Ancora crisi economica e finanziaria nella prolungata agonia capitalistica

(«il comunista»; N° 109; Luglio 2008)

 

Aria di tempesta non solo sulle Borse di tutto il mondo, ma sull’economia dei maggiori Stati imperialisti.

Secondo molti analisti americani ed europei l’economia occidentale sta andando ad infilarsi nell’impasse della stagflazione. Stagflazione è la traduzione italiana del termine inglese stagflation, che deriva dalla fusione di stagnation e inflation. Con questo termine gli economisti borghesi intendono descrivere una situazione in cui il ristagno dell’attività produttiva tipico delle fasi discendenti del ciclo economico si accompagna in maniera, per loro anomala, al persistere di sintomi inflazionistici, tipici delle fasi ascendenti e soprattutto delle fasi di boom economico. Dunque siamo in presenza di un simultaneo aumento dei prezzi (provocato dalla diminuzione del valore della moneta) e della disoccupazione (che segnala la stagnazione economica, non ancora la recessione ma la mancanza di crescita).

In realtà lo spettro della recessione aleggia sugli Stati Uniti già da tempo, e i suoi forti segnali hanno preso le sembianze della fortissima crisi dei cosiddetti subprime (la crisi dei muti, in particolare per l’acquisto della casa) che ha terremotato fior fior di banche, come l’americana Northern Rock, nazionalizzata per evitarne il fallimento.

Già negli anni ’70 del secolo scorso una situazione simile si era presentata, preceduta dalla crisi petrolifera del 1973, sfociando poi nella crisi simultanea dei più forti capitalismi mondiali del 1975. Fu crisi economica profonda, che fece perdere masse ingenti di profitti ai capitalisti, ma soprattutto salari e posti di lavoro a milioni di operai le cui condizioni di vita peggiorarono di colpo, verticalmente. Allora, grazie all’opera pluridecennale dell’opportunismo e del collaborazionismo sindacale e politico delle organizzazioni che si professavano “proletarie” (i partiti “comunisti” legati a Mosca, o a Pechino, i sindacati legati a questi partiti, come l’italiana Cgil o la francese Cgt) e che invece ridussero il proletariato ad una semplice appendice degli interessi dei diversi capitalismi nazionali, allora il proletariato subì tutto il peso della crisi capitalistica in termini di un peggioramente consistente del suo tenore di vita e di miseria diffusa. La combattività operaia  a difesa delle condizioni di lavoro e di vita non mancò, e molti fuorno gli episodi di reazione anche violenta alla pressione e repressione sociale che si stava estendendo su tutta la società. Ma quella combattività, non poggiando su solide basi classiste e su una rinfocolata tradizione di lotta classista, fu troppo facilmente deviata nell’alveo del controllo sociale borghese sotto il ricatto dei sacrifici da sopportare oggi per non andare incontro a peggioramenti più gravi domani; e quando quella combattività sfuggiva a  questo controllo, veniva altrettanto facilmente deviata nella disperazione piccoloborghese del terrorismo individualista.

Oggi, dopo una serie di cicli economici positivi e negativi, si ripresenta al cospetto dei guru dell’economia mondiale una situazione allarmante. Il prezzo del petrolio è incontrollabile, e il rialzo vorticoso dei prezzi di tutte le materie prime segna un distacco sempre più profondo tra l’economia reale - l’attività produttiva - e l’economia fittizia, quella finanziaria che si spinge sempre più sul terreno della speculazione a detrimento degli investimenti nell’industria e nell’agricoltura. Secondo alcuni analisti 50 paesi del mondo hanno un carovita superiore mediamente al 10%, ma se si calcolano solo i beni di consumo necessari alla sopravvivenza (riso e grano, per non parlare della frutta e della verdura) il carovita è aumentato ben più del 20%. Non a caso da molti mesi gli stessi borghesi ammettono che con il salario medio di un operaio oggi difficilmente  si arriva al 20 del mese! E’ lo stesso governatore della Banca d’Italia a rivelare che i salari operai sono fermi al costo della vita di 15 anni fa! In questo periodo i salari, per avere la stessa capacità d’acquisto di 15 anni fa, dovrebbero essere perlomeno triplicati. E i profitti? Quelli stanno benissimo, anche se qualche banca è stata ultimamente ridimensionata e molte altre banche rischiano, come dicono gli economisti, «il massacro». In ogni caso, per loro, alla peggio, c’è sempre l’ancora di salvezza che si chiama «nazionalizzazione»... Lo Stato borghese non si può permettere che il sistema bancario collassi, sarebbe un collasso generale.

