La donna e il socialismo (1)

Di August Bebel

La donna nel passato, nel presente e nell’avvenire

(«il comunista»; N° 111; Gennaio 2009)

 

Nel 1891 usciva l'undicesima edizione del testo di August Bebel intitolato «La donna e il socialismo», e la prima traduzione in lingua italiana. E' questa edizione che noi utilizziamo nella presente ripubblicazione. Precisiamo subito: non ripubblicheremo nel giornale il testo per intero; ne verrebbero fuori troppe puntate e nel tempo si perderebbe il filo dell'opera. Ne pubblicheremo in ogni caso ampi stralci, intervenendo solo nelle formulazioni lessicali che oggi, data l'evoluzione della stessa lingua scritta, appesantirebbero troppo lo scritto.

L'interesse di questo testo è dato dal fatto che è praticamente l'unico testo coerentemente marxista con fini divulgativi che offre una trattazione insieme storica e politica delle società umane basato sulle scoperte antropologiche dei vari Bachofen. Morgan ecc. che verso la fine dell'Ottocento approfondirono lo studio delle organizzazioni sociali umane liberi dal condizionamento ideologico della religione e dai precocetti scientifici che fino ad allora non avevano permesso indagini così puntuali, materialistiche e storiche. Naturalmente, come lo stesso Bebel afferma, il suo studio non avrebbe avuto la possibilità di concretizzarsi senza l'apporto decisivo di Engels e del suo «L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato».

Per quanto, a più di centovent'anni di distanza e soprattutto nei paesi occidentali, siano cambiati molto i costumi e le abitudini, tanto da far apparire le legislazioni vigenti molto più progressive del periodo in cui usciva lo scritto di Bebel, è indubbio che la donna soffra ancora dell'oppressione tipica della società divisa in classi e, come ribadiranno tutti i marxisti in tutti i tempi, in particolare di una doppia oppressione: l'oppressione da lavoro salariato (condizione che dialetticamente l'ha spinta verso un progresso sociale che prima le era vietato, l'indipendenza economica e la partecipazione alla vita politica) e da lavori domestici.

L'emancipazione della donna da questa doppia oppressione, sosterrà Bebel alla pari di ogni marxista conseguente, non potrà vedere la luce se non attraverso la lotta che pone al centro la questione operaia: l'emancipazione della donna e l'emancipazione della classe operaia vanno di pari passo, non si possono realizzare se non insieme, attraverso una lotta che ha per obiettivo la rivoluzione della classe del proletariato, l'unica classe in grado storicamente non solo di porsi il problema di emancipazre il genere umano da ogni tipo di oppressione - quindi anche l'oppressione della donna -  ma anche di realizzare il passaggio storico necessario perchè la specie umana raggiunga questo risultato. Il passaggio storico necessario consiste nella rivoluzione proletaria, nella conquiista del potere politico, nella dittatura di classe del proletariato esercitata dal partito di classe, e quindi negli interventi dispotici che solo la dittatura proletaria è in grado di attuare al fine di distruggere tutto l'impianto sovrastrutturale politico, ideologico, culturale, amministrativo ed economico della società capitalistica, della società borghese.

Lo scritto di Bebel contribuisce a comprendere i passaggi storici che le società umane hanno attraversato fino a raggiungere l'ultima società di classe storicamente possibile, cioè la società capitalistica, e a comprendere la necessità della distruzione di questa società perché la sopecie umana possa effettivamente passare dalla sua preistoria di classe alla società di specie, al comunismo. Cominciamo dunque con la pubblicazione del primo capitolo: La donna nel passato.

 

 

I.  La donna nel passato

 

La donna  e l’operaio già da lungo tempo hanno questo di comune: che ambedue sono oppressi, e che l’oppressione, malgrado i cambiamenti di forma cui andò soggetta, permane sempre.

Se esaminiamo la storia, vediamo che tanto la donna quanto l’operaio sono giunti soltanto da poco tempo ad acquistare la coscienza della loro condizioni servile; ma la donna meno dell’operaio, poiché essa di regola si trova in una condizione inferiore a lui e da lui stesso fu ed è considerata e trattata come un essere inferiore.

La schiavitù sociale, che perdura per una lunga serie di generazioni, finisce col diventare un’abitudine. L’eredità e l’educazione fanno sì che ambedue le parti la considerino una cosa “secondo natura”. E perciò ancor oggi la donna sopporta la sua condizione subordinata come una cosa che va da sé, naturale, e costa non poca fatica a persuaderla che è indegna di lei e che deve energicamente adoperarsi per ottenere nella società una posizione pari a quella dell’uomo sotto tutti i rispetti.

Ora, poiché tanto la donna quanto l’operaio si trovano in parecchi riguardi in una condizione sociale simile ed ambedue sono oppressi, la donna ha un diritto di priorità di fronte all’operaio. La donna è il primo essere umano che cadde in servitù, e fu schiava prima ancora che lo schiavo esistesse.

Tutte le oppressioni sociali hanno la loro radice nella dipendenza economica dell’oppresso dall’oppressore. In questa condizione si trova la donna dai tempi più remoti fin o ad oggi.

Per quanto risaliamo col pensiero ad indagare nella società umana, troviamo quale prima forma di consorzio umano l’orda. Benché l’Honnegger ritenga nella sua Storia generale della coltura, che ancora oggi si trovano nella poco esplorata Borneo degli individui selvaggi, che vivono isolatamente, e quantunque anche il De Hügel affermi che nelle selvagge regioni montuose delle Indie furono scoperte delle coppie di uomini che, simili alle scimmie, s’arrampicavano sugli alberi, non appena si muoveva loro incontro, tuttavia non abbiamo nozioni più precise su questi fenomeni, i quali, quand’anche venissero accertati, non servirebbero ad altro che a confermare le congetture e le ipotesi sulla origine e sullo sviluppo della razza umana.

Si deve ammettere senz’altro che là dove nacquero uomini, essi derivarono da coppie separate; ma si deve anche ammettere che, non appena formatosi un più grosso numero di quelli che uscirono da uno stesso ceppo, si organizzarono sotto forma di orde, per soddisfare, mercé gli sforzi comuni, ai bisogni ancora primitivi dell’esistenza e dell’alimentazione, e per difendersi altresì contro il loro comune nemico, le fiere.

Questo stato selvaggio, sul quale non possiamo in nessun modo avere delle prove più attendibili, è venuto in ogni caso a confermare indubbiamente quello che abbiamo appreso intorno ai vari gradi di cultura delle popolazioni selvagge ancora esistenti, ovvero conosciute nei tempi storici. Se l’uomo non è venuto al mondo perfetto come un essere di più alta cultura, come insegna il mito biblico, per ordine di un creatore, egli ha dovuto percorrere in un processo evolutivo, lento ed infinitamente lungo, i più svariati stadi, per salire a poco a poco all’attuale grado di cultura, dopo periodi alternati di regresso e progresso, e dopo continue differenze coi suoi simili in tutte le parti del mondo e in tutte le zone.

E mentre grandi e numerosi popoli e nazioni raggiungono i più alti gradi della cultura in una parte della terra, vediamo altri popoli e razze vivere nelle più diverse parti del globo nei più diversi gradi di sviluppo intellettuale, i quali ci danno così un’immagine del nostro stesso passato e additano la via che l’umanità la percorso durante la sua evoluzione.

Una volta fissati i punti di vista comuni, perché generalmente riconosciuti giusti, secondo i quali lo studio della cultura deve istituire le sue ricerche, avremo una immensa serie di fatti, i quali getteranno nuova luce sulle relazioni degli uomini nel passato e nel presente, e molti avvenimenti, che oggi non comprendiamo e che, giudicando superficialmente, ci sembrano irragionevoli ed anche immorali, appariranno naturali e spiegabili. Il velo che avvolgeva la storia più remota dello sviluppo della nostra razza, fu squarciato dalle ricerche che i signori Morgan e Bachofen (1) esposero nelle loro opere, e si fece la luce sui fatti e risultati, che furono poi coordinati, sistemati e storicamente provati da Federico Engels (2).

