Delle crisi cicliche del capitalismo, del loro inevitabile e storico sbocco nella guerra guerreggiata e della sola e decisiva soluzione storica rappresentata dalla rivoluzione proletaria (3)

(Riunione generale di milano, 17 gennaio 2009)

 

(«il comunista»; N° 114; Ottobre 2009)

 

(continua dal numero scorso)

 

Intermezzo

 

Potenze imperialistiche e rapporti di forza: il disordine mondiale di oggi pone le premesse per una nuova spartizione del mondo che gli imperialismi si contenderanno in una terza guerra mondiale

 

La crisi economica attuale, come tutte le crisi del capitalismo, ha radici lontane. Si può affermare senza ombra di dubbio, con Marx, che ogni crisi capitalistica pone una doppia via d’uscita: la soluzione borghese e la soluzione proletaria; quindi la soluzione conservatrice o la soluzione rivoluzionaria. Oggi la soluzione proletaria e rivoluzionaria è disgraziatamente molto lontana, mentre domina incontrastata la soluzione borghese e imperialistica.

Lo sviluppo planetario dell’economia capitalistica non ha fatto che confermare la tesi marxista secondo la quale ogni crisi economica è crisi di sovrapproduzione: si producono più merci di quante il mercato può assorbirne. Il che vuol dire, in termini semplici, che alla quantità di merci prodotte da tutte le attività economiche capitalistiche nel mondo non corrisponde una loro totale trasformazione in denaro. In questo modo, tutto il capitale impiegato nella produzione non si valorizza, e va in crisi.

La sovrapproduzione di merci non ha nulla a che fare con la produzione necessaria ai bisogni umani di vita; ha a che fare esclusivamente con il mercato, ossia il luogo in cui le merci si trasformano in denaro, e il denaro in capitale, cioè in risorsa economica e finanziaria disponibile ad ulteriori investimenti nei diversi rami in cui la complessa macchina produttiva capitalistica si è suddivisa. Con lo sviluppo del capitale finanziario si sviluppa la speculazione, ossia quel tipo di operazioni che agiscono non nel campo diretto della produzione e della distribuzioni delle merci ma nel campo dei capitali di borsa e di tutte quelle manovre che attengono a qualsiasi movimento di denaro al di fuori della stretta cerchia del capitale industriale e del capitale commerciale.

La spinta irrefrenabile (il diavolo in corpo del capitalismo) a produrre sempre più merci, e a produrle a costi sempre meno alti per battere la concorrenza delle altre aziende e delle aziende degli altri paesi, spinge la classe dominante borghese di ogni paese a favorire al massimo possibile l’attività del mercato interno proteggendo le aziende nazionali e, nello stesso tempo, a conquistare territori economici oltre i propri confini nazionali. La globalizzazione non è altro che la tendenza del capitalismo (e quindi delle aziende capitalistiche anche singolarmente prese) a conquistare i mercati degli altri paesi, presso i quali assicurare uno sbocco alle proprie merci e ai propri capitali. Il movimento di conquista dei mercati internazionali non è più limitato ad una sola grande potenza come fu per l’Inghilterra tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Il modo di produzione capitalistico si è diffuso a grande velocità  in Europa, in America e in tutto il mondo anche grazie a quelle conquiste, e alle guerre che ne sono derivate. In effetti, i due fattori principali di diffusione del capitalismo nel mondo sono stati la lotta di concorrenza e la guerra: come dire, il commercio e l’esercito, perché le merci, una volta prodotte, dovevano trovare uno sbocco di mercato, in patria o fuori di essa, pena la rovina dei capitalisti.