A differenza degli anni ’70 del secolo scorso, in cui gli strumenti di controllo delle Banche e delle Borse che i capitalisti si erano dati erano più semplici perchè il mondo della finanza era meno complicato. Oggi questi strumenti di controllo rivelano la loro inefficacia; la crisi dei subprime non sarebbe avvenuta se quei controlli fossero stati efficaci. La domanda è: può il capitalismo, sulla base delle esperienze che ha fatto e fa sulle sue proprie crisi, trovare soluzioni e controlli tali da limitare gli effetti dirompenti di crisi finanziarie ed economiche sull’intera economia mondiale? Sì, il capitalismo può trovare soluzioni e controlli che limitino quegli effetti dirompenti, ma a condizione che:

1) i capitalismi d’assalto soprattutto di Cina, ma anche di India, Russia e Brasile, continuino a coprire coi propri capitali le voragini che si aprono in America e in Europa;

2) che i capitali dei paesi del Golfo Persico continuino a caratterizzarsi come petrodollari, e non cambino valuta di riferimento;

3) che i prezzi politici che Washington, Londra, Tokio, Berlino, Parigi, Roma sono inevitabilmente costretti a pagare ai capitalisti di Pechino e del Golfo Persico, non oltrepassino il limite della stabilità del consenso negli Stati Uniti e nei paesi europei;

4) che la fiducia dei risparmiatori e degli investitori non scenda al di sotto della linea di soglia conosciuta nel 1929, e che perciò continuino a foraggiare, più o meno inconsapevoli, le manovre finanziare e speculative delle più grandi banche del mondo.

Ammesso, dunque, che il capitalismo mondiale riesca ad ottenere queste condizioni per uscire dalla profonda crisi in cui si sta infilando, e ammesso che gli interventi delle banche centrali dei maggiori paesi del mondo concordino le azioni da fare per contrastare unitariamente gli effetti della crisi, di quale garanzia può dotarsi per non trovarsi in un prossimo futuro nuovamente alle prese con una crisi, magari più profonda?

I capitalisti, non importa di che nazionalità siano, percepiscono perfettamente che le crisi del mercato economico e finanziario sono soltanto in parte controllabili. Sanno di non avere a disposiziona alcuna bacchetta magica per far scomparire le cause delle crisi capitalistiche; sanno di assomigliare molto più all’apprendista stregone che al mago merlino. Per quanto si diano da fare, attraverso le loro varie associazioni mondiali, dovranno necessariamente rispondere al loro originale richiamo: gli interessi privati, specifici di gruppo, eventualmente nazionali. La concorrenza fra i capitali può essere convogliata entro una certa misura alzando argini anche imponenti contro il loro straripamento; ma ogni capitale è concorrente agli altri capitali e per sua forza storica tenderà sempre a primeggiare sugli altri, con ogni mezzo: la pressione concorrenziale, la cooperazione, l’associazione, la fusione, l’assorbimento, la rapina, la distruzione di altri capitali, la guerra. Il capitalismo si permette qualsiasi cosa pur di sopravvivere a se stesso, alle proprie crisi, ai propri disastri.

I duecento anni di storia del suo moderno sviluppo dimostrano che la sua forza vitale è data da un fattore che è destinato a diventare il suo punto di massima debolezza: il lavoro salariato. La classe dei capitalisti domina l’intera società, anche a dispetto delle crisi sempre più acute della sua economia e della sua dominazione, nella misura in cui la classe da cui trae la linfa vitale della sua esistenza - il pluslavoro, che si traduce in plusvalore e, quindi, in profitto capitalistico - la classe del proletariato, continua a farsi sfruttare sotto ogni cielo e sempre più bestialmente senza sollevarsi contro l’intero sistema capitalistico.

La recente crisi dei subprime pare che abbia aperto un “buco mondiale” di 1.400 miliardi di dollari. Molti lavoratori in America, in Inghilterra, in Olanda, Belgio, Germania hanno perso risparmidi una vita di lavoro, pensioni, casa. Migliaia di lavoratori del settore bancario hanno perso il posto di lavoro o lo stanno per perdere. Altre masse ingenti di lavoratori, costrette a gestire i propri salari attraverso le banche, continueranno ad essere salassate da tasse e commissioni di ogni tipo, attraverso le quali le banche stesse e lo Stato coopereranno a coprire in parte le loro spese e i buchi aperti da piratesche manovre speculative.

