In margine al «Piano anticrisi» della CGIL e del suo sciopero generale del 12 dicembre 2008

Quali i reali obiettivi  della lotta dei proletari?

(«il comunista»; N° 111; Gennaio 2009)

 

 

Il sindacato collaborazionista della Cgil ha presentato ai lavoratori, nelle assemblee programmate prima dello sciopero generale del 12 dicembre scorso, una piattaforma di misure “anticrisi” per “modificare” le politiche del governo.

Questa “piattaforma” è, in realtà, una proposta di gestione della crisi e di collaborazione con il governo; gestione che farà passare misure drastiche per i proletari: salari ridotti, aumento della disoccupazione e della precarietà del lavoro e delle condizioni di sicurezza e nocività sul lavoro stesso, in pratica un’ulteriore giro di vite per difendere le prerogative del profitto e del mercato sotto un demagogico elenco di proposte falsamente dichiarate a difesa dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati.

 

Al contrario, l’obiettivo dei proletari deve essere la difesa del salario in maniera tale che vada a recuperare la quota che l’aumento dei prezzi, delle tariffe e delle tasse si è mangiata riducendolo della metà rispetto a quando esisteva ancora la scala mobile 15 anni fa. A quell’epoca, tutti i sindacati tricolore accettarono un accordo con il padronato e l’allora governo “Ciampi”, accordo che cancellava definitivamente un meccanismo che secondo loro era la “causa” dell’inflazione, ma che in realtà era un ritocco automatico, per quanto insufficiente, volto a salvaguardare i salari dagli effetti più pesanti dell’aumentato costo della vita. Fu detto che una contrattazione ogni due anni avrebbe salvaguardato in qualche modo ancora il potere d’acquisto dei salari; in realtà, gli aumenti dovevano rimanere al di sotto dell’«inflazione programmata» dal governo - sempre al di sotto di quella reale e contrattati al ribasso dai caporioni sindacali - e hanno di fatto falciato i salari in tutti i settori dal pubblico al privato.

I sindacati tricolore oggi, in particolare la Cgil che ha proclamato uno sciopero generale nazionale il 12 dicembre scorso, chiedono in sostanza la riduzione delle tasse e questo non solo per gli operai e i pensionati, ma anche per i padroni. E’ evidente quindi che essi non si fanno portavoce degli interessi esclusivi dei proletari nullatenenti, ma di tutti compresi i padroni che sfruttano gli operai.

L’obiettivo del salario e la sua difesa dal caro vita e dai licenziamenti, è un obiettivo di classe, che interessa tutti i proletari; perciò un’organizzazione che si dice di difesa operaia deve averlo come obiettivo prioritario perché unifica tutti i proletari, di tutti i settori e le categorie professionali, di qualsiasi nazionalità siano; è un obiettivo che dà un senso concreto della lotta nella direzione di rafforzare il proletariato. Se si devia verso un altro obiettivo come quello della riduzione delle tasse,  significa che si persiste e si lavora nella direzione contraria, nella direzione della conciliazione degli interessi dei lavoratori con quelli opposti dei padroni, i quali sfruttano sempre più pesantemente il lavoro salariato e, quando il loro capitale impiegato non rende più un profitto soddisfacente, non hanno scrupoli a licenziare!

I proletari possono ricavare il loro sostentamento solo dal salario, che nella società capitalistica di mercato significa vendere la propria forza lavoro ad un padrone per un certo numero di ore della giornata, a un certo grado di intensità di lavoro; ore e intensità di lavoro che tendono ad  aumentare per coloro che restano al lavoro, mentre, soprattutto in tempi di crisi di mercato, di contrazione degli ordinativi, di fallimenti di aziende, una parte di lavoratori vengono espulsi dalle aziende e gettati sul lastrico. Ragione di più perché un’organizzazione sindacale di classe deve rivendicare un salario di disoccupazione versato dallo Stato borghese, dato che la maggior parte delle sue entrate proviene dai contributi estorti ai lavoratori. Lo Stato borghese, ad ogni accenno di crisi, è sempre pronto a sostenere le imprese e le banche e non trova mai le risorse per sostenere la vita dei proletari e delle loro famiglie: solo con la lotta di classe, che unifica i lavoratori al di sopra delle categorie, delle nazionalità e della posizione che occupano o meno nella produzione, si può forzare le decisioni dei governi a beneficio delle condizioni di vita e di lavoro proletarie!

