Il proletariato occidentale, sebbene guardasse con simpatia i moti anticoloniali dei popoli di colore, non si mosse sul loro stesso terreno dello scontro violento ed armato con la propria borghesia colonialista, né appoggiò in modo deciso le loro lotte di liberazione (...che ogni popolo si liberasse «con le proprie forze»...); non approfittò delle difficoltà nelle quali le lotte anticoloniali mettevano la propria borghesia per attaccarla; se ne rimase praticamente fermo, e le sole manifestazioni di solidarietà con i fellah algerini, con i vietcong, con Lumunba o con la rivoluzione cubana furono di segno sostanzialmente pacifista e, naturalmente, romantico. La lunga stagione dei moti anticoloniali, in paesi dove per sopravvivere bisognava scappare o sopportare miseria, malattie di ogni genere, sopraffazioni e massacri, e milioni di contadini poveri e proletari  hanno «mosso guerra» alle potenze imperialiste più forti del mondo, non trovò nel proprio cammino di emancipazione dal colonialismo l’unica forza di classe al mondo che avrebbe potuto non solo accelerare il processo di emancipazione dal colonialismo di quei popoli, risparmiando loro immani sofferenze, ma anche innestare su di esso la propria lotta di classe e rivoluzionaria per l’emancipazione generale dal capitalismo: il proletariato dei paesi sviluppati.

Noi non dimentichiamo che la causa principale della mancanza di  attività e di lotta classista del proletariato occidentale va cercata nella defezione e nel tradimento dei partiti un tempo comunisti. Al tradimento dei partiti socialisti della II Internazionale che, di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, abbandonarono le posizioni del disfattismo rivoluzionario per abbracciare la difesa nazionale dello Stato della propria borghesia, si aggiunse il tradimento dei partiti comunisti della III Internazionale che, con la teorizzazione della «costruzione del socialismo in un solo paese», perdipiù arretratissimo come la Russia di allora, riaprirono la strada alla collaborazione con le classi borghesi di ogni paese del mondo e, in virtù di quella collaborazione, difesero strenuamente gli interessi nazionali della propria borghesia contro ogni altro interesse nazionale, fosse avanzato da una classe borghese dei paesi già capitalisticamente sviluppati o da una borghesia nazionalrivoluzionaria dei paesi coloniali che tentava di scrollarsi di dosso l’oppressione colonialista delle borghesie europee.

Ma, se la causa principale del tremendo arretramento del proletariato occidentale dal terreno della lotta rivoluzionaria la si deve cercare nei ripetuti tradimenti di partiti politici nati rivoluzionari e internazionalisti ma poi corrotti in nazionalisti democratici e collaborazionisti, non va nascosto il fatto che il proletariato occidentale ha nella propria storia ottant’anni di collaborazione interclassista praticata quotidianamente.

Caduto in un abisso del genere, il proletariato d’Occidente non riuscirà ad alzarsi e riprendere il suo posto nel cammino verso la rivoluzione anticapitalistica, semplicemente per mezzo di una «chiamata alle armi» di qualche sparuto gruppo di lottarmatisti incalliti, o per un atto di volontà generato dalla «presa di coscienza» dell’impossibilità da parte di questa società di progredire verso un domani di pace e di armonia sociale; tantomeno riuscirà a farlo in virtù di una pur intelligente attività di «illuminazione delle coscienze» da parte di gruppi politici che hanno fatto del fatalismo storico la loro dottrina, né, ancor meno, attraverso una specie di germinazione spontanea dalle sue lotte immediate di organi dirigenti la rivoluzione.

Il capitalismo, nel suo sviluppo irrefrenabile di contraddizioni e di contrasti sociali e interstatali, tende inesorabilmente verso una terza guerra mondiale. Per il capitalismo, per ogni classe borghese dominante, è vitale che all’appuntamento con la guerra tutte le forze sociali, e in particolare il proletariato, siano preparate ideologicamente e politicamente all’unione sacra in difesa di una patria che ogni borghesia nazionale considererà aggredita da forze straniere. Ed in questo rinnovato sforzo borghese, i partiti e tutte le forze sociali che influenzano e organizzano i proletari torneranno ad avere un ruolo decisivo, alla faccia di coloro che pensavano e pensano che il riformismo non aveva e non avrà più una presa determinante sul proletariato.