E’ così evidente che i lavoratori, oltre ad essere spremuti fino all’osso nei posti di lavoro, vengono ulteriormente tartassati nella gestione quotidiana dei loro salari, già di per sé insufficienti ad una sopravvivenza decente. Le banche, queste istituzioni legali dell’usura, sono lo specchio più fedele della società borghese moderna e sviluppata. Il lavoratore salariato è stretto in una tenaglia: da un lato è sottoposto allo sfruttamento da parte del padrone per poter avere a disposizione un salario col quale sopravvivere; dall’altro lato è obbligato a passare attraverso la banca per poter avere materialmente a dispozione il suo salario. Come il suo lavoro non è «suo» in quanto lo ha dato al padrone che ne rapina una buona parte in tempo di lavoro non pagato (il plusvalore marxista, che è il profitto capitalistico), così il suo salario non è «suo» in quanto lo ha dovuto dare in consegna alla banca perché glielo gestisca,e per questo «lavoro di gestione» la banca ne rapina una parte in termini di commissioni per ogni semplice operazione e di interessi non dati.

Come il lavoro del proletario salariato in realtà non è suo ma del padrone (al proletario rimane quello che aveva prima: la forza di lavoro), così lo stesso salario del proletariato lavoratore non è suo ma della banca (al proletario rimane un salario ulteriormente decurtato di quote che parassitariamente la banca incamera, ossia il minimo indispensabile per ricostituire quello che aveva prima: la forza di lavoro). Padrone capitalista e banchiere hanno lo stesso interesse: che la forza lavoro proletaria si faccia sfruttare per un salario che transiti attraverso la banca; attraverso la banca tutti i salari si mescolano, perdono immediatamente la loro fugace «identità» per andare a costituire la massa di capitali che la banca gestisce come se fossero di sua proprietà in operazioni finanziarie che per il 90% dei casi non sono state richieste dai singoli proprietari dei conti correnti, ma sono dettate dalla necessità di far circolare i capitali e dalla volontà di speculare sulla loro circolazione e sul tempo di circolazione.

La massa dei capitali che viene convogliate nelle banche è diventata sempre più impressionante, soprattutto con l’apparizione delle Borse e del capitale finanziario; fino a diventare, come capitale finanziario, appunto, il dominatore dei mercati, di tutti i mercati, al quale si assogettano i capitali industriali, commerciale, individuali. Le banche sono, dunque, il perno intorno al quale ruota tutto il mercato; le Borse il loro cuore pulsante. L’economia reale, ossia la produzione di beni, spossessata dell’importanza che aveva un tempo quando il capitale finanziario non dominava incontrastato il mercato, diventa sempre più la cenerentola dell’economia moderna: quella che fa funzionare l’economia generale ma che non la gestisce.

C’è un periodo, nel capitalismo, in cui l’economia produttiva torna al centro della vita dell’intera società. E’ il periodo delle crisi: con segno positivo, nel senso che la sua forza e la sua espansione produce masse di capitali in grado di sopperire alle falle di altre economie (il caso della Cina e dell’America è lampante); con segno negativo, nel senso che la sua crisi per sovraproduzione, incrociandosi con la crisi dei capitali finanziari, mette alla corda il mercato in generale che non trova vie d’uscita se non nella distruzione di beni e di capitali. La lotta di concorrenza, tra i grandi Stati capitalisti e i grandi trust economico-finanziari, che ha contribuito a sviluppare il mercato, e che ha prodotto le guerre commerciali, sbocca inevitabilmente nella guerra guerreggiata in cui due sono i grandi obiettivi: eliminare la saturazione dei mercati attraverso la gigantesca distruzione della sovraproduzione di merci e di capitali, una diversa ripartizione del mondo, ossia dei mercati, fra gli Stati vincitori della guerra.

La crisi di stagflazione odierna apre alla crisi generale di sovraproduzione di merci e di capitali? Ci stiamo avvicinando al periodo in cui la via d’uscita del capitalismo sarà soltanto la guerra guerreggiata a livello mondiale?

Finché le economie di Cina, India, Russia e Brasile viaggiano al +7/10% di incremento del Pil, con una enorme fame non solo di materie prime ma anche di mezzi di produzione, costituendo esse mercati giganteschi in termini di popolazione (più di 2 miliardi e 700 mila abitanti), è possibile che le difficoltà delle economie occidentali, americana in particolare ed europee, vengano in qualche modo compensate dalla vivacità delle potenze capitalistiche emergenti. Non va comunque sottovalutato un ulteriore fattore di crisi, e cioè l’accumulo di contraddizioni che si è prodotto negli ultimi vent’anni, ossia dal crac delle Borse del 1987 e, soprattutto, dall’implosione dell’URSS e dal crollo del suo sistema di satelliti ad occidente quanto ad oriente.