La narrazione nella forma chiara e limpida di cui Engels ha vestito la sua opera magistrale, gettò luce vivissima sopra molti avvenimenti e fenomeni, fino ad oggi completamente incomprensibili ed in parte apparentemente assurdi, della vita di popoli e di nazioni varie nel rispettivo grado di sviluppo intellettuale, ed ora appena possiamo gettare uno sguardo entro l’edificio che la società umana ha costruito nel corso del tempo. E subito ci avvediamo che le nostre idee sul matrimonio, sulla famiglia, sul comune, sullo stato, riposavano tutte su concetti assolutamente falsi, i quali ora si presentano come immagini fantasiose, poiché vi manca ogni fondamento di verità.

Ma quanto abbiamo detto e dimostrato intorno al matrimonio, alla famiglia, al comune, allo stato, vale specialmente per la missione e la posizione della donna, alla quale nei diversi periodi di sviluppo era assegnato un posto, per quanto importante, altrettanto vario; un posto che differisce sostanzialmente da quello che oggi si proclama come “sempre esistito”.

Morgan, confortato in ciò da Engels, divide la preistoria dell’umanità in tre periodi principali: stato selvaggio, barbarie e civiltà, e suddivide ognuno dei primi due in tre gradi: inferiore, medio e superiore, caratterizzati da mutamenti e miglioramenti diretti a procacciarsi i mezzi di sussistenza.

Perciò Morgan è indotto giustamente a vedere, nelle trasformazioni subite in certi periodi da tutto l’organismo dei popoli mediante i progressi nel processo di produzione, dunque nell’acquisto dei mezzi di sussistenza, il momento principale dello sviluppo della cultura.

Riassumendo, il periodo dello stato selvaggio forma nella scala della cultura l’infanzia della schiatta umana, durante la quale essa vive in parte sugli alberi e si nutre principalmente di frutti e di radici, ma incomincia pure a parlare il linguaggio articolato. Sul gradino medio comincia a cibarsi degli animali più piccoli (pesci, gamberi ecc.) e a impiegare il fuoco. Si fabbricano armi, anzitutto mazze e lance, e con ciò inizia la caccia ed anche la guerra con le orde e tribù vicine. In tale periodo compare anche l’antropofagia, che oggi è in vigore ancora presso alcune tribù e popolazione dell’Africa centrale, dell’Australia e della Polinesia. Il grado superiore dello stato selvaggio è caratterizzato dal perfezionamento delle armi ad archi e frecce; comincia la tessitura a mano, il lavoro dei canestri a trecce di corteccia o di giunchi, la costruzione di strumenti e utensili di pietra levigata, e quindi la lavorazione del legno per la costruzione di canotti e capanne. Le forme della vita sono già divenute quindi più svariate e gli strumenti e i mezzi, che vengono usati per procacciarsi un più copioso nutrimento, consentono la sussistenza di più grandi associazioni umane.

Morgan stabilisce, come principio del primo grado della barbarie, l’introduzione delle stoviglie. Più tardi si addomesticano e si allevano gli animali, e si ottiene con ciò la produzione della carne e del latte, pelli, corna e peli, per servirsene nei modi più vari.

A poco a poco comincia la coltura delle piante, all’ovest del mais, all’est quella di quasi tutte le specie di biade conosciute, ad eccezione del mais.

Il periodo intermedio dell’epoca della barbarie importa all’est l’addomesticamento sempre più esteso degli animali, all’ovest la coltura delle piante alimentari, mediante l’inaffiamento artificiale. Comincia pure l’uso dei mattoni asciugati al sole e delle pietre nella costruzione degli edifici. L’addomesticamento e l’allevamento degli animali richiede la formazione di mandrie e porta alla pastorizia, alla quale si collega un ulteriore perfezionamento dell’agricoltura.

Di qui gli inizi di una maggiore stabilità di dimora e la graduale scomparsa dell’antropofagia.

Finalmente, il grado ultimo dello stato di barbarie comincia dalla fusione dei minerali di ferro e dalla scoperta dell’alfabeto. Si inventa il vomero di ferro, che rende possibile una coltura estensiva; si adoperano la scure e la zappa di ferro, che facilitano il disboscamento. La lavorazione del ferro sviluppa poi molte altre energie che danno alla vita un aspetto del tutto diverso. Gli utensili di ferro agevolano la costruzione delle case, delle navi e dei carri; con la lavorazione dei metalli cominciano le arti e i mestieri; la tecnica delle armi si perfeziona, le città si circondano di mura. Sorge l’architettura come arte. Mitologia e poesia acquistano, con la scoperta dell’alfabeto, il mezzo di conservarsi e di diffondersi.

E questo nuovo aspetto della vita si svolge e getta le basi delle trasformazioni sociali in modo speciale in Oriente e nei paesi che fanno corona al mare Mediterraneo, soprattutto in Egitto, in Grecia e in Italia. Furono questi paesi che, nel corso dei secoli cooperarono efficacemente allo sviluppo della civiltà in Europa e in tutto il mondo.

Ma lo sviluppo della schiatta umana, durante i periodi dello stato selvaggio e della barbarie, aveva anche rapporti sociali di razza suoi caratteristici, che si distinguono notevolmente da quelli dei tempi posteriori.

Bachofen e Morgan hannos seguito le tracce di questi rapporti con acute investigazioni; Bachofen, studiando profondamente tutte le opere degli antichi e moderni per scoprire la natura dei fenomeni che nel campo della mitologia, della leggenda e della storia ci sembrano tanto strani, e tuttavia hanno così grande affinità coi fenomeni e gli avvenimenti dei tempi posteriori e in parte con quelli di oggi; Morgan, passando 10 anni fra gli Irochesi che ancora risiedono nello Stato di New York, e facendovi osservazioni onde attinse cognizioni nuove e inaspettate intorno alle relazioni sociali, di famiglia e di affinità delle razze così dette indiane, sulla cui base appena le osservazioni altronde raccolte ricevettero delucidazioni e spiegazioni giuste.

Entrambi, Bachofen e Morgan, scoprirono, ciascuno alla sua maniera, che, a fondamento delle relazioni fra i sessi nelle antiche popolazioni estinte, come in altre ancora esistenti, ma rimaste indietro nello sviluppo della cultura, sta un sistema di famiglia e di parentela che è completamente diverso dal nostro, che viene tanto volentieri rappresentato ed è considerato in vigore da lungo tempo e perciò naturale, ma che costituiva indubbiamente il principio fondamentale dello sviluppo intellettuale dei nostri predecessori.

Quando Morgan viveva fra gli Irochesi esisteva colà una particolare forma di matrimonio monogamico, facilmente risolvibile da entrambe le parti, che egli designa col nome di “famiglia accoppiata”. Ma egli trovò anche che le designazioni per il grado di parentela, come padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella, sebbene a nostro avviso non possa esservi dubbio di sorta sul loro uso, erano assai diverse. L’Irochese chiama figliuoli e figliuole suoi non soltanto i propri, ma anche quelli di tutti i suoi fratelli, i quali lo chiamano padre. Viceversa la donna Irochese chiama figliuoli e figlie suoi non solo i propri nati, ma anche tutti quelli delle sue sorelle, dai quali viene chiamata madre. All’incontro chiama i figli dei suoi fratelli, nipoti, e questi la chiamano zia. I figli di fratelli si chiamano fratelli e sorelle, e altrettanto i figli di sorelle. Al contrario i figli di una donna e quelli di suo fratello si chiamano reciprocamente cugini e cugine. Ne viene la strana conseguenza che la designazione della parentela non si regola nel nostro senso secondo il grado, ma secondo il sesso del coniugato.