I sindacati tricolore, con la Cgil in testa, di fronte ai padroni che licenziano centinaia di migliaia di lavoratori, non sanno fare altro che chiedere la messa in cassa integrazione o in mobilità a salario ridotto per i lavoratori che risultano in “esubero”; non sanno fare altro che chiedere dei sostegni sottoforma di “sussidio” e di riduzione di tasse e tariffe, ipotizzando fumose differenze a seconda della situazione, in misure e tempi che non sono neanche ben definiti. Ma i proletari hanno diritto ad una vita dignitosa con vero salario  e non con qualche misero sussidio che non basta nemmeno alla sopravvivenza mensile. Perciò devono lottare anche per un salario di disoccupazione, perché in questa società, dove tutto dipende dal capitale dal profitto capitalistico, il lavoro si trova o si perde solo a causa dell’economia capitalistica e delle sue crisi di mercato di cui i proletari non hanno alcuna colpa.

I sindacati tricolore chiedono che le imprese facciano maggiori investimenti, anche col sostegno dello Stato borghese, perché si ristrutturino, migliorino o cambino il loro prodotto per tornare ad essere competitive sul mercato. Ma la crisi odierna, come quelle precedenti e future, è crisi di sovrapproduzione nel senso che tutte le merci prodotte non vengono assorbite al loro prezzo nel mercato, perciò i padroni che non riescono più a ricavare quantità e percentuali di profitto programmate. Da qui deriva la decisione di ridurre la produzione, di “ristrutturarla” con tecnologie migliori per produrre con meno operai ma sfruttati il doppio in modo da ricavare le quote di profitto perse in precedenza. Ma questo, a lungo andare, non risolve la crisi della produzione capitalistica, come tutte le crisi precedenti dimostrano. D’altra parte, le aziende concorrenti sono spinte ad  adottare misure simili e un mercato sempre più asfittico si bloccherà ancora una volta dando il via a nuove crisi e a nuove “ristrutturazioni” fino ad un prossimo macello imperialistico mondiale in cui distruggere enormi quantità di merci per “liberare” il mercato dall’impressionate ingolfamento di merci invendute e di profitti mancati, mentre i proletari, già spinti a farsi una spietata concorrenza sul piano economico, verranno irreggimentati per andare a fare la guerra per conto dei borghesi, ammazzandosi gli uni contro gli altri.

Ma i proletari possono avere un futuro diverso, e solo con la loro lotta e l’organizzazione di classe possono cambiare la direzione catastrofica dei massacri di guerra nella quale il capitalismo conduce i paesi di tutto il mondo. E si comincia dal terreno in cui i proletari possono riconoscersi immediatamente come parte di un’unica classe con interessi comuni. Un obiettivo fondamentale di questa lotta deve riguardare la lotta contro la concorrenza che gli operai sono spinti a farsi dai padroni e dalle leggi del mercato; la lotta operaia deve mettere ai primissimi posti la riduzione drastica della giornata lavorativa a parità di salario, combattendo contemporaneamente contro  l’intensificazione dello sforzo lavorativo, contro la flessibilità all’interno e all’esterno del posto di lavoro, contro l’aumento delle mansioni; allora, oltre che ad ottenere maggior tempo ed energie per sé, per la propria vita e per la propria lotta, si creerebbero le condizioni perché altri proletari vengano strappati dalla disoccupazione. Ma senza la lotta di classe, nessun obiettivo pur minimo potrà essere raggiunto dalla classe dei proletari. 

In direzione completamente contraria vanno i sindacati tricolore: essi sono disponibili ad attuare per un periodo corrispondente alla crisi di mercato sì riduzioni dell’orario di lavoro, ma attraverso strumenti come i “contratti di solidarietà” oppure la “Cassa integrazione ordinaria” con le riduzioni di salario previste e corrispondenti alle ore non lavorate con qualche misera integrazione da parte dello Stato, ma ottenendo, di fatto, una reale riduzione di salario che già è insufficiente.