La guerra nei Balcani, e soprattutto la prima e la seconda guerra del Golfo, hanno certamente contribuito a rivitalizzare l’economia americana che resta, finora, la prima  economia mondiale, dunque l’economia che tutti gli altri paesi capitalisti, e a più forte ragione i paesi imperialisti più importanti, hanno interesse a sostenere col massimo degli sforzi perché il crollo dell’economia americana significherebbe il crollo verticale dell’economia capitalistica mondiale.

Per dare un’idea molto all’ingrosso, il PIL degli Stati Uniti, nel 2005, è stato di 12.485.725 ml $. Una massa di questo genere può essere raggiunta dal PIL di Gran Bretagna, Germania, Giappone, Francia e Italia messi insieme. La produttività della forza lavoro americana è misurabile, sempre per il 2005,  in 42.101 $ di PIL per abitante; al secondo posto viene la Gran Bretagna con 36.599 $ di PIL per abitante, e poi il Giappone con 35.787 $ e il Canada con 35.064, seguiti dalla Germania con 33.922 $, dalla Francia con 33.734, dall’Australia con 33.526,  dall’Italia con 29.635 $ e dalla Spagna con 27.226 $. Se andiamo a guardare gli stessi dati relativi a Cina, India, Russia, Brasile ci troviamo di fronte ad una Cina che sopravanza gli altri tre paesi per quasi tre volte: il PIL della Cina, sempre per il 2005, è di 2.224.811 ml $ (simile a quello britannico che era di  2.201.473 ml $), mentre quello del  Brasile è stato di 789.315 ml $, quello dell’India di 775.410, quello della Russia di 766.180 $. Rispetto al PIL per abitante abbiamo un quadro un po’ modificato: per la Russia 5.369 $ pro capite, per il Brasile 4.297, per la Cina 1.703 $ e per l’India, distanziata enormemente, a 714 $ pro capite. La Russia, che proviene da un’accelerazione dello sviluppo del capitalismo dovuta alla rivoluzione del 1917, ha un passo diverso quanto a produttività anche per la maggiore industrializzazione sviluppatasi negli anni della seconda guerra mondiale e successivi. Ma, su questo piano, non è andata molto più lontana della Turchia che registra un PIL per abitante di 5.052 $, del Venezuela che registra 5.026 $, del Sudafrica che ne registra 5.100, ed è superata di gran lunga dalla Corea del Sud con 16.422 $ di PIL per abitante a fronte di un PIL totale, superiore a quello russo, di 793.070 ml $.

Questi dati possono dare l’idea non solo della distanza fra la forza delle economie dei paesi imperialisti più vecchi e le economie cosiddette emergenti; danno anche l’idea - vista l’alta percentuale di incremento registrato negli ultimi anni proprio da Cina, India, Brasile e Russia - del margine di sviluppo che il capitalismo internazionale ha ancora, sul piano puramente economico. Certo non bastano i dati qui riferiti, e ci vorrebbe uno studioo più approfondito circa gli investimenti, le importazioni e le esportazioni, la bilancia dei pagamenti, ecc. Ma è comunque possibile immaginare che la corsa allo sviluppo delle economie capitalistiche più giovani se, da un lato, dà un certo grado di respiro all’asfittica economia dei paesi capitalisti più vecchi smaltendo una parte della loro sovraproduzione, dall’altro lato contribuisce ad accumulare fattori di crisi proprio per la massa di prodotti che questi giovani capitalismi, anelanti uno sviluppo acceleratissimo dei propri profitti, riversano nei mercati più forti e, potenzialmente, più capaci di assorbire merci a prezzi che garantiscano un saggio di profitto accettabile. Ma i mercati più forti sono i mercati rappresentati dai paesi capitalisti più vecchi, dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale, in particolare, che sono i paesi che hanno essi stessi estremo bisogno di piazzare merci e capitali. Il futuro non è quindi per niente roseo per l’economia capitalistica mondiale: si prospetta prima o poi una saturazione dei mercati più importanti che determinerà uno scontro sempre più violento fra gli Stati capitalisti più importanti e forti. Si riproporrà in termini più acuti e drammatici il solito problema: la diversa ripartizione del mercato mondiale, e la guerra mondiale sarà lo sbocco necessario, inevitabile di quello scontro.