Per tutto l’Ottocento e il Novecento, lotta di concorrenza commerciale e guerre guerreggiate hanno cadenzato la conquista del mondo da parte del modo di produzione capitalistico avendo come propri vettori innanzitutto l’Inghilterra, e poi la Francia, la Germania, l’Olanda, gli Stati Uniti, il Giappone. Venne poi la Russia, nella quale la rivoluzione proletaria vittoriosa non riuscì a lanciare il movimento rivoluzionario  anticapitalistico in Europa e nel mondo, riuscì però in qualche decennio a far decollare il capitalismo nel continente eurasiatico, erodendo anche la millenaria staticità cinese. Oggi la Cina, a sessant’anni di distanza dalla sua rivoluzione borghese del 1949, può considerarsi a buon diritto potenza imperialistica a tutti gli effetti, della quale tutti i vecchi imperialismi non possono più non tener conto. Se, dopo la fine della prima guerra imperialistica mondiale, l’Inghilterra rappresentava ancora la più forte potenza imperialistica al mondo, dopo la seconda guerra imperialistica sono gli Stati Uniti che sopravanzano l’Inghilterra e le altre potenze imperialistiche minori e che prendono il posto di prima potenza imperialistica mondiale. Il movimento rivoluzionario del proletariato del primo dopoguerra mondiale non ebbe storicamente la forza di vincere il dominio imperialistico sul mondo; fu sconfitto alla fine di una lunga, tormentata e accanita lotta contro tutte le potenze capitalistiche alleate al fine di soffocarlo e di abbattere il bastione rivoluzionario russo. La controrivoluzione borghese, che rispetto al movimento proletario rivoluzionario prese le caratteristiche dello stalinismo, con la propria vittoria riuscì a garantire al potere borghese e capitalistico ulteriori decenni di vita. E il proletariato, vinto e schiacciato sotto un dominio borghese ancor più soffocante e potente, dopo essere stato condotto dalle forze opportuniste alla difesa della democrazia borghese e alla complicità nazionalistica nella guerra imperialistica, a guerra vinta dalle potenze imperialistiche «antifasciste» fu coinvolto più facilmente dalle forze opportuniste nella partecipazione attiva alla ricostruzione postbellica e ad una nuova espansione capitalistica.

 

Con la II guerra mondiale vince la dittatura mondiale dell'imperialismo

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La crisi capitalistica che fu «risolta» con la seconda guerra imperialistica fu effettivamente superata ma alla sola condizione di preparare fattori di crisi ancor più ampi e profondi dei precedenti. L’arco storico successivo alla fine della seconda guerra imperialistica vide un’espansione capitalistica piuttosto forte e in grado di svegliare alla lotta politica anticolonialista le masse dei popoli colorati d’Asia e d’Africa. Anche di queste lotte anticoloniali si nutrirono la democrazia borghese e lo stalinismo, nel senso che, in assenza di un movimento di classe proletario e comunista significativo e agente internazionalmente, ebbero l’occasione storica di incanalare quelle lotte e quei movimenti anticoloniali nell’alveo della conservazione sociale borghese generale. Così in Cina, in India, in Indocina e nell'Estremo Oriente, nel Nord Africa e nell’Africa nera. Il condominio russo-americano del mondo seguito alla seconda guerra imperialistica mondiale aveva una funzione essenzialmente antirivoluzionaria e antiproletaria, in una spartizione dei mercati e delle zone di influenza atta a garantire – fino a quando i contrasti interimperialistici avrebbero rimesso in discussione questa spartizione – il controllo del movimento operaio nei paesi capitalisticamente avanzati in modo tale che i contraccolpi delle crisi economiche, e di guerra, che si sarebbero prodotti inevitabilmente nel corso dello sviluppo del capitalismo mondiale e i colpi al dominio coloniale che i rivolgimenti anticoloniali avrebbero sicuramente dato, non facessero da stimolo oggettivo alla ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato dei paesi padroni del mondo. E’ dimostrato storicamente che, senza l’opera continua, tenace, insistente, violenta e capillare delle forze dell’opportunismo stalinista nel deviare sistematicamente il movimento operaio dal solco della ripresa della lotta di classe, la classe operaia internazionale non sarebbe stata piegata così pesantemente alle esigenze di sviluppo del capitalismo e non sarebbe stata portata a condividere con le forze dei rispettivi imperialismi la difesa dell’ordine borghese.

La Sinistra Comunista, da cui noi deriviamo, ha sempre messo in primissimo piano la necessità, da parte del ricostituendo partito comunista rivoluzionario nel secondo dopoguerra, di combattere strenuamente ogni forma di opportunismo che l’ondata staliniana avrebbe inevitabilmente prodotto. Ma era necessario dare anzitutto una valutazione precisa della seconda guerra mondiale e della sua conclusione. E tale valutazione non poteva essere fatta se non «nella stretta continuità fra le sue posizioni critiche [del partito autenticamente di classe, NdR] e le sue parole di propaganda e di battaglia in tutto il succedersi ed il contrapporsi delle diverse fasi del divenire storico», come si affermava nello scritto della nostra corrente intitolato Le prospettive del dopoguerra, del 1946 (1). In questo testo affermavamo che, alla situazione di guerra, seguiva «una situazione di dittatura mondiale della classe capitalistica, assicurata da un organismo di collegamento dei grandissimi Stati, che hanno ormai privato di ogni autonomia e di ogni sovranità gli Stati minori ed anche quelli che venivano prima annoverati fra le “grandi potenze”. Questa grande forza politica mondiale esprime il tentativo di organizzare su di un piano unitario l’inesorabile dittatura della borghesia, mascherandola sotto la formula di “Consiglio delle Nazioni Unite”, di “Organizzazione della sicurezza”. Essa equivale, qualora riesca nel suo scopo, al maggior trionfo delle direttive che andavano sotto il nome di fascismo e che, secondo la dialettica reale della storia, i vinti hanno lasciato in eredità ai vincitori».