Un sindacato che voglia difendere le condizioni di vita e di lavoro della classe dei lavoratori salariati si differenzia anche nel modo di condurre una lotta; i metodi e i mezzi per poter raggiungere determinati obiettivi non possono essere quelli usati abitualmente in questi ultimi decenni dai sindacati tricolore. Lo sciopero, se usato e diretto fuori dalle pratiche impotenti e  sempre rispettose delle compatibilità con le esigenze dei padroni, è un’arma potente di cui dispongono gli operai: alla condizione che si adoperi in modo appropriato, come quando lo si attua senza nessun preavviso dato in anticipo ai padroni, né quando deve iniziare e nemmeno quando deve cessare. Alle materiali difficoltà di sopravvivenza degli operai in cui li precipitano i padroni, gli operai devono rispondere con azioni che mettano in difficoltà reale i padroni; solo così i padroni si renderanno “disponibili” a trattare sulla base delle richieste operaie. Senza rapporto di forza,  nessun “diritto” sarà mai applicato e riconosciuto. Il diritto a vivere dignitosamente in questa società di soprusi padronali e di schiavitù salariale, i proletari se lo devono conquistare con la forza, con la lotta!

I sindacati tricolore, da anni, quando decidono di proclamare uno sciopero, danno ai padroni periodi di preavviso sempre più lunghi, che ormai arrivano a più di un mese di tempo; e spesso si tratta di scioperi brevi, con il contagocce! E ancora più lunghi sono i periodi che separano uno sciopero da quello successivo; diventa chiaro che l’efficacia di questi scioperi è pari a zero, e si trasforma in un danno non per i padroni ma per gli scioperanti! Anzi, in un periodo di contrazione degli ordinativi, quando gli operai vengono messi in ferie forzate, o in cassa integrazione ordinaria, questi scioperi sono accettati positivamente dagli stessi padroni.

Anche la Cassa integrazione straordinaria - cioè quando si prospetta il non rientro in azienda dei lavoratori - andrebbe combattuta da un sindacato operaio e non semplicemente gestita come fa il sindacato tricolore. In effetti, quando una parte di lavoratori viene messa fuori dalla fabbrica, e per un lungo periodo di tempo viene forzatamente lasciata a casa, senza una rotazione fra operai o ancor peggio in mobilità - cioè praticamente già licenziati dall’azienda - si viene a creare una divisione, un isolamento tra quelli che restano in produzione e quelli che ne sono estromessi e una volta che si consolida questa situazione, si perde il contatto e la possibilità di organizzarsi e di lottare uniti e quindi di fare più forza; inoltre una volta fuori dall’azienda, ognuno per conto proprio,  a livello individuale, sarà obbligato a vendere la propria forza lavoro a condizioni sicuramente peggiori di quelle da cui proviene. Un sindacato di classe si deve preoccupare degli operai sia quando sono in attività nelle aziende capitalistiche sia quando i padroni li espellono dalla proprie aziende, perché il valore della forza lavoro, il salario,  che ogni operaio percepisce a fronte delle giornate di lavoro effettivamente lavorate, dipende anche dalla pressione che la massa di disoccupati esercita sulla massa degli occupati. Siamo in regime capitalistico e la legge della concorrenza è applicata anche nella vendita della forza lavoro, nel famoso “mercato del lavoro”. Più i disoccupati sono lasciati al loro destino, più gli operai occupati subiscono la pressione dei capitalisti che hanno tutto l’interesse a schiacciare il valore della forza lavoro impiegata. Ecco perché l’unione nella lotta tra operai occupati e disoccupati rafforza l’intero fronte proletario.

Da questo punto di vista, e proprio perché nei fatti gli operai occupati detengono una potenzialità di forza superiore agli operai disoccupati – nel senso che la loro lotta produce immediatamente dei danni ai capitalisti -  la lotta dovrebbe partire dai lavoratori più stabili nel posto di lavoro e in un certo senso meno ricattabili, per la difesa delle condizioni di lavoro dei lavoratori con contratto a termine e dei lavoratori immigrati e per la difesa delle condizioni di vita dei disoccupati. Questo non solo per solidarietà proletaria, ma perché è esattamente nell’interesse di tutti i lavoratori parificare le condizioni di lavoro e di salario ai livelli più alti possibile, se si vuole combattere la concorrenza tra proletari alimentata sistematicamente dai padroni e dai loro lacchè in abiti sindacali; la concorrenza tra proletari distrugge la capacità di resistenza ai peggioramenti che vengono di volta in volta imposti, perciò combattere contro la concorrenza fra proletari significa combattere contro i peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro di tutti gli operai.