Come ci ricorda Lenin, la guerra non è una «scelta» della tale o tal altra potenza imperialista, o della tale o tal altra alleanza interimperialista. E’ lo sbocco inevitabile della lotta di concorrenza mondiale fra trusts, paesi, Stati, verso il quale sbocco è lo stesso modo di produzione capitalistico nel suo sviluppo estremo che dirige tutte le forze produttive e sociali.

La classe borghese dominante, che in ogni paese oltre a rappresentare la forza di conservazione del capitalismo rappresenta anche l’impotenza a risolvere le contraddizioni sociali e i contrasti interstatali che, accumulati e ingigantiti, portano inevitabilmente allo scontro di guerra, ha coscienza del fatto che tutto ciò che porta alla guerra può provocare una reazione da parte proletaria, prima, durante o dopo la guerra. Ma ciò di cui ha davvero paura è la reazione a catena dei proletariati di tutti i paesi belligeranti. E’ per questo che molto prima che scoppi una guerra generale, la borghesia prepara il proprio proletariato ad una vita di sacrifici, ad una costante insicurezza di vita e di lavoro; lo abitua ad affrontare stragi e massacri che i suoi potenti mezzi di comunicazione, primo fra tutti la televisione, portano in ogni casa come fossero fatti non eccezionali e che, anche se capitano in luoghi lontani, possono capitare e colpire anche molto vicino; propaganda l’idea che ognuno, prima di tutto, deve pensare a se stesso e che se vuole pensare anche ad altri, ai poveri, agli emarginati, ai malati gravi, ai mutilati di guerra, ai bambini del «terzo mondo», ai profughi delle mille guerre che devastano il pianeta, lo faccia attraverso organizzazioni già predisposte, religiose o laiche, di volontariato o perfettamente inserite nelle strutture di assistenza e di carità. E così anche il sentimento di solidarietà umana che nasce spontaneo di fronte alle immani sofferenze di disperati e di popoli sottoposti alla crudele pressione e oppressione capitalistica, viene indirizzato verso la solidarietà interclassista, verso una solidarietà nazionale che in tempi di anteguerra e di guerra diventa di vitale importanza per ogni potere borghese.

Il proletariato, che farà quando i rumori di guerra guerreggiata si avvicineranno e lo coinvolgeranno?

E’ una domanda che ogni borghesia si fa ormai con molto anticipo perché sa perfettamente che l’unione sacra della nazione non si ottiene semplicemente con la propaganda del «nemico alle porte». I proletari, per la posizione che occupano nel processo produttivo, tendono ad organizzarsi in difesa dei propri interessi immediati, tendono a lottare contro i capitalisti perché in loro riconoscono interessi contrapposti ai propri; è da queste lotte che può nascere la solidarietà di classe, è in queste lotte  e nel loro svolgimento che si possono riconoscere gli alleati e i nemici, è da queste lotte  e dalla risposta che ne danno i capitalisti e il loro Stato che si pongono questioni ben più ampie rispetto agli interessi immediati di fabbrica o di categoria. Se queste lotte prendono l’indirizzo classista - cioè la difesa esclusiva degli interessi immediati proletari in quanto puri salariati - possono innestare quella «reazione a catena» di cui si parlava prima: i proletari più combattivi, più decisi costituiscono un esempio da seguire per tutti gli altri proletari. Dunque, i capitalisti hanno compreso che, per assicurarsi la sottomissione completa del proletariato alle esigenze del profitto capitalistico, non bastava corrompere e annientare il partito di classe del proletariato - come in effetti è avvenuto attraverso la controrivoluzione staliniana - ma si doveva superare il limite della già collaudata storicamente corruzione dei sindacati operai, avviandone l’integrazione nello Stato che già il fascismo aveva realizzato.