Da ciò la conclusione che il fascismo, che è il tentativo borghese della massima centralizzazione politica, oltre che economica, dello sviluppo capitalistico, aveva sì perso militarmente la guerra ma l’aveva vinta economicamente e politicamente. Il fascismo non era più confinato nei soli Stati di Germania, Italia e Giappone, ma, proprio grazie alla seconda guerra imperialistica,  guadagnava il gruppo delle maggiori potenze del mondo, a partire dagli Stati Uniti d’America, decretando il passaggio all’inesorabile dittatura della borghesia imperialista.

E la democrazia, tanto decantata, che fine ha fatto? Non erano forse le potenze rappresentanti della democrazia che avevano vinto le potenze rappresentanti della dittatura, abbattendo il fascismo? La storia ha dimostrato ampiamente che la democrazia, con tutti i suoi istituti, è servita soltanto a mascherare al proletariato mondiale la realtà della dittatura capitalistica e ad influenzarlo così profondamente da renderlo addirittura attivo partecipante alla guerra in difesa della democrazia, tanto partecipando agli eserciti delle potenze imperialiste “democratiche” quanto facendo parte dei movimenti partigiani “antifascisti”. Lo scritto citato continuava: «La possibilità di questa prospettiva più o meno lunga, di governo internazionale totalitario del capitale, è in relazione alle opportunità economiche che si presentano alle impalcature pressoché intatte dei vincitori – primissima quella americana – di attuare per lunghi anni proficui investimenti della accumulazione capitalistica follemente progressiva nei deserti creati dalla guerra e nei paesi che le distruzioni di essa hanno ripiombato dai più alti gradi dello sviluppo capitalista ad un livello coloniale». Non c’è dubbio alcuno che per lunghi anni, ormai per più di cinque decenni, i proficui investimenti dell'accumulazione capitalistica hanno fatto registrare per le «impalcature pressoché intatte dei vincitori» masse gigantesche di profitti grazie alle quali quegli Stati potevano adottare senza problemi un nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica che consisteva in una forma di autolimitazione del capitalismo, nel livellare, cioè, intorno ad una media l’estorsione di plusvalore (2); come dire: non estorsione selvaggia che può provocare reazioni ribellistiche e insurrezionali del proletariato, ma estorsione di plusvalore più controllata in modo da attenuare le crisi d’urto tra le classi. Con questo metodo i poteri borghesi adottavano, in pratica, una serie di temperamenti riformistici per tanti decenni propugnati dai socialisti di destra, riducendo così le punte massime e acute dello sfruttamento padronale, sviluppando allo stesso tempo ampie forme di materiale assistenza sociale. Gli ammortizzatori sociali, di cui il fascismo si era servito per tacitare i bisogni più impellenti delle masse proletarie, venivano in questo modo diffusi e ampliati in tutti gli Stati democratici vincitori della guerra. Ma, in regime imperialistico del capitalismo, non si può «fondare un’economia di stato senza uno stato di polizia. Più interventi, più regole, più controlli, più sbirri» (3). La democrazia, che gli Stati vincitori della seconda guerra mondiale si vantano di aver difeso e ripristinato battendo il fascismo, è in realtà un fascismo mascherato, un abile riformismo sociale protetto dall’aperta difesa armata del potere statale; la dimostrazione va cercata nella realtà sociale ed economica, non nelle istituzioni parlamentari e nelle cosiddette «libertà», che servono come specchietto per gli illusi elettori. Lo stesso opportunismo stalinista, e post-stalinista, ha potuto radicare la sua fetente influenza sul proletariato per tanti decenni proprio poggiando sul riformismo sociale adottato dai poteri borghesi: il castello di ammortizzatori sociali eretto negli anni dopo la fine della seconda guerra mondiale faceva da base materiale alla gigantesca macchina propagandistica delle forze opportuniste del collaborazionismo interclassista. Queste sono le ragioni per le quali la nostra corrente giungeva alla seguente conclusione: «se in fase totalitaria l’oppressione borghese di classe aumenta la proporzione di impiego cinetico della violenza rispetto a quella potenziale, l’insieme della pressione sul proletariato non ne risulta aumentato ma diminuito. Appunto per questo la crisi finale della lotta di classe subisce storicamente un rinvio» (4). Il proletariato, quindi, in generale ne ha avuto un beneficio e va vista in questa condizione materiale generale del proletariato, soprattutto dei paesi capitalistici avanzati, la ragione, a livello internazionale, del ritardo nell’entrata in scena della lotta di classe vasta e duratura. La stessa ragione vale per il partito di classe rivoluzionario, non solo dal punto di vista della sua formazione e del suo sviluppo, ma anche dal punto di vista delle sue possibilità pratiche di intervento e di influenza nelle file e nelle lotte del proletariato.

