All'ordine del giorno deve tornare la lotta di classe in difesa esclusiva delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, la lotta  proletaria indipendente dalle esigenze e dalle compatibilità dell'economia capitalistica

(«il comunista»; N° 114; Ottobre 2009)

 

 

La crisi economica è sempre stata utilizzata dai capitalisti e dal loro Stato come pretesto per attaccare, ancora più in profondità di quanto già non facessero in precedenza, le condizioni di vita e di lavoro del proletariato. Per quanto striminziti e non corrispondenti alla realtà della situazione operaia, i dati statistici ufficiali dei vari istituti nazionali e mondiali danno per certo che, da un lato, la crisi non ha ancora avuto il massimo di effetti negativi sull'occupazione e, dall'altro, «si riprenderà» con grande lentezza nel 2010, ma più probabilmente nel 2011. Quando i capitalisti parlano di «ripresa dell'economia» intendono la ripresa dei loro affari, dei loro profitti al di fuori delle condizioni di vita e di lavoro proletarie alle quali dedicano attenzione solo nel timore che scoppino lotte sociali incontrollate.

Gli ultimi dati sul tasso di disoccupazione, ad esempio, nei paesi europei dell'area euro dicono questo: settembre 2009 contro settembre 2008: 9,7% contro 7,7% (Eurostat), ossia il tasso più elevato dal gennaio 1999. Per dare un'idea fisica della disoccupazione, si tratta di 15,324 milioni di disoccupati nei paesi dellla zona euro, e più di 22 milioni nella UE. L'Ocse, che è l'organizzazione dei paesi più sviluppati del mondo, afferma da parte sua che, se in alcuni paesi come Irlanda, Giappone, Spagna e Stati Uniti già quest'anno si è registrato un forte aumento della disoccupazione, in altri paesi come la Francia, la Germania e l'Italia la gran parte della crescita della disoccupazione deve ancora arrivare! Se poi si tiene conto che i dati statistici borghesi sulle condizioni operaie sono sempre falsi, nel senso che la realtà è molto più cruda e nera, è logico concludere che le masse proletarie hanno davanti a loro un peggioramento continuo!

Cassa integrazione, licenziamenti, mensilità non erogate, salari atipici per lavori atipici, 700-800 euro mensili per famiglia operaia che non ce la farà mai ad arrivare alla fine del mese. E tutto questo non solo a causa della crisi economica, ma soprattutto a causa delle mani libere che, capitalisti e governanti, hanno avuto costantemente per erodere sistematicamente il famoso «potere d'acquisto» delle famiglie operaie. L'attacco alle condizioni di vita proletarie non comincia mai direttamente dal salario: si intensifica il lavoro nell'unità di tempo, si allunga la giornata di lavoro, si ritoccano le quote di straordinario, si impiegano operai che costano di meno, aumenta il lavoro nero, si allungano i tempi di rinnovo dei contratti, si allarga lo spettro dei contratti di lavoro a tempo determinato rendendoli sempre più flessibili e incerti, si tolgono mano a mano le garanzie che vincolano troppo i padroni ecc. Si rende il posto di lavoro incerto, flessibile, a tempo determinato, lo si vincola all'andamento del mercato e viene loro automatico rendere lo stesso salario incerto, flessibile, vincolato all'andamento economico dell'azienda. Ma tutto questo i capitalisti non potevano ottenerlo se non con la collaborazione sistematica delle organizzazioni sindacali tricolore! I capitalisti hanno bisogno che le masse operaie stiano lontane dal terreno della lotta di classe, perché questo terreno è l'unico nel quale lo scontro antagonistico degli interessi capitalisti e degli interessi proletari può configurarsi come scontro tra due classi inconciliabilmente antagoniste! La disoccupazione è elemento congenito al modo di produzione capitalistico; non scomparirà se non con la morte definitiva del capitalismo. Ma è destinata ad aumentare, e a provocare miseria crescente nelle masse proletarie, perché è uno dei modi che ha il capitalismo per combattere la caduta del tasso medio di profitto. Il Profitto capitalistico è sempre contro il Salario operaio, e quando il capitalismo va in crisi come in questi anni, gli operai subiscono immediatamente il contraccolpo. A loro difesa, gli operai si organizzano sul piano immediato associandosi nei sindacati e sul piano più generale attraverso i partiti politici. Ma se i sindacati e i partiti, cosiddetti operai, si fanno corrompere in mille modi diversi per passare armi e bagagli al servizio dei capitalisti e del loro dominio sociale e politico, gli operai rimangono completamente disorganizzati, non sono più in grado di difendere le loro condizioni di vita e di lavoro in modo efficace, sono in completa balìa della situazione determinata dai potere economici, e politici, della classe dei capitalisti. Il proletariato, in questa situazione, non è più nemmeno classe nel senso politico e storico: è ridotto a semplice prolungamento della macchina produttiva capitalistica, perciò usato solo nella misura in cui il suo costo è conveniente per il capitalista, altrimenti viene rottamato come un ferro vecchio!