Se non che, questo sistema di parentela è in pieno vigore non solo presso tutti gli Indiani d’America, gli aborigeni dell’India, le stirpi druidiche del Dekan e quelle Gauresi dell’Indostan, ma, giusta le ricerche di Bachofen, tali relazioni di famiglia esistettero in origine dappertutto, come esistono indubbiamente anche oggi presso molte popolazioni dell’alta Asia e dell’Asia posteriore, dell’Africa e dell’Australia. Se poi, di fronte alle ricerche di Morgano e Bachofen, si esaminano quelle sulle popolazioni selvagge e barbare ancora esistenti, allora si vedrà che quello che Morgan trovò fra gli Irochesi e Bachofen, sia pure con cognizioni non completamente esatte, presso moltissime popolazioni dell’antichità, è un organismo sociale che costituì, in nodo eguale o simile, la base di ogni sviluppo umano su tutta la terra.

Ma le ricerche di Morgan rivelarono ancora altri fatti interessanti. Mentre la famiglia degli Irochesi è in una inesplicabile contraddizione con le designazioni della parentela da essi usate, si scopre poi che ancora nella prima metà di questo secolo [del 1800, nrd] era in vigore nelle isole Sandwich (Hawaii) una costituzione famigliare, corrispondente di fatto al sistema di parentela che presso gli Irochesi non esisteva che di nome, ma il sistema di parentela vigente ad Hawaii, non corrispondeva poi alla forma di famiglia allora di fatto esistente, bensì accennava ad una forma di famiglia più antica, ancor più primitiva, ma scomparsa.

Là tutti i figli di fratelli e sorelle erano senza eccezione fratelli e sorelle, e quindi non erano considerati soltanto come figli comuni della loro madre e delle sue sorelle, ovvero del padre e dei suoi fratelli, ma come figli di tutti i fratelli e sorelle dei loro genitori, senza nessuna diversità. Il sistema di parentela in uso ad Hawaii corrispondeva dunque ad un grado di sviluppo ancora al di sotto della forma di famiglia esistente in realtà. Vi era dunque questo di caratteristico: che ad Hawaii, come presso gli Indiani dell’America settentrionale, rispettivamente vigevano due diversi sistemi di parentela che non corrispondevano più allo stato reale, ma sono superati da una forma più alta.

Morgan dichiara ciò là dove dice:

«La famiglia è l’elemento attivo, essa non è mai stazionaria, ma progredisce da una forma più bassa ad una più alta nella misura stessa che la società sale da un gradino più basso ad uno più alto. Invece i sistemi di parentela sono passivi; e notano soltanto a lunghi intervalli di progressi che la famiglia ha fatto nel corso del tempo, e un radicale mutamento sentono soltanto allora quando la famiglia si è radicalmente mutata». I fautori dello statu quo sostengono con singolare predilezione e pertinacia il concetto, da loro affermato vero e intangibile, che fino dai tempi antichissimi la forma della famiglia fu identica a quella d’oggi e che tale deve continuare affinché la cultura generale non corra nessun pericolo.

Se non che, questa opinione, dopo le scoperte di Morgan, è evidentemente falsa e insostenibile, come noi, con altri argomenti, dimostreremo più innanzi. La forma di una costituzione di famiglia esistente in un’epoca determinata non può essere disgiunta dalle condizioni sociali dell’epoca; essa corrisponde ai bisogni ed al grado di cultura dei singoli periodi e si mutano nella stessa misura che si mutano le basi dei rapporti sociali tra gli uomini e le loro condizioni di vita.

Oggi, dunque, lo studio delle origini storiche non permette che si revochi più in dubbio il fatto, che nei tempi in cui lo sviluppo si trovava ad un livello infimo, i rapporti fra i due sessi erano del tutto diversi da quelli dei tempi meno remoti, e che dovettero sorgere a formarsi delle condizioni, le quali, esaminate alla stregua delle idee moderne, sembrano mostruose, un vero pantano di scostumatezza. Ma, come ogni grado di sviluppo sociale dell’umanità ha le sue proprie condizioni di produzione, così ha pure il suo codice morale, il quale non è altro che lo specchio del suo stato sociale. E’ morale quanto è usanza, ed usanza è soltanto ciò che risponde alla più intima essenza, cioè ai bisogni di un’epoca determinata.

Morgan, Bachofen e tutti quelli che si sono maggiormente addentrati nello studio delle origini storiche, vennero alla conclusione che nel grado più basso dello stato selvaggio dell’umanità il commercio sessuale nelle singole razze era costituito in modo che ogni donna apparteneva ad ogni uomo e del pari ogni uomo apparteneva ad ogni donna, cosicché non vi era alcuna differenza di età e di nascita, ma una generale mescolanza (promiscuità). Dunque, tutti gli uomini sono poligami e tutte le donne vivono in poliandria. I figliuoli sono comuni  a tutti. Sussiste non solo comunanza di donne e di uomini, ma anche comunanza di figli.

Stradone riferisce (66 anni prima della nostra êra) che, presso gli Arabi, i fratelli usavano coricarsi con le sorelle e con la propria madre.

Del resto va notato per incidenza, che la moltiplicazione degli uomini non sarebbe stata altrimenti possibile che mediante l’incesto, ovunque è ammessa come per esempio nella Bibbia, la discendenza da una sola coppia. Anzi la Bibbia, su questo punto scabroso, cerca di cavarsela alla bell’e meglio, ma non lo può fare se non ammettendo delle cose che stanno in contraddizione con la sua dottrina della creazione di una prima e unica coppia. Morgan ammette che da questo stato generale di promiscuità sessuale si sia sviluppata ben presto una forma più elevata di rapporti sessuali, che egli designa col nome di parentela di sangue.

Qui i gruppi che si trovano in relazione sessuale sono divisi per generazioni, in modo che tutti gli avi e le ave, il marito e la moglie, come i loro figliuoli e i discendenti da questi, formano,  entro i confini della famiglia, un circolo di coppie comuni.

Qui, dunque, all’opposto della primitiva forma di famiglia, in cui esiste generale promiscuità sessuale, senza distinzione di età, abbiamo il fatto che una generazione è esclusa dal commercio sessuale con l’altra. Ma codesto commercio permane tra fratelli e sorelle, cugini e cugine di primo e secondo grado e di grado più remoto. Tutti costoro sono bensì l’uno dell’altro sorella e fratello, ma sono anche l’uno verso l’altro maschio e femmina. A questa forma di famiglia corrisponde un rapporto  di parentela uguale a quello che esisteva, benché soltanto di nome, nella prima metà del nostro secolo [l’Ottocento, Ndr] ad Hawaii. All’incontro, giusta il sistema di parentela indo-americano, fratello e sorella non possono essere mai padre e madre dello stesso figliolo; mentre lo possono giusta il sistema di Hawaii. La famiglia basata sulla consanguineità può essere stato il sistema vigente ai tempi di Erodono presso i Massageti, a proposito dei quali Erodono scrive: «Ciascuno sposa una donna, ma tutti possono usarne». Erodono verte in errore nella prima proposizione, perché quanto egli dice poi esclude l’idea della monogamia. Egli continua: «Non appena un maschio si è invaghito di una donna, appende la sua faretra sul davanti del carro e si unisce tranquillamente a lei… Poi pianta in terra il bastone, come segno ed immagine dell’opera sua…. Il concubito è esercitato pubblicamente» (3).

Lo stesso si narra dagli antichi scrittori degli Etiopi e degli Indiani. In Egitto, ove per migliaia di anni usarono identiche costumanze,  il cane, quale simbolo di questa forma delle relazioni sessuali, era oggetto di religiosa venerazione. Dell’accoppiamento all’aperto è fatta menzione anche nella Bibbia (2 Versetto di Samuele, 20 e segg.), dove Ahitofel consiglia Assalonne, insorto contro David, di giacere coram populo con le concubine del re, per esprimergli così l’assunzione del comando e dei diritti dell’uomo; consiglio posto in atto da Assalonne sul tetto di casa sua.