E’ riuscito, e riuscirà, quel piano unitario di organizzazione borghese a livello mondiale ad avere una vittoria definitiva sulle contraddizioni congenite del modo di produzione capitalistico, sugli antagonismi di classe e sui contrasti interimperialistici che hanno caratterizzato tutto il periodo di sviluppo del capitalismo fino alla seconda guerra mondiale e fino ad oggi?

 

La fine del periodo di espansione del dopoguerra apre il lungo periodo di anteguerra

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La nostra risposta è stata fin da allora NO. Perché «lo stesso ritmo vertiginoso che esso [il piano unitario di organizzazione borghese, NdR] imprimerà all’amministrazione di tutte le risorse e attività umane, con lo spietato asservimento delle masse produttrici, ricondurrà a nuovi contrasti e a nuove crisi, agli urti fra le opposte classi sociali e, nel seno della sfera dittatoriale borghese, a nuovi urti imperialistici tra i grandi colossi statali» (5). Già in quegli anni, di fatto, i congressi di pace fallivano uno dopo l’altro, come falliva miseramente il nuovo organismo mondiale (l’Onu) o «super-stato», mentre risorgevano sempre più prepotentemente i grandi blocchi di stati alleati (nasceranno infatti la Nato e il Patto di Varsavia) e le sfere di influenza nel loro «pericoloso equilibrio» che chiamammo, all’epoca, l’equilibrio del terrore tra i due grandi avversari muniti di armamento nucleare, Usa e Urss. Il capitalismo inglese, primo nel mondo fino al secondo conflitto mondiale e «depositario supremo delle forze della controrivoluzione», dovrà lasciare il passo al capitalismo americano, «più giovane storicamente, ma che ne appare il successore di gran lunga più possente» (6), e questo segnerà il primo grande contrasto interimperialistico, finita la guerra, che si esprimerà non in un urto diretto fra i due colossi statali, ma nella serie interminabile di guerre e guerricciole nelle zone più delicate del mondo capitalistico, soprattutto nel Medio Oriente, dove i giacimenti di petrolio facevano gola a entrambi. La previsione marxista sulla ciclicità delle crisi economiche del capitalismo, sul crescendo dei contrasti interimperialistici e sugli urti tra le opposte classi sociali trovava conferme a ripetizione, e non solo con la guerra di Corea del 1950, ad appena 5 anni di distanza dalla fine del secondo macello imperialistico, ma con la serie interminabile di guerre locali in cui le grandi potenze imperialistiche erano sempre coinvolte, dal Medio Oriente all’Indocina, fino alla sequenza incontenibile dei moti coloniali soprattutto in Africa che coprirà tutto il secondo dopoguerra fino alla grande crisi generale del capitalismo mondiale del 1975.

Questa crisi generale decreterà la fine del periodo di dopoguerra e l’inizio del periodo di anteguerra. Lo sviluppo delle economie dei paesi europei e del Giappone in questi trent’anni ha costituito nello stesso tempo il maggior mercato di scambio con il capitalismo americano e la crescita dei maggiori concorrenti sul mercato internazionale del capitalismo americano. I contrasti economici tra i più potenti paesi del mondo, Usa, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Russia, andavano di pari passo con l’intercambio commerciale, ma tutti era costantemente interessati a mantenere un equilibrio generale tra di loro e a farsi la guerra (commerciale ma anche militare) in tutte le altre zone del mondo, in particolare nei paesi gonfi di petrolio, gas naturale, risorse minerarie di ogni tipo, e nelle zone delle più importanti rotte terrestri e marittime. Nessun lembo del globo veniva dimenticato, fosse pure l’Himalaya o la più sperduta isola dell’Oceano Pacifico perché avrebbe sempre potuto costituire una base militare per controllare, da lì, una zona più vasta.