Il proletariato, in questo modo, si ritrova completamente disorganizzato dal punto di vista della difesa classista sia sul terreno politico generale che sul terreno immediato. Il risultato che i capitalisti hanno ottenuto con questo coinvolgimento nello stato degli stessi sindacati dei lavoratori, è stato non solo quello di assicurarsi un controllo sociale molto stretto ma anche quello di istituzionalizzare la concorrenza fra operai. I capitalisti non si devono preoccupare  più di alimentare la concorrenza fra proletari dall’esterno delle loro associazioni economiche: la ottengono direttamente dalle associazioni stesse, sia attraverso il corporativismo spinto ad ogni livello - tra gli occupati come tra i disoccupati - sia attraverso normative e «protocolli» che spezzettano sempre più in fasce differenziate la massa dei lavoratori. Si comprende perciò l’enorme difficoltà che i proletari hanno nel risalire dall’abisso in cui li hanno gettati l’opera congiunta dei capitalisti e dei sindacati collaborazionisti.

Ciò non toglie, però, che nelle mani dei proletari resta la potenzialità della ripresa della lotta di classe.

In che senso? Nel senso che, poggiando sulle stesse contraddizioni materiali e sociali dello sviluppo capitalistico e del suo sfruttamento del lavoro salariato, i proletari verranno oggettivamente spinti a rivoltarsi contro il peggioramento sempre più acuto delle loro condizioni di vita, e di lavoro, al quale la classe dei capitalisti deve necessariamente ricorrere nella sua perenne lotta contro la caduta tendenziale del saggio di profitto: nella spasmodica ricerca del profitto capitalistico, la classe borghese non può fare a meno di estorcere quote sempre più alte di plusvalore dal lavoro salariato, e per ottenere questo risultato deve necessariamente opprimere sempre più la classe proletaria non solo a livello nazionale, ma  mondiale, visti ormai gli intrecci sempre più intensi con il mercato mondiale. Mentre dalla parte della classe borghese aumenta sempre più la ricchezza, dalla parte delle classi proletarie aumenta sempre più la miseria; non solo il futuro di vita, ma la stessa vita quotidiana diventa insopportabile per cui l’unica via d’uscita è la rivolta, la lotta.

In che modo?

Nell’unico modo di cui il proletariato ha storicamente sperimentato l’efficacia: rompendo con le pratiche e le impostazioni del collaborazionismo interclassista, riprendendo in mano direttamente lo sciopero come atto di effettiva rottura con gli interessi dei capitalisti - aziendali o nazionali che siano -  e come arma di difesa permanente dagli attacchi alle sue condizioni di lavoro e di vita; riconoscendo, nella lotta contro i capitalisti, l’antagonismo di classe che li oppone ad essi e sviluppando, attraverso la lotta stessa, la solidarietà di classe con i proletari di ogni altra fabbrica, di ogni altra categoria o settore produttivo, di ogni altra razza e nazione.

Non vi sono strategie «nuove» da inventare o da scoprire perché il proletariato riprenda il suo cammino di classe. La lunga storia delle lotte, vinte e perse, del proletariato internazionale è zeppa di esempi e di  indicazioni utilissime per la lotta di classe di domani. Sostanzialmente, il capitalismo ha sempre le stesse caratteristiche di cento o duecento anni fa: doveva rendere, e ha reso, universale il suo modo di produzione; doveva conquistare, e ha conquistato, l’intero pianeta sottomettendolo al dominio della classe borghese come sua rappresentante politica; doveva sviluppare, e ha sviluppato, la sua economia fino al suo ultimo stadio, fino allo stadio del dominio dei monopoli e del capitale finanziario, in una parola dell’imperialismo. Ciò che ha subìto dei  cambiamenti  nel corso di sviluppo del dominio borghese sulla società non è la struttura economica e sociale capitalistica, ma la sua sovrastruttura politica: da rivoluzionaria, quando si batteva contro le vecchie strutture feudali, è diventata prima riformista e infine reazionaria. Lo sviluppo, seppure ineguale, del capitalismo nei vari paesi del mondo ha comunque portato con sé non solo l’aumento della potenza economica e sociale del capitalismo ma anche la formazione di strati sempre più vasti di proletariato là dove prima vi erano masse di contadini, di artigiani, di piccoli commercianti e piccoloborghesi urbanizzati. Basti pensare alla Cina, all’India, al Medio Oriente, all’Africa.