Alla famiglia costituita a base di consanguineità succede, secondo Morgan, una terza forma più elevata, che egli chiama famiglia Punalua. In questa è vietato l’accoppiamento non soltanto tra genitori e figli, ma anche tra fratelli e sorelle. Questa comincia dunque con l’esclusione dei fratelli e delle sorelle carnali, e precisamente da parte materna.

La prova della paternità è impossibile là dove una donna ha più mariti. La paternità è puramente una finzione; essa riposa, come Goethe fa dire a Federico, «soltanto sulla buona fede». Se essa è spesso dubbia nella monogamia, è manifestamente impossibile nella poliandria, mentre la discendenza dalla madre è indubbia e indiscutibile. Quindi, fin da principio si stabilì che la discendenza dalla madre valesse quale norma e criterio per la discendenza. Siccome poi tutte le trasformazioni radicali nei rapporti sociali si compiono lentamente, così anche il trapasso dalla famiglia a base di consanguineità alla famiglia Punalua, ha richiesto un lungo periodo di tempo e fu interrotto da molti regressi che si possono notare anche in tempi molto più avanzati.

L’occasione esterna immediata che favorì lo sviluppo della famiglia Punalua (Punalua vale compagno, compagna) può essere stata la necessità di suddividere il numero molto ingrossato dei membri della famiglia, per poter pretendere nuovi terreni per il pascolo o per l’agricoltura.

E’ anche verosimile che col graduale sviluppo della cultura si cominciasse, un po’ alla volta, a comprendere il danno e la sconvenienza del concubito tra fratelli e sorelle; d’onde seguì che l’aumentata popolazione rese possibile una limitazione che, fino allora, con una popolazione più esigua, s’era imposta da se stessa. E’ anche possibile che l’allevamento delle mandrie abbia fatto conoscere alle genti della stessa razza il danno delle relazioni incestuose. Che si avessero importanti esperienze nell’allevamento del bestiame già nei tempi remoti è provato dal modo in cui Giacobbe seppe accoccarla (4) a Laban, suo suocero, provvedendo nel proprio interesse alla nascita di agnelli e capre chiazzate che gli sarebbero toccate in eredità (Libro I di Mosè, cap. 29, vers. 33 e segg.).

Quindi, nella famiglia Punalua si formò l’unione nei sessi in modo che una o più serie di sorelle di una famiglia si sposavano con una o più serie di fratelli di un’altra famiglia. Le sorelle germane o le cugine di primo e secondo grado e di grado anche più lontano, erano dunque le donne comuni dei loro comuni uomini i quali non potevano essere i loro fratelli. I fratelli germani (5) o i cugini di vario grado erano i mariti comuni delle loro donne comuni, le quali non potevano essere le loro sorelle. Cessato l’incesto, la nuova forma della famiglia portò indubbiamente ad un più rapido e vigoroso sviluppo delle razze, e procurò a quelle che accettarono questa forma di unione domestica un vantaggio su quelle che avevano conservato il vecchio sistema di relazioni. E qui è opportuno rilevare che in origine le differenze fisiche e psichiche fra uomo  e donna erano molto meno spiccate di quelle della società moderna. In quasi tutte le popolazioni selvagge o barbare, le differenze nel peso e nel volume del cervello sono minori che presso i popoli inciviliti. Presso le prime, anche nella forza muscolare e nell’agilità le donne stanno di poco al di sotto degli uomini. E di ciò abbiamo una prova non solo nella testimonianza di antichi scrittori sui popoli che appartenevano al diritto materno, ma lo provano altresì le condizioni esistenti presso la popolazione degli Ascianti nell’Africa occidentale e l’esercito delle Amazzoni del re del Dahomey. Si possono citare anche i giudizi di Tacito sulle donne dei Germani (6). I rapporti di parentela risultanti dall’unione famigliare testé descritta, la famiglia Punalua, erano dunque i seguenti: i figli delle sorelle di mia madre sono figliuoli suoi, e i figli dei fratelli di mio padre sono suoi figli, e tutti insieme sono miei fratelli e mie sorelle. Invece i figli dei fratelli di mia madre sono di lei nipoti, e i figli delle sorelle di mio padre sono nipoti di lui, e tutti insieme sono miei cugini e mie cugine. Inoltre, i mariti delle sorelle di mia madre sono anche suoi mariti e le mogli dei fratelli di mio padre sono anche mogli sue, ma le sorelle di mio padre e i fratelli di mia madre sono esclusi dalla comunione della famiglia, e i loro figliuoli sono cugini e cugine miei (7).

Col progredire della cultura cessa il commercio sessuale tra fratelli e sorelle e va cessando a poco a poco anche tra i collaterali più lontani per parte di madre. Si forma invece un nuovo sistema basato sulla consanguineità, quello della Gens, che nel suo organismo primitivo è costituito da una serie di sorelle carnali più lontane insieme ai loro figli e ai loro fratelli germani o più remoti per parte di madre. La Gens ha una progenitrice dalla quale derivano le discendenti femminili per generazioni. Ma i mariti di queste sorelle non possono essere più i fratelli delle loro spose, anzi non appartengono più nemmeno allo stesso gruppo di parentela o Gens delle loro mogli, bensì a quello delle loro sorelle. All’incontro, i figli di questi mariti entrano nel gruppo della famiglia delle madri loro, perché la discendenza si regola dalla madre. La madre è il capo della famiglia, da cui il «diritto materno» che costituisce la base dei rapporti di famiglia e di eredità. «Il Licio, interrogato sulla sua famiglia – dice Erodono – enumera le madri di sua madre. Le figlie ereditano».

In quel tempo si parla di matrimonium, non di patrimonium, di mater familias non di pater familias, e il paese natìo si chiama paese materno. Come in precedenti forme di famiglia, anche la Gens si basava sulla comunione dei beni e si reggeva a sistema da economia comunistica. La donna conduce e guida questa comunione di famiglia, gode quindi anche di una grande reputazione tanto in casa quanto negli affari della stirpe; è arbitra e giudice, provvede ai bisogni del culto ed è sacerdotessa.

Il frequente apparire di regine e principesse nell’antichità, la loro decisiva influenza anche là dove regnano i loro figli, per es., nell’antica storia dell’Egitto, è la conseguenza del diritto materno. Anche la mitologia assume in quel periodo carattere preponderantemente muliebre: Demetra, Cerere, Latona, Iside, ecc. La donna è ritenuta inviolabile, il matricidio è il più grave di tutti i reati, e chiama tutti gli uomini a vendicarlo.

La vendetta di sangue è lo sfogo dell’offesa recata all’onore e agli interessi della famiglia e della stirpe. La difesa delle donne e della casa materna, stimola gli uomini ad atti del massimo valore. Gli effetti del diritto materno, della ginecocrazia, si manifestarono in tutti i rapporti sociali degli antichi popoli, presso i babilonesi, gli Assiri, gli Egiziani, i Greci prima del periodo eroico, le popolazioni italiane al tempo della fondazione di Roma, gli Sciti, i Galli, gli Iberi e i Cantari, i Germani di Tacito, ecc. La donna ebbe allora nella famiglia e nella vita pubblica una posizione che poi non riuscì mai più ad occupare.

Sotto il regime della ginecocrazia regnava generalmente uno stato di relativa pace. Le relazioni erano ristrette, primitivo il metodo di vita. Le singole stirpi vivevano possibilmente separate le une dalle altre, rispettando i confini. Ma se una stirpe veniva assalita da un’altra, gli uomini erano obbligati alla difesa cui gagliardamente cooperavano le donne. Erodono narra che presso gli Sciti le donne prendevano parte al combattimento; e la giovinetta non avrebbe potuto maritarsi senza aver ucciso un nemico.

E’ noto dalle descrizioni di Cesare e di Tacito qual posto prendessero al combattimento le donne dei Germani. Ma anche nella Gens esse esercitavano, a seconda delle circostanze, un dominio rigoroso, e guai all’uomo che fosse stato troppo pigro o troppo inetto a prestare l’opera per il generale sostentamento. Gli si chiudevano le porte in faccia, ed allora, o tornava fra la sua Gens in cui difficilmente trovava cordiale accoglienza, o si recava presso un’altra Gens verso di lui più indulgente.