 

La globalizzazione come acceleratore delle crisi capitalistiche

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La globalizzazione delle merci e dei capitali è fenomeno vecchio quanto l’imperialismo, e i contrasti inter-imperialistici non hanno fatto altro che accelerare questo fenomeno, introducendo forzosamente capitalismo anche nei paesi più arretrati. Per quanto le maggiori potenze mondiali dell’epoca si dessero da fare per limitare lo sviluppo del capitalismo nei paesi che comunque dominavano, la pressione del mercato capitalistico era tale da far saltare questi limiti almeno in quei paesi in cui erano concentrate grandi masse proletarie o da proletarizzare e grandi risorse naturali, sì da diventare ulteriori occasioni di proficui investimenti dell’accumulazione capitalistica follemente progressiva di cui parlavamo prima. E’ stato il caso di Cina, India, Brasile, Sudafrica, Corea del Sud,  Taiwan, Singapore ecc., paesi in cui lo sviluppo capitalistico ha sì prodotto economie sviluppate e forza finanziaria di tutto rispetto (si pensi alla Cina), ma non hanno risolto la disparità tra i centri e le zone in cui l’economia capitalistica si è effettivamente sviluppata creando masse proletarie e ceti intermedi e i centri e le zone più arretrate che precipitano, invece, in una povertà ancora più grave che in precedenza.

Questa tendenza a sviluppare capitalismo non è a senso unico, ma è contrastata dalla controtendenza a mantenere, se non a peggiorare, la situazione di arretratezza economica di un gran numero di paesi. Lo sviluppo ineguale del capitalismo, in realtà, pur consentendo ad alcuni paesi di accedere ad un progresso economico importante, tende storicamente ad allargare la forbice tra i centri monopolistici più importanti (singoli colossi statali o gruppi di stati alleati) e il gran numero di paesi che subiscono l’impianto del capitalismo soltanto in determinati settori produttivi (quelli più interessanti il mercato mondiale e i centri monopolistici padroni del mondo), ma che nel resto dell’economia stentano a farlo progredire con lo stesso ritmo di sviluppo. Quel che succede fra la grande industria e la piccola e media azienda artigiana, succede in un certo senso tra i paesi del mondo: le economie capitalistiche più forti e organizzate dettano legge sull’intero mercato mondiale, dominandolo, e costringono le economie capitalistiche più arretrate a sopravvivere in una situazione di dipendenza coloniale.

Riprendendo il filo del lavoro di partito dalla crisi mondiale del 1975 in avanti, ci riferiamo in particolare alla riunione generale del 1977 intitolata Sotto la sferza della crisi si approfondiscono i contrasti interimperialistici (7) in cui si traccia chiaramente l’andamento previsionale del corso dell’imperialismo mondiale nel periodo storico che chiamammo di anteguerra. Una serie di avvenimenti giustificavano la definizione di periodo di anteguerra: la crisi mondiale e simultanea in tutti i paesi imperialisti del 1975, il cambio di campo della Cina che dall’alleanza con l’Urss passa ad un avvicinamento sempre più accelerato agli Usa, il riarmo dell’imperialismo russo che getta le basi nel contempo per una potenziale alleanza col Giappone, la crescente attività imperialistica della Germania verso i paesi dell’Europa dell’Est, l’aggressione di tutti i paesi imperialisti all’Africa – dopo aver perso il controllo diretto nella forma della dominazione coloniale – e  nel cui ventre sono situate le maggiori riserve di materie prime del mondo (in Congo-Zaire innanzitutto). I contrasti interimperialistici, che sono una costante dello sviluppo del capitalismo in ogni periodo storico, proprio a causa della crisi mondiale, subiscono un'accelerazione e una diversificazione negli «equilibri» mondiali ponendo oggettivamente il problema che inevitabilmente si sarebbe presentato per ogni paese imperialista della futura collocazione nel quadro delle alleanze, a miglior difesa dei propri interessi specifici rispetto anche ad un futuro scontro di guerra mondiale. Col 1975 terminava il lungo ciclo delle lotte anticoloniali iniziato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la raggiunta «indipendenza» da parte dell’Angola e del Mozambico dall’ultima vecchia potenza coloniale, il Portogallo, ricollocando anche questi paesi nel vortice dei contrasti interimperialistici non più come appendici delle vecchie potenze coloniali, ma come Stati borghesi indipendenti nati sì da una dura lotta nazional-rivoluzionaria, ma con un debolissimo sviluppo economico nazionale e in un quadro internazionale di crisi economica che lasciava ben poco spazio ad una crescita economica al riparo dalle sempre più numerose aggressioni imperialistiche ai loro territori e alle loro ricchezze naturali; questa situazione li costringeva – come era successo per una gran parte degli altri paesi coloniali che precedentemente si «liberarono» del vecchio colonialismo europeo – ad una sudditanza dalle grandi potenze imperialistiche sotto altre forme (investimenti finanziari, concessioni minerarie ecc.). Ciò nonostante, di positivo vi era l’allargamento crescente in quei paesi della proletarizzazione delle masse contadine che andavano inconsapevolmente ad ingrossare l’esercito mondiale del proletariato.