Ma il proletariato rappresenta, in realtà, il lavoro vivo nella produzione e nella distribuzione dei prodotti, e la sua lotta contro i capitalisti è la lotta perchè il «lavoro vivo» non muoia di fame e di stenti, perché non muoia di fatica, di infortunio sul lavoro o sotto i bombardamenti delle guerre di rapina del capitale.

Perché la lotta dei proletari torni ad essere efficace rispetto alla difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro, deve tornare a mettere al centro dei suoi obiettivi le rivendicazioni classiche della tradizionale lotta di classe proletaria: lotta per il salario, lotta per la riduzione della giornata lavorativa, lotta contro la concorrenza fra proletari!

 

Tornare alle classiche rivendicazioni operaie della lotta di classe

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Salario contro lavoro o salario di disoccupazione! Sia l’occupazione - con il suo corredo di sfruttamento intensivo, di infortuni e di morte, di malattie professionali, di soprusi e vessazioni dovute ad un dispotismo di fabbrica sempre più pesante -, sia la disoccupazione - con il suo corredo di miseria quotidiana, di faticosa ricerca di un lavoro, di lavori pagati malissimo e senza la minima sicurezza, di umiliazioni e di discriminazioni dovute ad un dispotismo sociale sempre più virulento - sono il prodotto della società capitalistica, del modo di produzione capitalistico sul quale è costruita tutta la società presente. In forza di questo modo di produzione i capitalisti sfruttano bestialmente l’intera massa del proletariato, massacrandolo di fatica, di sudore e di sangue. Il salario effettivamente versato al lavoratore, in realtà, non è che la parte minore del risultato dello sfruttamento capitalistico: i giganteschi profitti, accumulati ogni ora e ogni giorno dai capitalisti, corrispondono alle mastodontiche quantità di plusvalore che i capitalisti estorcono dal lavoro salariato obbligando i proletari, attraverso la forza dello Stato e il dominio economico sulla società, a sottostare ad una vera e propria schiavitù salariale, sia che vengano più o meno temporaneamente occupati  nella produzione, sia che ne vengano esclusi. E la disparità di trattamento salariale, da settore a settore, da zona a zona non fa che acutizzare la schiavitù cui è sottoposta l'intera classe dei lavoratori.

L’unione dei proletari occupati e disoccupati è fondamentale, perché accresce la resistenza alla pressione capitalistica. I disoccupati non fanno che aumentare, e sono destinati ad aumentare sempre più a causa della crisi economica; lo stesso accade ai proletari precipitati nel precariato e questo  accrescerà la pressione di questi ultimi sulle condizioni di salario e di lavoro di chi mantiene ancora un posto di lavoro, peggiorando, in definitiva, le condizioni generali di tutti i proletari. Contro questo peggioramento l'unica arma è la lotta unitaria dei proletari, al di sopra delle specifiche condizioni di occupazione, precarietà o disoccupazione di ciascuno.