Che questo carattere  di vita famigliare  esista ancor oggi nell’interno dell’Africa, ebbe a constatarlo, con sua grande sorpresa, Livingstone, come narra nel suo libro: Missionary travels and researches in southern Africa. London, 1857. Allo Zambesi si imbatté nei Balorda, una razza di neri belli e vigorosi, che attendono all’agricoltura, e vi trovò la conferma delle relazioni fatte dai Portoghesi che a lui sulle prime parvero incredibili; e cioè che le donne vi godevano una posizione affatto privilegiata. Siedono a Consiglio; un giovane che si fa sposo deve passare dal suo villaggio in quello della sposa ed obbligarsi a provvedere di legna da ardere per la madre della sposa e per tutta la vita; ma, in caso di separazione, i figli restano di proprietà della madre. La moglie, dal canto suo, deve provvedere al nutrimento del marito. Sebbene scoppiassero di quando in quando dei litigi fra uomini e donne, Livingstone rilevò che gli uomini non si ribellavano, mentre i mariti che avevano ingiuriato le loro donne venivano puniti in una maniera dolorosa, e cioè col digiuno.

«Il marito – narra Livingstone – viene a casa per mangiare, ma una moglie lo manda dall’altra, ed egli finisce col non ricevere nulla da alcuna. Stanco ed affamato, si arrampica su di un albero nel punto più popoloso del villaggio, e dice con voce lamentosa: Udite, udite! Io credevo di aver sposato delle donne, ma esse sono per me delle streghe! Io sono celibe, non ho neppure una donna! Vi par giusto per un signore come me?». Se una, a sfogo della sua ira, passa a vie di fatto contro un uomo, viene condannata a portare sulla schiena suo marito dalla corte del capo fino a casa sua. E mentre fa la strada col suo carico, gli altri mariti la insultano e la beffeggiano, laddove d’altro lato le donne la incoraggiano gridandole: «Trattalo come merita; fagli ancora ciò che gli hai fatto».

A mano a mano che la popolazione aumenta, si forma una serie di gentes costituite da sorelle, che alla loro volta danno vita a gentes di figlie. Di contro a queste appare la gens della madre, come fratria. Più fratrie costituiscono la tribù. Tale organizzazione sociale è tanto solida da formare la base dell’organizzazione militare dei vecchi stati, ancora quando l’antica costituzione gentilizia era già disciolta.

La tribù si divide in altre tribù e tutte hanno la stessa costituzione e in ognuna delle quali si trovano ancora le vecchie gentes. Ma la costituzione gentilizia si scavò da se stessa la fossa, col proibire i matrimoni fra sorelle e fratelli e tra parenti per parte di madre, fino ai più lontani. Per effetto dei rapporti reciproci, sempre più stretti, fra le singole gentes, il divieto di matrimonio fra le varie gentes discendenti per parte di madre diventa alla lunga inattuabile e cade da sé. Altri rapporti minano in misura ancora più grave la costituzione esistente e le danno l’ultimo colpo.

Finché la produzione dei mezzi necessari all’esistenza era  piccola e si appagava di soddisfazioni molto modeste, l’attività dell’uomo e della donna era in sostanza la stessa. Cresciuta la divisione del lavoro, non solo si divisero le funzioni ma anche i guadagni. La pesca, la caccia e l’allevamento del bestiame richiedevano cognizioni speciali e la costruzione di strumenti e utensili divennero preferibilmente attività caratteristica degli uomini. L’agricoltura allargò di molto la cerchia delle attività e creò una copia di beni da bastare ai bisogni più elevati di quel tempo. L’uomo che, in tale periodo di sviluppo, eccelleva per operosità, diventò il vero padrone e signore di queste fonti di ricchezza, che a loro volta formavano la base del commercio il quale creò nuovo rapporti e mutamenti sociali.

Aumentati la popolazione e il bisogno di più estesi possessi per i pascoli e per l’agricoltura, cominciarono le razzie e le lotte per il possesso dei fondi e dei terreni migliori, e il bisogno di braccia per lavorarli e costruirvi. E quanto più grande era il numero di queste forze, tanto maggiore diventava la ricchezza dei prodotti e delle mandrie. Queste lotte condussero alla schiavitù dei vinti e al ratto delle donne. Gli uomini divennero schiavi e le donne furono applicate ai lavori o divennero un oggetto di piacere per i vincitori. E con ciò furono introdotti contemporaneamente due elementi nella vecchia costituzione gentilizia, che con la stessa non si accordavano più.

Inoltre, a mano a mano che si manifestano delle differenze tra le singole attività e che cresce il bisogno di strumenti, utensili, armi ecc., sorge l’arte meccanica, che prende uno sviluppo a sé e si emancipa dall’agricoltura. Si forma quindi una popolazione cittadina, dedita preferibilmente alle arti, vicino a un’altra popolazione dedita all’agricoltura e con interessi del tutto opposti. Con ciò il principio unitario della vecchia costituzione gentilizia venne distrutto.

Sopraggiunge un altro momento. Secondo il diritto materno, e cioè fintanto che la discendenza si calcolava soltanto in linea femminile, era costume che i gentili che erano fra loro imparentati ereditassero dai loro defunti compagni gentili. Il patrimonio restava alla gens. I figli del padre defunto non appartenevano alla sua gens, ma a quella della madre; e perciò essi non potevano ereditare dal padre, la cui sostanza, dopo la sua morte, ritornava alla sua gens. Col nuovo stato di cose, i beni del padre, che era padrone di mandrie e di schiavi, di armi e provvigioni, operaio o commerciante, non passavano, dopo la sua morte, ai figli, ma ai suoi fratelli e sorelle, e ai figli delle sorelle, oppure ai successori di queste. I figli, poi, non pigliavano nulla. L’urgenza di mutare un  simile stato di cose era quindi vivissima, e fu mutato. Ne derivò una condizione di cose, che non era ancora la monogamia, ma le si avvicinava; ne derivò, cioè, la famiglia accoppiata.

Un determinato uomo viveva insieme ad una determinata donna, e viceversa, e i figli nati da questa relazione erano i loro figlioli.

Queste famiglie accoppiate si moltiplicarono da un lato perché gli impedimenti al matrimonio, dipendenti dalla costituzione gentilizia, rendevano più difficili i connubi; dall’altro perché le ragioni economiche sopraccennate facevano apparire desiderabile questa forma di vita domestica.

La vecchia costituzione gentilizia fu seppellita e divenne assolutamente impossibile. Le tenne dietro la caduta del diritto materno, che segnò pure la caduta del predominio della donna.

Il diritto del padre venne a pigliare il posto del diritto materno; in luogo della famiglia accoppiata venne poi la monogamia, che aveva lo scopo di creare degli eredi per il patrimonio privato, che nel frattempo si era venuto accumulando.

Poi l’uomo si arrogò il diritto di aggiungere alla legittima moglie tante concubine quante le sue condizioni gli consentivano di mantenere, e i figli di queste concubine furono trattati come legittimi, quando la moglie legittima o principale era sterile.

A tale riguardo troviamo due passi importanti nella Bibbia. Uno è nel Libro I di Mosè, capitolo 16, versetti 1 e 2: «Sarah, moglie di Abramo, non gli partoriva figlioli; ma essa aveva una fantesca egiziana, di nome Agar. Ed essa disse ad Abramo: Il Signore mi ha fatta sterile: accoppiati con la mia fantesca; e Abramo obbedì alla voce di Sarah».