Spinto dalla lotta di concorrenza a livello mondiale, il capitale imperialista esercita in maniera sempre più vasta una pesantissima pressione sui proletari dei paesi a capitalismo ancora arretrato; grazie a questa pressione (leggi: altissimo tasso di sfruttamento) i capitalismi occidentali riescono ancora a distribuire, anche se in misura sempre minore, «garanzie» normative e salariali ai proletari di casa propria, continuando in questo modo a tenere in vita gli elementi economici e sociali che gli assicurano la collaborazione interclassista e perciò la complicità dei propri proletari allo sfruttamento bestiale delle masse proletarie e contadine degli altri paesi del mondo. Questa «complicità» è uno degli elementi essenziali della sottomissione dei proletari alle proprie borghesie nazionali, inevitabilmente riducendo a zero la forza propulsiva che la classe proletaria storicamente rappresenta. I proletari dell’Occidente imperialistico, come fossero una grande «aristocrazia operaia»  nei confronti dei proletari degli altri paesi, non vedono, ormai da decenni, che la collaborazione con la borghesia non li salverà, un domani, dai massimi sacrifici che la guerra borghese e imperialista richiederà loro; come non li salva oggi dalle frequenti crisi economiche che provocano scossoni sempre meno marginali che erodono sempre più le famose «garanzie» normative e salariali ottenute in tempi di espansione economica.

Il futuro per i proletari d’Occidente è, insieme all’insicurezza del lavoro e della vita, la certezza del continuo e generalizzato peggioramento delle condizioni sociali di vita e di lavoro. Aumentando il dispotismo sociale, aumenta anche il dispostismo di fabbrica; aumentando la diffusione della paura sociale, aumenta anche la militarizzazione della società. Più la borghesia parla di democrazia partecipata e più si allena a irreggimentare le masse proletarie, più la «partecipazione» assume la caratteristica dell’ obbligo, più la democrazia si blinda. La preparazione del proletariato alla guerra borghese e imperialista avviene anche attraverso questi passaggi: solo un proletariato prostrato, inesistente come classe per sé, incapace di forza storica propulsiva diventerà carne da macello. Già oggi lo è nelle mille guerre locali che le borghesie più aggressive hanno condotto e conducono nei diversi continenti contro popolazioni che non riescono a fermarle. Domani, in una guerra mondiale, succederà in maniera ancor più vasta e non ci sarà alcun luogo «neutrale» in cui riparare.

Il proletariato però, nonostante il tremendo ripiegamento in questi lunghi decenni della lotta di classe, pur non sapendolo sarà in ogni caso spinto nuovamente sul terreno della lotta contro la borghesia capitalista dagli stessi contrasti sociali che hanno facilitato fino ad oggi  il suo ripiegamento. Le forze materiali che si contrappongono nel sottosuolo economico della società capitalistica sono ben più potenti dei tentativi della stessa borghesia di sfuggire all’appuntamento storico con l’esplosione di tutte le contraddizioni della sua società, in questi decenni accumulate e acutizzate a dismisura; e sono ben più potenti dell’apparente impotenza di classe del proletariato. La coscienza di questo processo storico inevitabile non è posseduta dal proletariato, ma dal partito proletario di classe, dal partito comunista marxista.

E’ facile oggi sorridere di fronte a questa affermazione;  guardando la situazione di oggi non si può che concludere: il proletariato come classe non c’è, il partito di classe non c’è. Dunque? Quale futuro può avere una rivoluzione  se la sua forza storica propulsiva - il proletariato - l’ha cancellata dal suo cammino, e se la sua guida - il partito di classe - è stato cancellato molto tempo fa?