Un’altra rivendicazione fondamentale per i proletari occupati è la riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario; questa rivendicazione, unita a quella per un salario di disoccupazione, getta un ponte per superare la divisione che il padronato, con la complicità del collaborazionismo sindacale, crea costantemente tra occupati e disoccupati.

I proletari devono imparare nuovamente che la lotta in difesa delle condizioni di vita e di lavoro, perché abbia uno sbocco positivo anche solo immediato e parziale, ha bisogno di essere organizzata al di fuori e contro le compatibilità di cui tutti i sindacati collaborazionisti sono prigionieri. Devono imparare che questa lotta ha bisogno di poggiare sulla vera solidarietà di classe in cui ogni proletario si riconosce perché riconosce i propri interessi immediati in tutti gli altri fratelli di classe. Devono imparare che il risultato più importante della loro lotta è battere la concorrenza tra proletari, concorrenza che i padroni hanno tutto l'interesse ad alimentare  e acutizzare e che le organizzazioni sindacali tricolore - e dietro di loro i partiti opportunisti che si richiamano ai lavoratori - hanno l'attitudine congenita ad accettare come «naturale» in una società in cui il mercato, il capitale, il denaro dominano su tutti e su tutto e che per loro ha solo bisogno di... riforme.

I proletari devono rendersi conto che questa società, questo modo di produrre e di vivere, non dà alla stragrande maggioranza degli uomini nessuna prospettiva di benessere, di prosperità, di vita pacifica e armoniosa. La schiavitù salariale cui è costretto il proletariato nelle fabbriche, nella vita sociale, in ogni paese, è la vera dannazione di questo modo di produrre e di vivere. Battersi perciò contro gli effetti di questo modo di produzione, gli effetti del capitalismo sulla vita quotidiana di ciascuno, svela il vero problema di fondo: non ci sarà mai pace, mai  benessere, mai prosperità per i proletari se non cambiando radicalmente e completamente la società.

 

Lottare sul terreno di classe è anticipare la lotta di classe più generale e rivoluzionaria

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Ma questo cambiamento non può avvenire attraverso la conciliazione degli interessi sociali tra proletariato e borghesia, come è dimostrato da decenni di collaborazionismo interclassista; deve avvenire sul piano del reale antagonismo di classe che la classe dominante borghese ha continuato a mistificare col suo sistema democratico coinvolgendo a tutti i livelli, compreso quello dell'integrazione nel suo Stato, tutte le organizzazioni proletarie a partire dai sindacati. La lotta di classe, nella realtà sociale, non è una «scelta» che si può fare o meno, non è una «opzione» tra diverse alternative a disposizione del proletariato, ma è l'epressione materiale dell'antagonismo di classe che esiste nella società divisa in classi. La classe dominante borghese mantiene e può mantenere il suo potere solo alla condizione di mantenere la classe proletaria nella schiavitù salariale, dalla quale appunto essa trae la sua forza di dominio economico e politico. Lottare quindi contro la schiavitù salariale è il primo atto di reale opposizione del proletariato al dominio capitalistico su di esso. La schiavitù salariale è il cuore del sistema di oppressione esercitato dalla borghesia sull'intera società; per questo motivo alla borghesia, e ad ogni capitalista singolo, tremano la vene quando il proletariato accenna a porsi sul terreno dell'aperta contrapposizione di classe agli interessi dei padroni; per questo motivo la borghesia tenterà sempre, come ha fatto finora, di deviare le spinte alla lotta da parte proletaria - spinte che non possono essere annullate del tutto come non possono essere annullati i bisogni elementari di mangiare, bere, dormire - sul terreno della conciliazione degli interessi, perché questo terreno corrisponde in realtà ad un rinnovato assoggettamento del proletariato alle leggi del mercato capitalistico, alle leggi del valore, rafforzando proprio la schiavitù salariale da cui la classe dominante borghese trae i suoi profitti, i suoi benefici, i suoi privilegi sociali, il suo dominio.