L’altro passo meritevole di osservazione si legge nel Libro I di Mosè, capitolo 30, versetto 5 e seguenti ove è detto: «Rachele, vedendo che non dava figlioli a Giacobbe, invidiò sua sorella e disse a Giacobbe: Creami dei figli, se no io muoio. Ma Giacobbe si adirò con Rachele e disse: Io non sono Dio, il quale ti ha negato il frutto del ventre. Ma essa soggiunse: Vedi, eccoti Bilha, mia fantesca; accoppiati con essa, affinché partorisca sul mio grembo ed io ancora avrò progenie da lei. E gli concesse quindi in moglie Bilha, sua serva, e Giacobbe giacque con essa». Si vedano, inoltre, i passi della Bibbia sulla poligamia dei re di Giudea, David, Salomone ecc. Anche la visita della regina di Saba a Salomone è caratteristica per le relazioni sessuali di quel tempo. Consacrata la soggezione e la servitù della donna, questa divenne oggetto di disprezzo e di abiezione.

Il diritto materno significò comunismo; il diritto paterno significò origine e predominio della proprietà privata, e ad un tempo oppressione e servitù della donna.

È difficile, e quasi impossibile, dimostrare particolareggiatamente in quale modo si sia compiuto tale mutamento. Ma è certo che la prima grande rivoluzione che si compì in seno all’umanità, come non si effettuò contemporaneamente presso le civiltà antiche, così non si è compiuta dappertutto esattamente allo stesso modo. Ed è anche certo che i Greci, e fra questi gli Ateniesi, furono i primi, fra i popoli antichi, che fecero imperare i diritto del maschio.

Engels ammette che questa grande rivoluzione si sia effettuata in modo del tutto pacifico e che, concorrendo le condizioni tutte favorevoli alla consacrazione del diritto nuovo, non ci fu bisogno che di un semplice voto delle gentes per sostituire il diritto del padre a quello della madre.

Bachofen è di parere diverso; egli narra, sulla scorta di molte notizie, più o meno degni di fede, raccolte dagli antichi scrittori, che le donne opposero una vigorosa resistenza a questa trasformazione sociale, e specialmente le leggende del regno delle Amazzoni, che si ripetono con molteplici variazioni nell’antica storia dell’Asia e dell’Oriente e vengono a galla anche nell’America del Sud, furono indizio ed effetto della lotta delle donne contro il nuovo ordinamento.

Ma di ciò non vogliamo occuparci. È certo soltanto che le antiche costumanze e abitudini e gli usi della cultura che vi si collegavano dominarono gli spiriti ancora per molti secoli ed erano ancora praticati dopo che se ne era perduto il vero significato che con gran fatica soltanto si riesce a penetrare.

Come il cristianesimo adattò a quasi tutte le sue più grandi solennità gli usi religiosi e le solennità pagane, ma sapendo vestirle di un significato nuovo e ad esso conveniente (rammentiamo soltanto la festa di Jul degli antichi Germani, alla quale venne sostituito il Natale cristiano), così esistono presso i diversi popoli costumi e usanze che nell’origine loro ricordano il tempo del diritto materno, senza che fino a poco tempo fa se ne avesse alcuna idea.

Ad Atene, dove l’antico diritto materno dovette far posto assai presto e, a quanto sembra, violentemente, al diritto paterno, questo mutamento è assai evidente, e tutto il loto tragico di esso è dato in modo sorprendente nelle Eumenidi (8) di Eschilo.

L’antefatto è il seguente:

Agamennone, re di Micene, marito di Clitennestra, per volere dell’oracolo sacrifica sua figlia Ifigenia propiziando la sua spedizione di Troia.

La madre si ribella contro il sacrificio della figliola e, durante l’assenza di Agamennone, giace con Egisto che essa tratta come marito. Quando Agamennone ritorna a Micene, dopo molti anni di assenza, viene ucciso da Egisto, istigato da Clitennestra. Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra, vendica, per suggerimento di Apollo e di Minerva, l’assassinio del padre, uccidendo sua madre ed Egisto. Le Erinni perseguitano Oreste. Esse rappresentano l’antico diritto. Apollo e Minerva, la quale, secondo il mito, è priva di madre perché balzò armata dal cervello di Giove, difendono Oreste e quindi l’areopago (9) è chiamato a pronunciare una decisione.

Ne segue una disputa in cui entrambi i principi, cozzanti l’uno con l’altro, vengono espressi con grande calore drammatico. […].

Trionfa il nuovo diritto: il matrimonio col padre alla testa ha vinto e sopraffatto la ginecocrazia (10). […].

Il passaggio dal diritto della madre a quello del padre si compì dappertutto come in Atene, a parte quelle diversità negli accessori derivanti dallo sviluppo della cultura dei singoli popoli, ma i ricordi del passato, e lo dimostreremo più avanti, continuavano a manifestarsi in certe pratiche. Dal momento che cominciò a prevalere la discendenza dal padre, l’uomo impose alla donna una rigorosa continenza nelle relazioni con gli altri uomini, non volendo riconoscere per suoi i figli di un estraneo. La donna viene sempre più confinata nelle pareti domestiche; le vengono assegnati nella casa determinati locali dove deve vivere lontana dal contatto con gli uomini che la casa stessa frequentano. […].

La libertà della donna e il suo intervento nella vita pubblica sono dunque sparite. Se essa esce di casa, deve coprirsi per non destare le concupiscenze di un altro uomo. In Oriente, dove per l’effetto del clima caldo, le passioni sessuali sono molto ardenti, tale sistema di clausura è spinto fino agli estremi. Anche Atena, fra i popoli antichi, può, al riguardo, servire d’esempio. La donna dorme bensì col marito, ma con lui non pranza, non lo chiama col suo nome ma con quello di “signore”: essa è la sua serva. Non poteva presentarsi in nessun luogo a viso scoperto, e per via andava sempre velata ed abbigliata con molta semplicità. Se commetteva qualche infedeltà, giusta la legge di Solone, doveva espiare la sua colpa con la perdita della libertà o della vita. Il marito poteva venderla come schiava.

Ma, allora e in seguito, la bisogna procedeva ben diversamente in Atena per gli uomini. Siccome l’uomo rispetto alla procreazione di eredi legittimi – un bisogno reclamato come necessario dalla proprietà privata – imponeva alla donna una continenza rigorosa, non era per nulla disposto ad imporla anche a se stesso.

Di qui l’origine delle Etère (11), donne che eccellevano per ingegno e bellezza, e preferivano la vita libera e il libero amore alla schiavitù del matrimonio. In ciò quell’epoca non trovava assolutamente nulla di abominevole, perché il nome e la fama di una parte di queste etère, che si trovavano in relazioni intime con gli uomini più illustri della Grecia, e pigliavano parte alle loro dotte conversazioni come ai loro banchetti, giunse fino a noi, mentre i nomi delle spose legittime andarono in gran parte dimenticati. Ricordiamo in  prima linea la celebre etèra Aspasia, che fu più tardi concubina di Pericle; Frine, il cui nome nel nostro tempo serve a definire una determinata specie di donne, Laide di Corinto, Gnatea ecc.

Ma non ci si fermò alle etère che avevano a che fare soltanto con uomini eminenti. Fattosi acuto il desiderio di donne venali, eccoci alla prostituzione, sconosciuta sotto le condizioni antiche. Già intorno all’anno 504 prima dell’êra nostra, Solone, il primo che diede forma concreta alle nuove condizioni giuridiche, aprì in Atene pubbliche case di tolleranza, onde fu celebrato da un contemporaneo con queste parole: «Gloria a te, Solone! Tu comperasti pubbliche donne per la salute della città che è piena di giovani vigorosi, i quali, senza la tua savia istituzione, si sarebbero abbandonati a moleste persecuzioni delle migliori classi di donne». Di tal guisa una legge dello stato riconobbe come conformi a diritto naturale per gli uomini, atti che, compiuti dalla donna, erano considerati come biasimevoli e, sotto certe condizioni, anche delittuosi.

E’ notorio che anche oggi non pochi uomini preferiscono la compagnia di una bella peccatrice alla compagnia della loro legittima sposa, e fra essi ci sono perfino dei «sostegni dello Stato» e delle «colonne dell’ordine» i quali debbono vegliare sulla «santità del matrimonio e della famiglia».