In quegli anni si è comunque assistito ad un crescendo di lotte operaie nei paesi più sviluppati attraverso le quali i proletari hanno tentato anche di riorganizzarsi al di fuori degli apparati dei sindacati tricolore, lotte che non furono solo «di fabbrica», ma che investirono altri terreni come quello della disoccupazione, dei senza casa, delle donne, degli immigrati e, nei paesi capitalisticamente arretrati, dei senza terra. La crisi mondiale del 1975 aveva, quindi, scosso parecchio gli equilibri interimperialistici e la pace sociale che avevano caratterizzato tutto il lungo trentennio di espansione capitalistica dopo la fine della guerra. La crisi economica non provocò, però, quel profondo terremoto sociale dal quale soltanto può svilupparsi la rottura sociale tra proletariato e borghesia spingendo il proletariato alla ripresa della sua lotta di classe. La previsione di partito sulla possibile concomitanza tra periodo di crisi economica e crisi sociale e politica con l’apertura di uno sperato periodo rivoluzionario non trovò conferma. Non mancarono episodi di lotta dura e al di fuori dei canoni riformisti e di tolleranza democratica, ma i lunghi decenni di intossicazione democratica e collaborazionista agirono ancora come potente anestetico sociale impedendo a quegli episodi, a quelle lotte, di innescare un ciclo classista della lotta operaia. Gli slanci di lotta e gli stessi tentativi di riorganizzazione indipendente dalle strutture del collaborazionismo vennero a poco a poco riassorbiti e spenti. I proletari si ritrovarono per l’ennesima volta a dover indietreggiare dallo stesso livello di lotta tradunionista, offrendo al nemico di classe vittorie relativamente facili. Va detto che l’opera di pompieraggio e di tradimento, portata avanti per decenni dai vari partiti comunisti affiliati a Mosca o a Pechino e dai sindacati «operai» tricolore, logorò non poco il rapporto di fiducia  dei proletari verso quelle organizzazioni; da questo logoramento non ci si poteva certo aspettare meccanicamente un distacco «cosciente» dei proletari dall’opportunismo e la loro riorganizzazione su vasta scala e duratura in organismi immediati di classe, anche se il partito aveva il compito – che ha svolto nei limiti delle sue forze e dopo aver ripreso la giusta tattica sindacale con le tesi del 1972 – di intervenire nelle lotte proletarie propagandando le corrette rivendicazioni classiste e la riorganizzazione classista degli operai dentro e fuori dei sindacati tricolore.                                                           

E’, d’altra parte, indiscutibile il fatto che i proletari non seguirono più con partecipazione attiva i sindacati collaborazionisti come nel trentennio precedente di espansione capitalistica, anche se le condizioni di schiacciamento del loro movimento nei confini delle compatibilità borghesi erano ancora tanto pesanti da non permettere che le spinte verso la ripresa classista trovassero alimento e sviluppo. Non va dimenticato, inoltre, che la fitta rete di ammortizzatori sociali tesa intorno ai bisogni primari del proletariato, nonostante cominciasse a subire strappi non più rimarginabili, funzionava ancora alimentando l’illusione che attraverso l’opera delle organizzazioni collaborazioniste – spinte dalla più forte pressione operaia – si potessero efficacemente difendere le condizioni di vita e di lavoro operaie colpite duramente dalla crisi. Sul piano più generale del corso economico del capitalismo mondiale, nonostante la crisi, le classi dominanti borghesi potevano ancora pescare nelle gigantesche risorse economiche accumulate nel trentennio precedente per tacitare i bisogni più impellenti almeno di una parte degli strati proletari più influenzabili (come i vasti strati di aristocrazia operaia formatisi nei paesi capitalistici avanzati) (8), e per ridefinire le alleanze tra blocchi di Stati rimesse in discussione dalla stessa crisi del 1975.