Come è già successo nel lungo periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la lotta di concorrenza fra i paesi imperialisti non si calma con la guerra. La guerra è uno dei mezzi fra i più decisivi della lotta di concorrenza; ne fa parte, è il lato sempre più normale del corso di sviluppo del capitalismo. La lotta di concorrenza sul mercato mondiale contiene la lotta di concorrenza sui mercati continentali e fin giù a livello nazionale e regionale. Vigono le stesse leggi e ciò che cambia sono le dimensioni del mercato di riferimento; il capitalismo non ha modi diversi di comportarsi sui mercati più ristretti o più ampi, perché non attua in tempi nettamente separati il modo pacifico o il modo violento per ottenere ciò che gli serve. Il capitalismo è pacifico e guerrafondaio nello stesso tempo, è centralizzatore e decentrante nello stesso tempo, è alleato e nemico nello stesso tempo. L’interesse di un capitalismo nazionale  di accaparrarsi quote sempre più importanti di plusvalore dal lavoro salariato dei  propri salariati non impedisce allo stesso capitalismo nazionale di andare ad accaparrarsi quote di plusvalore da proletariati di altri paesi: il mercato mondiale è, di fatto, il luogo dove si scontrano ai più alti livelli gli interessi specifici dei capitalismi nazionali, col loro seguito di interessi aziendali e privati. Lo sviluppo del capitalismo ha prodotto il mercato mondiale; il mercato mondiale, mentre produce fattori di sviluppo di ogni capitalismo, produce nello stesso tempo i fattori di crisi generati dalla sovraproduzione che ogni capitalismo è spinto a creare e a scaricare sul mercato mondiale nella speranza che la propria crisi di sovraproduzione si trasferisca sugli altri paesi. Fino a quando non vi sono più paesi in grado di assorbire la generale sovraproduzione; il mercato si inceppa, la crisi che ne segue assale alla gola dapprima i paesi più deboli fe poi quelli più forti. A quel punto le contraddizioni, tutte le contraddizioni esplodono, ed è guerra imperialista: mors tua vita mea, ogni Stato, ogni paese, tende a salvarsi dalle conseguenze dell’esplosione della crisi generale. Si formano e si disfano alleanze e patti d’acciaio, e tutti concorrono, per la propria parte, alla preparazione e alla realizzazione della guerra, perchè per i capitalisti, ad un certo punto della crisi dei loro profitti, vedranno la guerra come l’unica soluzione e vi si tufferanno con tutte le forze, nella speranza di non rimanere fregati o eliminati dal mercato e dalla faccia della terra. Essi riporranno nella guerra tutte le proprie ambizioni, le proprie speranze, le proprie rivincite. Ma avranno bisogno non soltanto di professionisti delle arti militari; avranno bisogno di professionisti della politica che sappiano unire gli interessi di tutti i capitalisti della nazione, anche contro particolari resistenze dovute ad interessi che si dimostreranno troppo privati; e avranno bisogno di professionisti del consenso sociale nei vari campi: religioso, politico, sindacale, culturale.

In effetti la classe dominante borghese non dimentica mai che sia in pace che in guerra ha interesse e convenienza a far sì che il proprio proletariato, innanzitutto, condivida e partecipi alle sue esigenze di dominio. Esigenze che, in tempo di pace,  vengono declinate in difesa delle merci nazionali a salvaguardia dei posti di lavoro dalla concorrenza straniera, e in tempo di guerra verranno mistificate come interessi generali del tipo la difesa della patria dall’aggressione straniera, o la dedizione al sacrificio nei posti di lavoro come al fronte per difendere l’economia nazionale, le fabbriche, i macchinari, gli strumenti di produzione che garantirebbero il lavoro durante la guerra e dopo finita la guerra.

I professionisti del consenso sociale che si rivolgono al proletariato, o che parlano a nome del proletariato, sono nient’altro che opportunisti e che noi da tempo abbiamo chiamato collaborazionisti. Nel senso di collaborazionisti col nemico di classe, con la borghesia, facendo finta di essere dalla parte dei proletari. Nei fatti, questo personale politico e sindacale, ha dimostrato ampiamente di essere sempre pronto ad accogliere le esigenze dei capitalisti ma a fare moltissime difficoltà ad accogliere anche le minime rivendicazioni operaie in termini di difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Se un’azienda, che ha difficoltà sul mercato nello smerciare i suoi prodotti, intende disfarsi di un certo numero di dipendenti, i sindacalisti collaborazionisti fanno di solito la faccia dura non per organizzare la lotta dei proletari contro tagli, cassa integrazione, mobilità, licenziamenti, e in ogni caso per salvaguardare il salario pieno a tutti coloro che vengono cacciati dalla produzione, ma per pretendere dal padrone che si negozi su questi tagli, che si coinvolga il «sindacato» sulle decisioni imprenditoriali perché sia trovata la forma più pacifica e indolore per soddisfare le esigenze dell’azienda. Per i collaborazionisti, i proletari vengono sempre dopo le esigenze dell’azienda, mai prima. Non saremmo arrivati alla situazione attuale di salari fermi da 15 anni se i difensori degli interessi operai, sul piano sindacale e su quello politico, non avessero sistematicamente calato le brache di fronte alle esigenze delle aziende, e dell’economia nazionale naturalmente. Il proletariato sarebbe stato portato alla lotta per se stesso e non per le «riforme di struttura», non per salvaguardare la «competitività delle aziende», non per governi più democratici e per la pace sociale.