Demostene, il grande oratore, precisa nella sua arringa contro Neera la vita di famiglia degli uomini di Atena, là dove dice: «Noi sposiamo la donna per averne figli legittimi e per possedere in casa una custode fedele; manteniamo delle concubine per nostro uso quotidiano e le etère per i godimenti dell’amore». La moglie era dunque una semplice macchina da figlioli; un cane fedele che custodisce la casa. Il padrone viveva secondo il suo bon plaisir, a suo talento.

Platone nel suo “Stato” chiede la comunione della donna e la procreazione dei figli regolata dalla selezione naturale, tuttavia la donna è soggetta all’uomo, è semplice mezzo allo scopo della moltiplicazione di una razza vigorosa.

Aristotele ha idee più civili. La donna, secondo la sua “Politica” deve poter scegliere liberamente, ma essere sottoposta all’uomo; col diritto però di «dare un buon consiglio».

Tucidide esprime un’idea che ha le approvazioni di tutti i moderni filistei. Egli dice che merita lode la sposa della quale fuori di casa non si dica né bene né male.

Naturalmente, con tali principi il rispetto per la donna doveva diminuire sensibilmente. Ma sopravvenne anche il timore dell’eccesso di popolazione, ed allora, per evitare l’accoppiamento con la donna, si chiese a mezzi contro natura l’appagamento degli appetiti erotici. Gli stati della Grecia erano costituiti per la maggior parte soltanto dalle città con limitato territorio, il quale non poteva più procurare la consueta alimentazione oltre una data quantità di popolazione. Il timore dell’eccesso di popolazione indusse quindi Aristotele a consigliare agli uomini di tenersi lontani dalle donne e a godere i fanciulli.

Prima di lui Socrate aveva magnificato la pederastia come segno di una civiltà più alta. E a questa rendevano omaggio gli uomini più ragguardevoli della Grecia, e la stima per la donna decadde sempre più. Ci furono perciò case di prostituti, come di prostitute. In tale atmosfera sociale, Tucidide, sopra citato, poté dire della donna che è più perfida della procellosa onda del mare, delle fiamme del fuoco, dell’acqua che scende impetuosa dalla montagna. «Se v’è un Dio che inventò la donna, ovunque esso sia, sappia ch’egli è lo scellerato autore del massimo dei mali» (12). Come Socrate fu il glorificatore della pederastia, così Saffo di Lesbo, indotta forse dall’esempio del sesso maschile, cadde nell’estremo opposto, diventò la poetessa dell’amore tra donne, che dalla patria sua fu chiamato amore lesbico.

Mentre in Atene e in quasi tutta la Grecia vigeva il diritto paterno, Sparta, la rivale di Atene, si reggeva a sistema di diritto materno; regime che pareva straniero anche agli altri popoli della Grecia. Il dialogo seguente illustra il fatto. Un greco forestiero domanda ad uno spartano quale pena dovrebbero subire a Sparta gli adulteri. Al che lo spartano: “Straniero, da noi non ci sono adulteri”. Lo straniero: “Ma se ce ne fosse uno?”. “Allora, risponde lo spartano, egli deve dare in pena un bue tanto grosso che possa colla testa raggiungere il Taigeto e abbeverarsi all’Eurota”. E alla risposta piena di stupore del forestiero: “Come è possibile che ci sia un bue così enorme?”, lo spartano replica ridendo: “Nella stessa guisa ch’è possibile che a Sparta via sia un adultero!”. Perciò la coscienza delle donne spartane a quel tempo si trova espressa in quella fiera risposta che la moglie di Leonida dà a una straniera quando questa le dice: “Voi spartane siete le sole donne che comandino agli uomini!”; risposta che suona: “Noi siamo anche le sole donne che mettano al mondo degli uomini”:

La libera condizione fatta alla donna sotto il regime del diritto materno, ne accrebbe bellezza, la fierezza, la dignità e l’indipendenza. Tutti gli scrittori concordano nel ritenere che, all’epoca della ginecocrazia, gli accennati pregi adornavano la donna in grado eminente. La condizione di dipendenza che subentrò più tardi, riuscì necessariamente dannosa a queste doti e trova anzi la sua più evidente espressione nella diversità degli abbigliamenti nei due periodi. L’abito della donna dorica cadeva sciolto e leggero dalle spalle, lasciando libere le braccia e scoperta la coscia; è l’abbigliamento della dea Diana dei nostri musei. L’abito ionico, invece, copriva l’intera figura e impediva la libertà dei movimenti. L’abito fino ad oggi pare risponda al concetto di conservare la donna schiava, timida e codarda, perciò fisicamente indifesa. L’uso degli Spartani  di lasciar andar nude le ragazze fino alla pubertà – ciò che il clima del paese consentiva – secondo l’opinione di un antico scrittore contribuì principalmente a produrre in essi il gusto per la semplicità e la cura dell’aspetto esterno; e non vi era assolutamente nulla, secondo le idee di quel tempo, che offendesse il pudore o destasse la voluttà. E’ noto per antica esperienza che la naturale nudità eccita meno i sensi che un artificiale scoprimento.

Tuttavia gli usi e i costumi dell’epoca in cui vigeva il diritto materno, si conservarono ancora a lungo dopo che il diritto paterno vi si era sostituito. Ed è una reminescenza dei liberi rapporti sessuali predominanti al tempo del diritto materno, l’ingresso che facevano ogni anno le donzelle babilonesi mature al matrimonio nel tempio di Militta [era Afrodite presso gli assiri e i babilonesi, come Venere presso i romani, ndr], per offrire il fiore della loro verginità alle irrompenti schiere degli uomini. Allo stesso modo veniva scarificato a Serapi di Menfi e nel tempio di Afrodite a Corinto, ove dovevano essere presenti costantemente mille ragazze (Ierodule). Lo stesso avveniva in Armenia in onore della dea Anaiti, e a Cipro in onore di Astarta. Questo dovere di sacrificare la loro castità veniva imposto alle vergini in pena all’offesa recata alla gran madre della natura Matuta con l’esclusività del matrimonio. Aveva lo stesso significato l’acquisto che facevano le vergini libiche della loro dote mediante l’abbandono di se stesse. In accordo col diritto materno, esse erano sessualmente libere finché nubili, e gli uomini trovavano tanto poco scandaloso tale mezzo d’acquisto della dote, che preferivano come sposa quella che era stata più desiderata. Lo stesso avveniva ai tempi di Erodoto presso i Traci. «Essi non custodivano le fanciulle, ma lasciavano ad esse piena libertà di congiungersi con chi a loro piacesse. Le spose invece venivano da essi rigorosamente custodite; e le comperavano dai loro genitori contro ragguardevole corrispettivo». Ed identiche condizioni esistono anche oggi nelle isole Marianne, Filippine e della Polinesia, e inoltre, secondo il Waitz, presso diverse tribù africane. Nelle Baleari ed ancora in epoca non tanto remota, vigeva il costume – che racchiudeva in sé il concetto del diritto di tutti gli uomini sulla donna, di lasciare, nella notte delle nozze, tutti gli uomini della stessa tribù presso la sposa, uno dopo l’altro in ordine di età; per ultimo veniva lo sposo che, d’allora in poi, la prendeva nel suo esclusivo possesso quale moglie.

Questo costume subì una nuova trasformazione presso altri popoli nel senso che i sacerdoti o i capi tribù (re) quali rappresentanti di tutti gli uomini della stessa, godevano di questo privilegio verso la sposa. […]

E’ certo, dunque, che anche l’ius primae noctis (il diritto della prima notte) ha la stessa origine nel medioevo cristiano, come sostiene Engels. Il signore, che in questa tradizione medioevale rappresenta il capo tribù, esercita in nome degli uomini della sua razza il diritto che una volta spettava a costoro. Ma su di ciò diremo più diffusamente in seguito. […]

Con lo sparire della antica gens e col sorgere del predominio dell’uomo, sorge pure vicino alla moglie legittima, come già notammo, la concubina, il matrimonio per compera e per ratto. Ora la donna non è soltanto una generatrice di eredi e uno strumento di piacere per l’uomo, ma anche, per mutate condizioni sociali, una forza lavoratrice apprezzabile. La figlia della casa diventa un oggetto di commercio. L’uomo che se ne invaghisce deve pagare un prezzo che è vario a seconda delle usanze e dello stato sociale del paese.