 

La tenace resistenza dell'equilibrio imperialistico mondiale

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Nonostante i notevoli contrasti interimperialistici presenti nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, che si evidenziarono nettamente dapprima durante il famoso shock petrolifero del 1973 e successivamente con lo scoppio della crisi mondiale nel 1975, l’equilibrio imperialistico mondiale non subì una rottura tale da generare le condizioni dello scoppio della guerra mondiale: le maggiori potenze imperialistiche avevano ancora margini economici e politici, per contenere, nella sempre più acuta lotta di concorrenza mondiale, entro certi limiti la loro spinta oggettiva a trasformare la loro politica economica e commerciale in politica militare a tutt’orizzonte. Non che la politica militare sia mancata, tutt’altro. La guerra di Corea nel 1950, la guerra prima francese e poi americana in Indocina e in particolare in Vietnam dal 1954 in avanti, le guerre mediorientali tra Israele e l’Egitto e i suoi alleati arabi, le guerre di contrasto ai movimenti anticoloniali soprattutto in Africa: tutto il periodo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra è stato caratterizzato da una costante politica di oppressione imperialistica e di guerra che il sempre più forte militarismo delle grandi potenze imperialistiche non poteva non adottare. La tendenza, quindi, dell’imperialismo a risolvere, in ultima analisi, con la guerra i contrasti fra gli Stati – giusta Lenin – era confermata in pieno proprio da questa serie interminabile di guerre locali con le quali i diversi Stati imperialisti più potenti sfogavano le loro contraddizioni mantenendo, nello stesso tempo, il mondo sotto la cappa del dominio opprimente del capitalismo, senza dover ancora giungere al livello di scontro più alto, all’urto diretto in una guerra che non potrebbe essere che mondiale. La corsa all’armamento caratterizzava, d’altra parte, tutti i paesi più importanti, ma non solo e non tanto dal punto di vista quantitativo; i paesi imperialisti si sono sempre armati fino ai denti, non è una novità. A partire già dal periodo a cavallo degli anni Sessanta-Settanta, la differenza va cercata nella qualità degli armamenti, nelle nuove tecnologie applicate all’industria bellica dove si assisteva a una vera e propria «competizione» non soltanto tra i due colossi statali che dominavano la scena mondiale, Usa e Urss, con le tecnologie relative ai nuovi materiali utilizzati nell’industria spaziale, i nuovi sistemi di puntamento e di radar, negli armamenti nucleari per renderli più flessibili e, quindi, utilizzabili effettivamente in un conflitto, nei sistemi di trasmissione dati (l’informatica, internet ecc.). Tutto questo faceva parte, e fa parte, della preparazione di tutti gli Stati imperialisti alla guerra fra di loro perché le rispettive borghesie sanno bene che, ad un certo grado di crisi internazionale, la politica da adottare non potrà che essere quella della guerra generale. Nel frattempo, le guerre locali sono servite e servono non soltanto per ribadire il dominio della tale o tal altra potenza imperialistica in quei territori, ma per testare le nuove strategie e le nuove tattiche militari, e i nuovi armamenti in modo che, quando la guerra generale sarà all’ordine del giorno sia possibile concentrare lo sforzo produttivo bellico in quei settori e in quelle tecnologie che danno potenzialmente più forza ai propri eserciti. Nel frattempo, vale sempre la politica delle riforme, la politica fascista della collaborazione di classe con la quale si preparano e si allenano le masse proletarie a farsi sacrificare sui campi di guerra come si fanno massacrare di fatica, in tempo di pace, nelle fabbriche-galere capitalistiche.     

Nella riunione generale di partito del 1977, citata più sopra (9), sostenevamo: «Se è lecito un paragone fra questo anteguerra e la situazione del primo, sono allora passati 12 anni fra il momento in cui l’Inghilterra giudicò impossibile un’intesa con la Germania e cominciò a preparare sistematicamente il conflitto, e il conflitto stesso. L’ha fatto con una politica di accerchiamento della Germania e di concessioni ai propri alleati all’esterno e al proletariato all’interno, che gli Usa cercano oggi di copiare fin nelle sue conseguenze “interne”, visto che Carter non ha nulla da inventare, in materia di riforme, rispetto a Lloyd George. Il proletariato potrà trarre profitto dai decenni che ci separerebbero dalla nuova conflagrazione mondiale per prepararsi a trasformarla in guerra civile e a farne il segnale della rivoluzione proletaria soltanto se, fin da ora, il partito condurrà la lotta teorica più intransigente contro il militarismo borghese e le giustificazioni dei preparativi guerrieri in tutti i campi nello stesso tempo, contro la teoria della difesa nazionale per gli Stati borghesi pienamente tali – e a maggior ragione imperialistici -, contro lo sciovinismo e il pacifismo sociale, per il disfattismo rivoluzionario e l’unione internazionale dei proletari al disopra delle frontiere, per la dittatura rossa e il comunismo». Qui si parla chiaramente di decenni che ci separano dalla terza guerra mondiale e del fatto che il partito ha davanti a sé, oggettivamente, molto più tempo del previsto per prepararsi alla situazione storica in cui il proletariato sarà chiamato al disfattismo rivoluzionario e a trasformare la guerra imperialista in guerra civile, in rivoluzione.