Con il crollo dell’URSS e del suo «impero» satellitare, tutti i partiti sedicenti comunisti hanno «preso atto» che il comunismo non aveva più futuro e che ci si doveva trasformare completamente in senso democratico. In realtà quei partiti non fecero molta fatica a trasformarsi, visto che si trattava soltanto di togliersi un velo e presentarsi per quello che già erano da anni: partiti operai borghesi, per dirla con Lenin. Ma siccome la propaganda borghese tende ad utilizzare tutto ciò che può in qualche modo tornare utile al rincretinimento delle masse proletarie, nonostante il «crollo del comunismo», il fallimento quindi di un «modello» e di un «metodo», continuò ad alimentare l’inganno storico del «comunismo nazionale» ribadendo vecchi e falsissimi concetti sull’equivalenza tra statizzazione e comunismo, sulla contrapposizione tra mercato «socialista» e mercato «capitalista», ecc.  Come fummo noi, della Sinistra comunista, in tempi non sospetti (ossia dal 1926 in avanti!), e soli, a denunciare che la Russia non è stata socialista, siamo stati i soli, di fronte al crollo dell’URSS, a denunciare la fine di un periodo storico caratterizzato dal condominio imperialista russo-americano sul mondo e l’apertura di un nuovo periodo storico in cui all’ordine del giorno è stata messa una nuova ripartizione imperialista del mondo. Subito dopo, infatti, col 1991, è iniziato il periodo delle grandi alleanze imperialiste nelle guerre, con la prima guerra del Golfo, la guerra in Jugoslavia, la guerra in Afghanistan, la seconda guerra nel Golfo... ed altre guerre si prospettano all’orizzonte (Iran?, Siria?); nel frattempo, Stati che prima facevano parte del Patto di Varsavia, dunque erano nel campo dell’imperialismo russo, sono passati nel campo dell’imperialismo americano attraverso l’adesione alla Nato (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, e poi Romania, Bulgaria, i Paesi Baltici, Slovacchia e Slovenia).

Il proletariato russo e il proletariato dei  paesi che facevano parte del campo di influenza sovietica non hanno approfittato della profonda crisi in cui erano caduti i poteri borghesi a Mosca, a Berlino, a Varsavia, a Praga, a Budapest, a Bucarest e nelle altre capitali, per avanzare le loro rivendicazioni di classe; non potevano farlo, ovviamente, dato che, più del proletariato dei paesi occidentali, hanno subìto il peso della controrivoluzione staliniana; la loro «fame di democrazia» era insaziabile e ancor oggi resta, in quei paesi, un elemento fondamentale a favore della collaborazione di classe. Ma anche in questi paesi, non più al riparo dalle crisi capitalistiche mondiali, lo sviluppo della lotta di classe presto o tardi si annuncerà; di fronte ad un capitalismo meno avanzato che in Occidente, ma spinto in modo ancor più parossistico alla concorrenza internazionale, il proletariato di questi paesi sarà meno «protetto», meno «avvantaggiato» dei proletari occidentali, e perciò ancor più schiacciato dalle esigenze di competizione dei propri capitalismi nazionali. Anche là, prima o poi, salterà la caldaia...

Non sappiamo se si ripeterà la situazione dei primi anni Venti del secolo scorso, ossia se il movimento proletario di classe che darà fuoco alle polveri verrà nuovamente dai paesi dell’Est europeo. E’ però certo che il movimento di globalizzzione del moderno capitalismo, attraverso il quale cadono le barriere di un tempo - la «cortina di ferro» ieri, oggi la muraglia cinese - mentre facilita e velocizza i rapporti commerciali e finanziari tra i paesi e i trusts e facilita la circolazione degli uomini, e quindi dei proletari, prepara oggettivamente il terreno anche alla lotta di proletari di tutte le nazioni, alla lotta senza confini: internazionalizzando le merci, internazionalizza anche il lavoro salariato, quindi i proletari.