Le «gabbie salariali» e ogni discriminazione salariale tra proletari che la classe dei capitalisti si inventa per aumentare la concorrenza tra proletari e, nello stesso tempo, aumentare la quota di profitti per sé sono metodi che la classe borghese ha sempre utilizzato, pur dando loro di volta in volta nomi diversi. Esistevano già in Italia un tempo ma vennero formalmente abolite negli anni in cui, con lo Statuto dei Lavoratori, i sindacati tricolore facevano passare tra i lavoratori l'idea che fosse stata scritta una pagina storica sul piano delle garanzie di legge per la classe lavoratrice.

Finché ai padroni e al loro Stato ha fatto comodo gestire le concessioni previste «per legge», tutto sembrava corrispondere all'idea che da quella conquista non si sarebbe più tornati indietro. Ma così non è stato, e non poteva essere perché gli interessi capitalisti primeggiano sempre e sistematicamente su tutto, su qualsiasi legge, su qualsiasi accordo, su qualsiasi «garanzia» sottoscritta. Oggi, di fronte alla proposta della Lega di reintrodurre le gabbie salariali, salta fuori che nella realtà le disparità di trattamento salariale per le stesse mansioni esistono da molto tempo, tra Nord e Sud, e non solo. Vuol dire semplicemente che gli interessi capitalistici sono passati sopra agli «accordi» e alle formalità di Statuti, Contratti o Patti di cui i sindacati collaborazionisti vanno tanto fieri; d'altra parte, questi stessi sindacati sono stati primi attori di ogni variazione, formale o reale, nei rapporti fra massa operaia e controparte padronale e governativa, piegandosi sistematicamente alle esigenze padronali.

E anche qualora i sindacati tricolore, sotto la spinta alla lotta da parte di gruppi o categorie di operai che la crisi economica mette sempre più in difficoltà, alzassero la voce dicendo a governo e confindustria che alle gabbie salariali non si deve tornare e che  l'impegno verso i lavoratori deve essere prioritario perché sono essi che pagano il prezzo più alto in termini di abbattimento dei salari, crescita del lavoro precario e della disoccupazione, quei sindacati alzerebbero la voce solo ed esclusivamente per demagogia. Essi non sono in grado di fare nulla di concreto sul piano della vera lotta di difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, l'hanno dimostrato fin troppe volte. Essi non sono in grado di organizzare la lotta di classe, nemmeno a livelli elementari, perché sono inseriti totalmente nei meccanismi di difesa del capitalismo, dell'economia mercantile, delle leggi che difendono la proprietà privata e l'appropriazione privata della produzione sociale. Essi non sono in grado di rispondere alle esigenze elementari di vita e di lavoro dei proletari perché sono asserviti totalmente alle esigenze dell'economia nazionale e dell'economia aziendale.

Il complesso castello di ammortizzatori sociali che è stato eretto dopo la fine della seconda guerra imperialista - sull'esempio di quanto aveva già fatto il fascismo - per tacitare i bisogni immediati delle masse proletarie appena uscite dagli orribili massacri di guerra è servito certamente alle masse proletarie per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, ma è servito soprattutto alla classe dei capitalisti per avere a disposizione una classe proletaria complice, partecipe - come lo fu durante la guerra di «liberazione dal fascismo» - nello sforzo immane di ricostruzione postbellica. Tutto il lungo periodo di ricostruzione e di espansione capitalistica che durò fino alla grande crisi del 1975 vide effettivamente un certo miglioramento delle condizioni di vita del proletariato, che non smise di lottare, comunque, perché quel miglioramento fosse allargato al massimo di strati proletari possibile e fosse più duraturo possibile. Quella crisi ebbe un effetto dirompente sui profitti capitalistici: la caduta tendenziale del saggio di profitto messa così in evidenza da quella crisi, spinse la classe borghese dominante a premere più pesantemente sulle condizioni di lavoro e di vita dei proletari e iniziò una lenta ma inesorabile erosione del castello di ammortizzatori sociali eretto in precedenza.