Matrimonio per compera fu, per esempio, l’acquisto di Lea e Rachele, figlie di Labano, fatto da Giacobbe (13). Giacobbe ne pagò il prezzo prestando servizio in casa di Labano per alcuni anni e fu, come è noto, ingannato dallo scaltro Labano il quale, invece di Rachele gli diede prima Lea, la maggiore, costringendolo a servirlo per altri sette anni prima di concedergli la seconda sorella. Qui noi vediamo due sorelle spose ad un tempo di un uomo, ciò che secondo le idee dei nostri giorni costituirebbe una relazione incestuosa. […]

Il matrimonio a base di compera non è ancora sparito nemmeno fra noi; esso anzi regna, benché sotto forme simulate, nella società borghese peggio che mai. Il matrimonio a base di denaro che è usato generalmente fra le nostre classi dirigenti non è altro che il matrimonio per compera. Un simbolo dell’acquisto della proprietà sulla donna è pure il regalo di nozze che, in tutti gli stati civili, si fa ancora oggi dallo sposo alla sposa.

Accanto al matrimonio per compera esisteva il matrimonio per rapina. Il ratto delle donne era in uso durante tutta l’antichità, e si ripete presso quasi tutti i popoli arrivati a un certo grado di cultura. L’esempio storico più noto di ratto di donne è quello della Sabine operato dai romani; ma anche le tribù di Giuda si servirono del ratto; ad esempio i Beniaminiti, che rapirono le figlie di Silos (14). La Bibbia specialmente fornisce una grande copia di materiale storico per i rapporti sessuali qui descritti fra Giudei, come pure fra le popolazioni entrate con essi in relazione. Là soprattutto dove mancavano donne, come presso gli antichi romani, l’acquistarne per mezzo del ratto era cura importante, e tale era pure là dove vigeva la poligamia, come in Oriente (15). Qui specialmente durante il dominio degli arabi dal VII al XII secolo dell’êra nostra, aveva preso una larga diffusione. […]

Benché lontanamente, ricorda però ancora il tempo del ratto delle donne, il costume presso di noi vigente dei viaggi di nozze; la sposa viene rapita al focolare domestico. Viceversa, lo scambio dell’anello ricorda la servitù della donna all’uomo e la catena che a lui la lega.

In origine era assai radicato a Roma il costume che la sposa ricevesse un anello di ferro, come segno che essa era legata all’uomo. Più tardi questo anello fu d’oro, appena il cambio dell’anello valse a significare il vincolo reciproco.

L’antica unione domestica delle gentes aveva dunque perduto terreno per effetto dello sviluppo delle condizioni della produzione e del formarsi della proprietà privata, mentre le antiche idee rimasero in vigore ancora per qualche tempo.

Quando dalla gens si passò al diritto paterno, l’eguaglianza giuridica della donna venne da principio ancora riconosciuta, ma l’incalzare di sempre nuovi elementi determinò la cessazione dell’antico stato di cose. Con la fondazione della vita delle città, si operò la separazione dell’agricoltura dall’industria. L’erezione di case e di pubblici edifici, la costruzione di navi, la produzione di strumenti, utensili e armi, il sempre maggiore perfezionamento delle arti dello stovigliaio e della tessitura, posero a poco a poco le basi di una speciale classe di artigiani, i cui interessi non avevano più alcun punto di contatto con quelli della vecchia costituzione gentilizia, ma anzi non di rado erano con essi in conflitto. L’introduzione della schiavitù, l’ammissione degli stranieri a far parte dello Stato erano altri elementi che rendevano impossibile la vecchia costituzione gentilizia, risvegliando degli interessi e aprendo degli orizzonti che richiedevano un nuovo ordine di cose.

Il passaggio del diritto ereditario del ramo paterno nei figli diede vita ad una condizione di cose che si trovava nel più stridente contrasto con gli antichi costumi, e non avrebbe potuto affermarsi se non con l’intervento di una potente autorità.

Ne conseguì che le nuove condizioni nei rapporti del possesso, l’antitesi fra agricoltura e industria, fra padroni e schiavi, fra ricchi e poveri, fra debitori e creditori, resero necessario un ordinamento giuridico che, da un parte, era molto complicato, dall’altra, poteva essere applicato solo mercé l’impiego di determinati mezzi coercitivi. Per tale modo nacque lo Stato, che fu il prodotto necessario delle antitesi sorte nel nuovo ordinamento sociale e degli interessi opposti, e che nelle sue varie forme è una immagine fedele di quel dominio di classe che poi si è venuto formando con l’evoluzione.

 

(1 - continua)

 


 

1)    Vedi Ancient Society, or Researches in the Lines of Human Progres from Savagery through Barbarism to Civilisation, By Lewis Morgan, London, Mcmillan et Comp., 1877 – la traduzione comparve a Stoccarda per i tipi di I. H. Dietz sotto il titolo: La Società primitiva. Ricerche sul progresso dell’umanità dall’epoca selvaggia attraverso la barbarie fino alla civiltà. Completo in circa 11 fascicoli.  L’Autorità materna. Studio sulla ginecocrazia dell’antichità secondo la sua natura religiosa e giuridica, di I.l. Bachofen, consigliere d’Appello in Basilea, Stoccarda ediz. Di Krais e Hoffmann. 1861. (Nota di A. Bebel)

2)    L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In aggiunta agli studi di Lewis H. Morgan, di Federico Engels, Stoccarda 1879. (Nota di A. Bebel)

3)    Bachofen: Il diritto della madre (Nota di A. Bebel). Concubito significa accoppiamento. 

4)    Accoccarla a qualcuno: fargli danno, fargli qualche scherzo.

5)    Fratelli germani, sorelle germane: nati dagli stessi genitori.

6)    In questo caso, significa: della Germania, tedeschi.

7)    Cfr F. Engels: L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (Nota di A. Bebel).

8)    Eumènidi o Erinni. Divinità greche della vendetta e severe custodi del cosiddetto “ordine naturale”. I romani le chiamarono Furie.

9)    Areopago, in greco “Colle di Ares”, che si trova a Nord Ovest dell’acropoli di Atene e che diede nome ad un’assemblea di antiche origini con funzioni di consiglio e di tribunale; assemblea che giudicava dei delitti di sangue, sorvegliava l’amministrazione dello stato, custodiva le leggi e la morale pubblica con anche attribuzioni religiose. Ares era il dio della guerra, che i romani chiamarono Marte.

10)  Stadio della società primitiva i  cui la donna godeva di un assoluto predominio nella vita sociale e politica della comunità.

11)  Etèra, nell’antica Grecia, era una donna non sposata o destinata al matrimonio, colta e raffinata, ben distinta dalla prostituta che in genere era schiava. Le Etère erano numerose soprattutto ad Atene e Corinto, in genere di origine straniera ed erano sottoposte al pagamento di una tassa. Godevano di una libertà negata alle donne sposate o promesse in matrimonio, avevano relazioni sociali soprattutto con uomini importanti della società.

12)  Leon Richter, La femme libre (Nota di A. Bebel).

13)  Giacobbe, uno dei padri dell’ebraismo, patriarca come Abramo e Isacco. Le sue vicende sono narrate nel primo libro della Bibbia, la Genesi.

14)  Cfr. Il Libro dei giudici, capitolo 21, vers. 20 e segg. (Nota di A. Bebel).

15)  Salomone, giusta il Libro dei re, capitolo XI, aveva non meno di 700 mogli e di 300 concubine (Nota di A. Bebel).

 

 

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