Il grande grido di battaglia di Marx ed Engels, che annuncia il Manifesto del partito comunista nel 1848: Proletari di tutti i paesi, unitevi!, corrisponde sempre più alla realtà sociale del moderno capitalismo.

La borghesia ha il suo tallone d’Achille: più sviluppa capitalismo, più produce merci, più produce proletari, più proletarizza il mondo. Il 1848 potrebbe apparire molto lontano, ormai un’epoca che non ha più nulla da dire, tanto è avanzato il progresso della società borghese. La storia delle società, la storia dei modi di produzione, la storia delle lotte fra le classi non si misura in anni, ma in processi di maturazione delle condizioni generali perché il rivoluzionamento di una società si renda possibile e attuabile. Allora le parole del Manifesto del 1848 non appaiono vecchie, e inutili, ma vivissime e profetiche:

«La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili» (5).

La prospettiva storica definita da Marx ed Engels nel Manifesto del 1848, e ripresa da tutti i comunisti rivoluzionari a partire da Lenin, dalla Luxemburg, da Trotsky per giungere fino a Bordiga, non poggia su di un utopico disegno di una società nuova, non poggia sulla teoria di un grande pensatore, ma sui processi materiali di sviluppo delle società umane e, quindi, sui rapporti di produzione che caratterizzano le diverse società in cui l’umanità ha organizzato la sua attività di produzione e riproduzione. Il comunismo è il risultato di questi processi storici, e non la realizzazione di un’idea. Le classi in cui le società fino ad ora sono state divise non sono categorie teoriche, ma forze materiali corrispondenti a rapporti di produzione e sociali ben precisi. La rivoluzione, come passaggio violento da una determinata società ad una superiore, non è una rappresentazione romantica dello spirito irrequieto dell’uomo, ma la risultante dello scontro inevitabile di classi antagoniste che esprimono il proprio antagonismo nel materiale uso della violenza e si fanno guidare da una «coscienza di classe» storicamente depositata in specifiche organizzazioni politiche, che sono i partiti.

Ogni classe ha un suo percorso storico già tracciato dal processo di sviluppo del modo di produzione che rappresenta; la sua fine può essere allontanata nel tempo, più per la combinazione di fattori oggettivi che per l’intervento di fattori soggettivi, ma è comunque certa. Così, il percorso storico che porterà la classe del proletariato allo scontro decisivo con la classe borghese non è generato da idee, programmi, disegni, strategie prodotti da uomini eccezionali o da gruppi particolari di uomini: è materialmente già inciso nella storia della società capitalista e del suo superamento. Che i proletari singolarmente o a gruppi ne siano o meno coscienti, non è questo il punto; ed è certo che non ne sono coscienti se non nella forma specifica di quell’organo del rivoluzionamento completo della società che si chiama partito di classe, partito comunista rivoluzionario. Organo che rappresenta nell’oggi capitalistico il suo superamento, il suo seppellimento, la sua definitiva scomparsa in quanto ultima società divisa in classi della lunga storia delle società umane.

Per questo motivo la rivoluzione di classe, la rivoluzione proletaria, la chiamiamo anche rivoluzione comunista: perchè i suoi caratteri li prende dal fine ultimo del movimento rivoluzionario, dalla società superiore, dal comunismo che deve ancora venire, al quale la via si apre solo ed esclusivamente attraverso la rivoluzione: proletaria perché è la classe proletaria a farla, comunista perchè il fine è il comunismo. 

 


 

(1)   Vedi Prometeo incatenato, editoriale pubblicato nell’allora rivista teorica del partito, «Prometeo», n.4, dicembre 1946.

(2)   Vedi K. Marx, La borghesia e la controrivoluzione, Neue Reinische Zeitung, 10 dicembre 1848, in Il Quarantotto, La Nuova Italia, Firenze 1970, pag. 153.

(3) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916, Opere, Ed. Riuniti, Roma 1966, vol. 22, pag. 295.

(4) Ibidem, pag. 294-295.

(5) Cfr. K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, cap. «Borghesi e proletari», pagg.116-117.

 

Partito comunista internazionale

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