I governi borghesi, che siano diretti da personale di destra o di cosiddetta sinistra, hanno dimostrato in tutti questi anni che il perno principale su cui ruotava la politica non è mai stato quello della difesa delle condizioni di lavoro e di vita della stragrande maggioranza della popolazione che è proletaria. Non vi sarebbero ogni anno migliaia di morti sul lavoro e decine di migliaia di feriti, intossicati, ammalati, infortunati, invalidati a causa del lavoro;  i proletari non si troverebbero nella situazione di un continuo e sistematico peggioramento delle condizioni di vita, oltre che di lavoro, con la’umento della precarizzazione e il contemporaneo abbattimento dei salari e innalzamento dell’orario giornaliero di lavoro.

I partiti della sinistra, dai socialisti ai comunisti all’estrema sinistra, hanno dimostrato fin troppo che la loro tradizione politica non affondava le radici nella lotta di classe del proletariato, nella lotta per la rivoluzione proletaria come andavano cianciando durante la seconda guerra imperialista e negli anni successivi fino ad abbassare gradatamente i toni barricadieri e partigianeschi per assumere toni da professionisti dei palazzi del potere borghese, al suo servizio naturalmente. Le vie più o meno «democratiche» al socialismo si sono  ridotte, come era inevitabile e previsto da noi fin dall’origine, a vie personali e di casta ai privilegi parlamentari e di posizione; mentre i continui sacrifici richiesti ai proletari per «stare meglio domani», si sono rivelati come precise tappe di un peggioramento generalizzato e progettato scientificamente nei salotti dei grandi capitalisti.

La crisi che sta passando l’economia capitalistica mondiale, e che svilupperà inesorabilmente ulteriori fattori di crisi più acute, pone tanto più alla classe dominante borghese il problema di come reagirà il proletariato di fronte ad un peggioramento delle sue condizioni di vita molto più drastico di quello finora vissuto nei paesi di capitalismo avanzato.

Gli sbarchi a migliaia di proletari e diseredati dei paesi più poveri e sottoposti tragicamente a guerre devastanti, volute o comunque sostenute dai più grandi paesi imperialisti del mondo, se da un lato vengono contrastati - anche con la violenza - perchè siano limitati e ridotti, dall’altro lato servono alla propaganda borghese per far vedere ai proletari autoctoni quanto peggio potrebbero stare, e soprattutto quanto potrebbe e può valere la loro vita.

Clandestini, li chiamano, dall’alto di una legalità borghese che giustifica e copre gli assassinii sistematici sui posti di lavoro, la riduzione in miseria di centinaia di migliaia di giovani e di anziani, l’umiliazione della prostituzione per decine di migliaia di donne; di una legalità che giustifica e assolve sistematicamente corruttori e corrotti, mentre non scalfisce se non molto in supefficie e sporadicamente la rete organizzatissima di una criminalità che si è fatta Stato; di una legalità che giustifica e assolve i propri poliziotti nelle loro prepotenze nei confronti degli immigrati, degli zingari o nei confronti dei dimostranti come a Genova nel luglio 2001 nei viali sul lungomare o in città, alla scuola Diaz o nella caserma di Bolzaneto dove la tortura è stata di casa.

Nella società borghese ogni proletario è in realtà clandestino: non ha patria, non ha famiglia, non ha lavoro, non ha salario, non ha una vita propria da vivere con moglie e figli, non ha speranza di vivere una vita priva di soprusi, di vessazioni, di sfrutrtamento, di prepotenze, di umiliazioni.

Nella società borghese la vita del proletario vale solo in quanto può essere sfruttata per far profitto; ma una vita proletaria vale l’altra, e se un proletario si ammala, si intossica, si infortuna, muore a causa del lavoro si fa avanti un altro proletario pronto ad ammalarsi, ad intossicarsi, ad infortunarsi, a morire per il profitto del padrone, in cambio di un tozzo di pane! Questa è la vita nella pacifica e civile società borghese.