Oggi, precarietà diffusa, disoccupazione in aumento non solo per le centinaia di migliaia di licenziamenti ma anche perché chi cerca lavoro non lo trova, salari che non bastano a coprire i bisogni mensili delle famiglie operaie, lavoro nero crescente: questi sono gli aspetti dominanti della condizione operaia. E' questa la prosperità promessa dai borghesi e dagli opportunisti per tanti anni? E' questo il risultato di tutti i sacrifici chiesti e imposti alla classe operaia? Questo risultato non deriva dalla fatalità, dalla malasorte che ha colpito l'economia e quindi anche gli operai: deriva dalle contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico, che rovesciano sugli operai il peso maggiore della crisi capitalistica.

Per opporsi a questa pressione incrementata dalla crisi capitalistica, i proletari non possono contare su forze e organizzazioni che da sempre hanno difeso prima di tutto gli interessi borghesi: in economia, difendendo l'economia nazionale e l'economia delle singole aziende, sul terreno sociale difendendo la conciliazione degli interessi di classe e la pace sociale, sul terreno politico e istituzionale difendendo la democrazia borghese.

Per opporsi a questa ulteriore pressione del capitale sul lavoro salariato, i proletari devono rompere con la tradizione conciliatoria che le forze dell'opportunismo hanno costruito per ingabbiare la forza proletaria e incanalarla a sostenere il sistema capitalistico; devono rompere con le pratiche sindacali che fanno dipendere qualsiasi mossa, qualsiasi azione, qualsiasi obiettivo, qualsiasi rivendicazione, dalla loro compatibilità con gli «interessi generali del paese» che non sono altro che gli interessi generali del capitalismo.

Per opporsi a questi ulteriori attacchi alle condizioni elementari di vita e di lavoro della classe proletaria, i lavoratori salariati -occupati o no, italiani o stranieri, giovani o anziani, maschi o femmine, del Nord o del Sud - devono riprendere nelle proprie mani la difesa dei propri interessi, riorganizzandosi sul terreno dell'aperto antagonismo di classe. Le piattaforme di lotta, gli obiettivi della lotta operaia, le rivendicazioni, i mezzi e i metodi di lotta, tutto deve ruotare intorno alla difesa esclusiva degli interessi immediati della classe proletaria. Solo così sarà possibile per il proletariato risollevarsi dal precipizio di precarietà, miseria e fame in cui l'hanno gettato i padroni e i loro servi sindacali e politici.

 

Rompere la pace sociale e la pratica conciliatoria con il padronato e il suo Stato è necessario anche per la difesa elementare delle condizioni di vita e di lavoro

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La via d'uscita sarà durissima perché la tradizione di lotta classista del proletariato è stata soffocata per tanti decenni. Ma le contraddizioni materiali della società capitalistica sono molto più forti e potenti della volontà dei capitalisti di mantenere l'inganno democratico e conciliatorio; esse spingeranno inevitabilmente i proletari a lottare per sfamarsi, per condizioni di lavoro più dignitose, per difendere la vita delle proprie famiglie e dei propri figli. Da qui ripartirà, inesorabile, la lotta di classe che rimetterà all'ordine del giorno l'antagonismo degli interessi di una classe che produce e che ha in mano il futuro della società umana - il proletariato - e gli interessi delle classi che dominano l'attuale società - i borghesi capitalisti e i proprietari terrieri - e che resisteranno fino all'estremo delle loro forze per conservare il loro dominio. Le forze in campo, dal punto di vista storico, sono gigantesche; quando il proletariato si accorgerà di possere la forza di un movimento reale che avanza impetuoso verso lo sbocco liberatorio delle proprie potenzialità, incamminandosi verso la ripresa vasta e duratura della propria lotta di classe, incontrerà anche il partito di classe, l'organo di quel cambiamento radicale e completo che sarà semplicemente la rivoluzione proletaria e comunista.