Senza la lotta di classe che tende ad unificare i proletari nella loro lotta di resistenza quotidiana al capitale, con una concorrenza che si autoalimenta tra chi è più ricattabile e chi lo è meno per condizioni di salario e di stabilità del posto di lavoro, i padroni troveranno ancora margini per ridurre i salari in generale, per peggiorare le condizioni di lavoro, di sicurezza e di nocività sui posti di lavoro; i morti e gli infortunati per colpa dell’organizzazione del lavoro proiettata esclusivamente a far profitto nel tempo più breve possibile, invece di diminuire aumenteranno, come aumenteranno gli operai colpiti da malattie “professionali” e le masse di precari e di disoccupati cronici. L’opera del sindacalismo collaborazionista facilita l’azione dei governi borghesi nel far passare misure ancora più drastiche ma ritenute utili per sostenere imprese o banche in difficoltà tagliando, come d’abitudine, sulla spesa sanitaria o su quella previdenziale.

In sostanza, la piattaforma delle proposte dei sindacati tricolore, in particolare quella della Cgil, avanzata con la proclamazione dello sciopero generale del 12 dicembre scorso, non esce minimamente dal quadro delle compatibilità sono le esigenze dell’economia nazionale, dei padroni e del governo borghese. Ne difendono invece le prerogative, e si propongono per l’ennesima volta come i gestori più affidabili degli effetti della crisi di mercato che colpiscono la classe proletaria in maniera che quest’ultima li accettino e li subiscano senza reagire violentemente e come unica possibilità all’interno del modo di produzione capitalistico. D’altra parte, il loro accorato appello in difesa della piccola e media impresa svela il loro ruolo interclassista, grazie al quale i proletari vengono sempre più confusi con la massa piccoloborghese che nonna altro scopo in questa società che di vivere come parassiti sullo sfruttamento generale della forza lavoro salariata. Inoltre, le pur misere richieste a sostegno dei proletari più colpiti dalla crisi, non verranno comunque mantenute perché con la lotta essi non andranno mai fino in fondo ma cercheranno sempre il “tavolo della trattativa” con il governo e le associazioni padronali allo scopo di mantenere o riconquistare il loro ruolo di servi della borghesia dominante vestiti da operai, infiltrati tra i lavoratori per mantenerli divisi e sottomessi alle condizioni loro dettate dal profitto capitalistico e dalle leggi del mercato.

Ecco perché la lotta deve ritornare nelle mani dei lavoratori, insieme alla decisione degli obiettivi stessi, con una organizzazione che rompa definitivamente con la pratica e la politica del collaborazionismo sindacale, che si renda autonoma e indipendente a partire anche da obiettivi minimi ma che rispondano all’interesse immediato reale dei lavoratori, cioè la difesa del salario, delle condizioni di lavoro, un salario ai disoccupati, l’unificazione di tutti i lavoratori combattendo le differenze di salario, di contratto, di orario, di sicurezza e nocività sul posto di lavoro; in pratica, per combattere la concorrenza tra proletari e rafforzare la lotta stessa. Si deve ritornare a punti di riferimento e di organizzazione che associno i lavoratori al di là della provenienza di settore, professione, fabbrica, nazionalità, sesso, disoccupato, precario: tutti i proletari sono senza riserve e l’unica loro forza è il numero e l’organizzazione verso obiettivi che mettano al centro il salario dignitoso per vivere in questa società e la diminuzione della giornata di lavoro e dell’intensità di lavoro.

Solo su questo terreno, che è il terreno dell’aperta lotta di classe in antagonismo con gli interessi dei capitalisti e di tutti coloro che vivono alla loro ombra, i proletari saranno in grado di difendersi oggi contro i continui attacchi alle loro condizioni di vita e di lavoro, e domani saranno più pronti e abituati a lottare per battersi contro una pressione sociale sempre più forte quanto più si avvicinano i tempi di guerra. Solo con la lotta di classe e il suo sviluppo, il proletariato potrà riconoscersi non solo l’unica classe in grado di fermare la corsa della società borghese alla catastrofe della guerra mondiale, ma anche l’unica classe in grado di aprire il futuro ad una nuova organizzazione sociale nella quale la produzione sociale non sia più, come oggi, diretta da proprietari di aziende che si fanno concorrenza reciproca al solo scopo di accumulare profitti, bensì dalla società intera, in base a un piano prestabilito e secondo i bisogni della collettività umana.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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