E’ nel periodo di pace borghese che la classe dominante prepara la guerra borghese. I proletari, da carne sfruttata fino all’ultima goccia di sudore in fabbrica, saranno trasformati in carne da cannone. Nella crisi economica, mentre la classe borghese abitua le masse a ridurre le proprie esigenze al minimo indispensabile, le abitua anche a considerare la propria vita come qualcosa di assolutamente precario, le abitua a vivere alla giornata assediandole con mille illusioni e pregiudizi che alimentano il fatalismo, la ricerca di emozioni forti perchè oggi potrebbe essere l’ultimo giorno di vita, la svalutazione di ogni ideale che non sia legato al privilegio personale, all’arricchimento facile, allo sfruttamento di ogni occasione per fare denaro sulle spalle degli altri.

E se da un lato si diffonde la disperazione per una vita passata a faticare e gettata al vento, dall’altro si erge a sentimento di rivincita il più cinico individualismo, il più osceno attaccamento alla proprietà privata, la più dirompente attività di sopraffazione in una catena senza fine di piccole e di grandi violenze.

Il proletariato, per tradizione storica di classe, è una classe viva, capace di di lottare per ideali e per un futuro in cui la società dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’oppressione salariale, del razzismo, dell’oppressione della donna, del sopruso sistematico contro il più debole, sia stata debellata completamente e sostituita da una società che non avrà più come metro di misura materiale e spirituale il possesso o meno di denaro.

Il proletariato è la rappresentazione di una contraddizione fondamentale. Dal punto di vista immediato è classe per il capitale, è classe che dipende dal capitale e ne assorbe le esigenzae, l’ideologia, le tradizioni, la mentalità, le aspirazioni attraverso l’influenza generale della propaganda ideologica della borghesia dominante e attraverso l’influenza più specifica e diretta della piccola borghesia che vive accanto, fianco a fianco del proletariato e gli trasmette  fisicamente le proprie illusioni e i propri pregiudizi, le proprie incertezze e paure e il proprio spirito di rivalsa.

Dal punto di vista più generale e storico, il proletariato è classe per sé,  è classe capace di progettare un futuro del tutto diverso da quello borghese e capitalistico. E’ classe rivoluzionaria perché in questa società è senza riserve, non possiede nulla se non la propria forza lavoro. Ma questo possesso di forza lavoro non garantisce il proletario rispetto alla propria vita e a quella della propria compagna e dei propri figli. La forza lavoro in questa società per avere un valore deve essere impiegata dal capitalista; se questo non succede, la forza lavoro  ha un valore solo potenziale: Se viene impiegata dal capitalista, e dunque viene sfruttata a dovere, riceve un salario - che non basterà mai a soddisfare tutti i bisogni di vita, ma serve solo per ricostituire la forza lavoro perchè sia sfruttata a dovere giorno dopo giorno -. Se non viene sfruttata dal capitalista, non riceve salario, rimane inutilizzata. E’ perciò che il proletario è nella società capitalista un senza-riserve; rimane incatenato all’obbligo di lavorare per mangiare, ma se non ha lavoro gli rimangono solo le catene e quelle non si possono magiare. Spezzare le catene che questa società borghese ha messo ai piedi di tutti i proletari non significa: andare a lavorare per un misero salario, perché questo ribadisce le catene. Significa farla finita con questa società, rivoluzionarla da cima a fondo per una società in cui il lavoro non sarà un tormento e una schiavitù, ma una gioia, e le catene non serviranno più a nessuno perché non ci sarà nessun profitto da rincorrere, nessuna merce da vendere, nessun moneta da usare per scambiare lavoro con il pane.

Il proletariato è classe rivoluzioonaria perché è un senza riserve. Ma la consapevolezza di questa forza il proletariato non ce l’ha in virtù del fatto di vivere nelle condizioni proletarie. Questa consapevolezza la conquista con la lotta contro le condizioni economiche di base della sua schiavitù salariale, con la lotta per rivoluzionare l’intera società. Questa lotta non gliela indicherà mai nessun politico, nessun intellettuale, nessun sindacalista, nessun capopopolo le cui caratteristiche siano quelle della collaborazione interclassista. La guerra che la borghesia ad un certo punto dello sviluppo della crisi della sua economia sarà costretta a scatenare, per non morire soffocata a causa di un’economia che soffoca, è il prolungamento della politica che la borghesia attua in tempo di pace a difesa dei suoi profitti, a difesa del sistema economico e politico che le permette di mantenere il dominio sulla società, e nella lotta di concorrenza con altre borghesie che lottano per la stessa ragione. La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, sosteneva giustamente Von Clausewitz. Dunque, alla politica imperialista corrisponde la guerra imperialista. La borghesia, da quando ha terminato il suo storico ciclo rivoluzionario - in Europa e negli Stati Uniti dal 1871, nel resto del mondo dalla prima guerra imperialista del 1914-18 e anni successivi - si è infilata nel suo storico ciclo controrivoluzionario, ossia nel ciclo storico in cui non ha più nulla da dare alla società umana di progressivo e di rivolzuionario, e mantiene al contrario un potere al solo scopo di difendere i privilegi di classe acquisiti ma ormai da tempo vessatori nei confronti della stragrande maggioranza delle popolazioni mondiali.