Dalla situazione attuale di assenza quasi totale della lotta di classe proletaria, all'epoca della lotta di classe impetuosa e vasta internazionalmente, anticipatrice della lotta rivoluzionaria del proletariato mondiale, vi è una distanza temporale ancora notevole e che in ogni caso non è dato conoscere oggi. Ma la certezza che quella lotta, quella fase classista della lotta proletaria si avvicina la ricaviamo dall'andamento inesorabilmente contraddittorio e critico dello sviluppo del capitalismo. Nella storia nessuna classe sociale si è mai suicidata: tutte le classi inferiori, tutte le classi sottoposte al dominio di altre classi, si sono sempre prima o poi rivoltate contro l'ordine di cose esistente e non in forza di illustri personaggi, valorosi capi o geniali condottieri, ma in forza dello sviluppo materiale e storico delle forze produttive che, ad un certo punto del loro sviluppo, cozzavano contro i limiti delle forme sociali e politiche del dominio di classe esistente. Come è successo allo schiavismo, al feudalismo, al dispotismo asiatico nei secoli passati succederà anche al capitalismo: crollerà sotto i colpi dello sviluppo delle forze produttive da esso stesso generate e della rivoluzione proletaria internazionale che ne decreterà la fine, aprendo la storia degli uomini ad una società senza classi, senza antagonismi sociali, senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

In tutti gli svolti storici precedenti, la società di classe vecchia e decrepita ha lasciato posto alla nuova solo di fronte alla forza, alla violenza e alla dittatura di classe delle classi rivoluzionarie. La rottura della pace sociale e delle pratiche  collaborazioniste e conciliatorie doveva caratterizzare l'apertura del periodo in cui le classi rivoluzionarie aggredivano il vecchio ordine sociale per abbatterlo e per sostituirlo con un nuovo ordine sociale. La borghesia ha dimostrato storicamente, meglio di qualsiasi altra classe precedente, che questa è l'unica via per l'affermazione dello sviluppo delle forze produttive. Il proletariato, classe rivoluzionaria della moderna società borghese, dovrà essere ancora più determinato e spietato perché dovrà affrontare un nemico molto più potente e più organizzato dei vecchi regimi aristocratici e clericali. Dalla sua il proletariato non ha la forza di un'economia che si diffonde nella società prima ancora di avere una corrispondenza politica adeguata, mentre la borghesia - nata e sviluppatasi in una società che solo formalmente e politicamente la contrastava - potè costruire il suo potere economico all'interno stesso della società vecchia, e su questo potere economico appoggiarsi per rivendicare il potere politico.

Il proletariato è la classe dei senza riserve, dei possessori della sola forza lavoro che sono obbligati a vendere per poter sopravvivere. Il suo potere «economico» è costituito esclusivamente dal suo numero - è la maggioranza della popolazione, in particolare nei paesi capitalistici avanzati - e dal fatto che fermandosi, scioperando, può mettere in crisi la macchina del profitto capitalistico. Ma scioperare vuol dire non prendere il salario corrispondente alle giornate di sciopero, perciò è un sacrificio che si riflette immediatamente sulle condizioni di vita dei proletari. Ecco perché lo sciopero è una forma di lotta che non va sprecata, che non va gettata al vento come invece i sindacati collaborazionisti fanno sistematicamente da anni. Lo sciopero deve ridiventare un'arma della lotta di classe del proletariato, e per diventarlo deve colpire seriamente gli interessi dei padroni: solo in questo modo si possono ottenere delle concessioni sul piano immediato.