Dal 1914 la borghesia non può che incedere a colpi di guerre di rapina, di guerre  per annettersi territori e popolazioni, di guerre imperialiste. E per consumare questo suo bisogno di classe, la borghesia deve utilizzare il proletariato come carne da cannone.

L’obiettivo principale delle guerre condotte dalla borghesia imperialista è sempre quello di annettere territori, popoli, nazioni intere al proprio dominio, combattendo - meglio, facendo combattere il proletariato -  contro le altre borghesie imperialiste che hanno esattamente lo stesso obiettivo. Ma, nella misura in cui il proletariato di uno e più paesi si solleva, si organizza, si associa internazionalemnte, per condurre la sua lotta di classe e rivoluzionaria contro la borghesia, a cominciare dalla sua borghesia di casa, costituendo in questo modo un reale pericolo per il dominio della classe borghese sull’intera società, allora le borghesie che si fanno la guerra per spartirsi il mercato mondiale in modo diverso dalla situazione precedente, si coalizzano tutte contro il proletariato insorto, tanto più se - come è avvenuto nella Russia del 1917 - il proletariato rivoluzionario giunge al potere abbattendo il potere borghese.

La borghesia, per esperienza storica accumulata, mentre prepara e si preparara alla guerra guerreggiata, tiene sempre uno spiraglio aperto alla possibile coalizione antiproletaria pur tra fieri nemici. Questo il partito comunista rivoluzionario, che è l’unico partito del proletariato, lo sa dalla storia passata e ne tiene conto nel suo programma e nella sua tattica. Come sa che il proletariato potrà affrontare con la forza necessaria il nemico borghese su qualsiasi fronte alla condizione di prepararsi anch’esso ad una guerra del tutto diversa, la guerra di classe, grazie alla quale soltanto si può fermare la guerra imperialista con le sue distruzioni e le sue rapine, e dare alla storia dell’uomo una direzione completamente diversa da quella del ribadimento della schiavitù salariale.

Il proletariato ce la farà a prepararsi a questo compito prima che scoppi la terza guerra imperialistica mondiale?

Noi ci auguriamo che i prossimi anni siano gli anni in cui nel proletariato comincino a formarsi le forze che fondano le scintille di coscienza di classe che la lotta proletaria di classe produce con organismi di classe indirizzati all’esclusiva difesa delle condizioni di vita e di lavoro proletarie. Noi, piccolo gruppo compatto, ci teniamo fortemente per mano per non finire nella melma dell’opportunismo come è successo fin troppe volte a rivolzionari disperati e demoralizzati per il tempo che passa e non fa vedere, insieme ai fattori di crisi economica del capitalismo, la maturazione dei fattori di crisi  sociale e rivoluzionaria..

La forza della controrivoluzione che ha soffocato e soppresso il movimento rivoluzionario dei tempi di Lenin e la dittatura proletaria instaurata a Mosca sulle macerie del potere borghese e dello zarismo, è stata tale che è riuscita a spingere all’indietro nella storia non solo la lotta rivoluzionaria, ma la stessa lotta elementare di classe del proletariato. Il proletariato ha dunque un compito gravoso sulle proprie spalle: deve riconoscersi come forza sociale capace di lottare per se stesso, per le proprie rivendicazioni e solo per quelle, e deve ricollegarsi alla sua tradizione di classe e rivoluzionaria dei gloriosi anni venti del secolo scorso.

Ce la farà?, sì ce la farà perché la storia delle lotte fra le classi non può essere fermata da una classe dominante, come quella borghese, che più si sviluppa l’economia che rappresenta e meno ne controlla le contraddizioni e le crisi. La lotta di classe è prima di tutto un fatto materiale e storico, poi è anche un fatto di coscienza di classe per la quale esiste già dal 1848, la teoria e il programma: queste non mancano. Manca la lotta fisica del proletariato sul terreno di classe, sul suo terreno e, per quanto possa apparire paradossale, sarà propria la borghesia a trascinarlo su questo terreno perché non ha mai smesso, e non smetterà mai di lottare contro di lui.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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