Lo sciopero, d'altra parte, va preparato, organizzato, diffuso, difeso, valorizzato nella solidarietà dei proletari delle altre aziende e portato a termine valutando con intelligenza i rapporti di forza tra proletari e padroni, tra proletari e istituzioni borghesi. Lo sciopero è un'arte, ed è da questo punto di vista che Lenin ricorda ad ogni proletario che lo sciopero è una scuola di guerra per il proletariato. Scuola di guerra perché con lo sciopero, con la lotta immediata, con la lotta di resistenza quotidiana che il proletariato attua ogni giorno contro il capitale, i proletari accettano lo scontro con le forze della classe borghese avversa, accettano di scendere sul terreno dell'antagonismo di classe in cui la classe borghese agisce costantemente, spesso di nascosto, al riparo delle leggi statali, delle regole imposte dal suo ordine sociale, dell'attività quotidiana e capillare dei suoi organi di propaganda e dell'attività quotidiana e capillare delle organizzazioni sindacali e politiche che si presentano come voce degli interessi dei lavoratori ma che in realtà sono la voce della conciliazione interclassista, dell'opportunismo più infido e velenoso. Il padrone non è mai solo di fronte ai suoi salariati: è difeso da tutto l'apparato istituzionale, poliziesco, giudiziario ed economico della società. I proletari, di fronte al loro padrone, o poggiano su organizzazioni sindacali classiste - quindi che si occupano esclusivamente della difesa dei loro interessi immediati - oppure sono drammaticamente soli e debolissimi di fronte al proprio padrone; figuriamoci di fronte allo Stato.

Ecco perché, quando le organizzazioni operaie cedono le armi e passano alle dipendenze del nemico di classe, il proletariato è nudo, disarmato, completamente in balìa delle situazioni. Così, anche quando lotta, si difende, sciopera, protesta, manifesta e rivendica che vengano applicate le leggi che lo tutelano e che le sue condizioni di vita e di lavoro non peggiorino, il proletariato si trova in un rapporto di forze estremamente debole e in generale non ottiene quel che sarebbe doveroso ottenere.

L'insistenza che le organizzazioni tricolore adoperano nelle pratiche del negoziato, degli incontri ai molteplici vertici aziendali, di categoria o nazionali, per cercare costantemente una via d'incontro prima ancora di confrontarsi con gli operai e di saggiare la loro disponibilità alla lotta e prima ovviamente di proclamare la lotta o lo sciopero, va esattamente nella direzione della ricerca costante di conciliare le esigenze del padronato con le esigenze dei proletari. Esse parteggiano aprioristicamente per il mantenimento della pace sociale, in fabbrica come sul territorio; aborriscono le azioni di forza, figuriamoci le azioni violente, e fanno tutto quel che possono perché gli operai quando perdono nel confronto coi padroni - e perdono quasi sempre - non si lascino andare ad atti violenti di ribellione. In realtà, le organizzazioni collaborazioniste aborriscono la lotta di classe e, mentre sono disposte anche ad usare la forza in difesa dell'azienda e in difesa della democrazia, rifiutano anche solo l'idea che gli operai usino la forza e la violenza per contrastare la forza e la violenza che i padroni e lo Stato usano contro di loro.

I proletari lo sanno già, intimamente, che prima o poi dovranno scendere sul terreno dello scontro aperto con le forze della conservazione sociale; lo sanno già che prima o poi dovranno nuovamente scontrarsi con le forze di polizia chiamate a difendere armi alla mano la proprietà privata dei padroni e i loro interessi, come è già successo nei decenni scorsi più volte. I proletari sanno che il clima sociale sta peggiorando a loro sfavore perché si ritrovano troppe volte completamente disorganizzati e in balìa degli eventi. Ma sperano ancora che lo scontro non avvenga, che i sindacati tricolore possano ancora ottenere qualche miglioramento se spinti con insistenza dalla pressione operaia ad avanzare richieste immediate di difesa salariale e del posto di lavoro. Montano sulle gru e sui tetti per protesta, presidiano per mesi i cancelli delle fabbriche che chiudono, si chiudono negli uffici delle fabbriche coi dirigenti d'azienda per ottenere qualche risultato immediato, bloccano strade, autostrade e binari del treno perché la loro lotta sia conosciuta e non finisca nel completo silenzio: ma tutto questo, senza un'organizzazione classista che ha il compito di organizzare e difendere queste forme di lotta e di durare nel tempo anche dopo che la lotta è terminata, è destinato a perdere peso e anche quello che è stato eventualmente ottenuto, è destinato a finire presto o ad essere successivamente rimangiato, rigettando i proletari nella disperazione della disoccupazione e della mancanza di salario.

La pace sociale porta vantaggi esclusivamente al padronato e alle forze di conservazione sociale; il metodo di conciliare le esigenze dei proletari con quelle dei padroni porta benefici esclusivamente ai padroni. I proletari ci perdono sempre, anche se temporaneamente, e solo in qualche caso, qualcuno ottiene soddisfazione. I proletari  che sono occupati oggi possono diventare precari o disoccupati domani, non c'è più alcuna certezza che un lavoro a tempo indeterminato sarà effettivamente a tempo indeterminato. E' anche per questa ragione che i proletari occupati devono coinvolgere nella loro lotta anche i proletari disoccupati; è anche per questa ragione che la rivendicazione del salario di disoccupazione non può essere separata dalla rivendicazione del salario da lavoro: i capitalisti valorizzano il salario dei proletari occupati tenendo conto in anticipo dei costi generali della manodopera e della valorizzazione effettiva della forza lavoro che proviene dalla pressione che le masse disoccupate fanno sulle masse occupate per ottenere un posto di lavoro. La concorrenza fra proletari, quindi, è il grimaldello che i capitalisti usano per scardinare le certezze, le «garanzie» con cui ingannano da decenni le masse operaie. Battersi contro la concorrenza fra proletari ridiventa, perciò, il leit motiv della lotta di classe proletaria. L'esercito industriale di riserva, l'esercito dei disoccupati, non deve essere separato dall'esercito degli operai impiegati nella produzione e nella distruibuzione. Questa separazione facilita il compito ai capitalisti perché attraverso di essa riescono ad abbattere il prezzo della forza lavoro impiegata senza dover fare una specifica guerra.  Le masse proletarie disoccupate e le masse proletarie occupate, insieme alle masse proletarie impiegate in lavori saltuari e precari, fanno parte di un unico esercito: l'esercito dei lavoratori salariati. E' all'unione di questo esercito che è rivolto il grido di battaglia del Manifesto di Marx ed Engel: Proletari di tutto il mondo unitevi!                                             

Non si può combattere una «guerra di classe» contro un nemico organizzato ed esperto come la classe borghese dominante se ci si combatte fra soldati nelle stesse file.

La riorganizzazione classista deve, quindi, passare non soltanto attraverso la riconquista del terreno dell'antagonismo di classe con il padronato e il suo Stato, ma attraverso una dura lotta contro la concorrenza fra proletari. Solo per questa via sarà possibile che il proletariato riprenda in mano le sorti del suo futuro prossimo e del suo futuro lontano, sapendo che la guerra di concorrenza che i borghesi si fanno tra di loro e i contrasti che derivano dai loro specifici interessi e dalle loro ambizioni di predominio sul mercato, sfocerà inevitabilmente in contrasti sempre più acuti fino a trasformarsi in guerra guerreggiata. Il dispotismo di fabbrica di oggi, il dispotismo sociale che si subisce ogni giorno di più, sono destinati a diventare dispotismo poliziesco e militare domani, quando non basteranno più all'ingordigia borghese i sacrifici che già fanno i proletari oggi, ma ne richiederanno di ancor più duri e grandi. Per i proletari, la lotta di classe è una necessità di vita, la riorganizzazione classista sul piano immediato è il mezzo più appropriato per difendere efficacemente le condizioni di sopravvivenza e per allenarsi a quella «guerra generale di classe» alla quale la maturazione delle condizioni storiche chiamerà in futuro  il proletariato.

 

 

Partito comunista internazionale

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