 

Disorganizzare il proletariato per dominarlo meglio

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In mancanza di una risposta effettivamente classista, prima ancora che rivoluzionaria, del proletariato alla crisi mondiale del capitalismo, le classi borghesi dei paesi imperialisti poterono usare a piene mani molti dei metodi di governo e di controllo sociale a disposizione, senza temere di dover affrontare la classe nemica sul terreno dichiaratamente di scontro e di guerra fra le classi: dalla democrazia blindata nei paesi europei alla repressione tout court delle manifestazioni operaie più violente, dai colpi di Stato alla Pinochet alle aperture al mercato della Cina, dalla criminalizzazione delle lotte operaie col pretesto della lotta ai gruppi di lotta armata tipo Brigate Rosse alla «democratizzazione» dei sindacati che accoglievano nelle proprie strutture gli «estremisti» che avevano guidato le lotte e organizzato i comitati di fabbrica e di base. La disorganizzazione sistematica del proletariato sul piano della lotta classista operata con grande continuità dalle forze sindacali e politiche della collaborazione e della conservazione sociale, metteva gli stessi gruppi operai spinti spontaneamente a travalicare i confini delle compatibilità, delle regole democratiche imposte da apparati che imprigionavano i proletari alla produzione di profitto capitalistico,  di negoziati interminabili e infruttuosi, in una situazione di grande smarrimento e disorientamento. L’aumento della concorrenza fra proletari, tra proletari del Nord e proletari del Sud, tra proletari e proletarie, tra giovani e anziani, tra immigrati e autoctoni, contribuiva a frammentare ancor più la massa proletaria che, invece di riconoscersi tutta nelle stesse condizioni sociali e negli stessi interessi immediati comuni, sarà continuamente spinta a individualizzare il rapporto col padrone così come è spinta, sul piano politico, a ripiegarsi nell’individuale «scelta» di voto.

Altri decenni di «pace sociale», nei paesi imperialisti d’Europa e d’America, sono trascorsi da quella grande crisi mondiale. Altri decenni di collaborazione fra le classi hanno pesato sulle masse proletarie, annichilendo tutti i tentativi di ribellione alla soffocante oppressione economica e sociale che esse espressero in diverse occasioni. Ma la spinta oggettiva delle contraddizioni sociali del capitalismo è tale che le masse proletarie, pur incanalate come buoi nella via della conciliazione di classe, non possono trattenere per sempre l’accumulo di forza materiale che lo stesso sviluppo del capitalismo provoca, come, per riprendere un esempio fatto da Trotsky, in una caldaia a vapore: oltre un certo limite, quel vapore surriscaldato preme contro le pareti della caldaia, incrinandole fino a farle esplodere. Le valvole di sicurezza esistono per questo, per non far esplodere la caldaia, e la classe borghese dominante conosce ormai fin troppo bene, per esperienza storica diretta, che il raggiungimento di quel limite è molto pericoloso per se stessa e la conservazione del suo potere e dei suoi privilegi sociali. Gli ammortizzatori sociali rappresentano quelle valvole di sicurezza; possono non valere per l’intera massa proletaria, certo, ed è sicuro che non ne ha mai beneficiato l’intera massa proletaria, e oggi ne beneficia una parte sempre minore, ma funzionano nell'attenuare  e contenere le spinte centrifughe. Le forze opportuniste rappresentano i canalizzatori della forza accumulata nelle contraddizioni economiche e sociali dal proletariato, e funzionano, appunto, per canalizzare – e deviare dal terreno dello scontro di classe, dell’esplosione degli antagonismi di classe – le spinte eccessive, per smorzarle, soffocarle, eliminarle dal contesto sociale difendendo così la stabilità sociale, difendendo la conservazione sociale, il modo di produzione capitalistico e il dominio della classe borghese sulla società. La funzione sociale che svolgono determina l’importanza delle forze opportuniste: la loro influenza sul proletariato e la loro organizzazione costituiscono la ragione di fondo della loro esistenza; la storia della lotta di classe e delle rivoluzioni ha dimostrato la loro indispensabilità per la difesa del potere borghese e capitalistico, poiché il proletariato rappresenta una forza sociale che non è comprimibile automaticamente, ma va compressa costantemente. La tendenza storica delle forze produttive, quindi del proletariato che rappresenta il lavoro salariato, a svilupparsi in modo progressivo nella società capitalistica urta inesorabilmente contro le forme produttive imposte dallo stesso capitalismo: è il vapore accumulato (forza sociale produttiva) che urta contro le pareti della caldaia (forma sociale produttiva). La proprietà privata e l’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta (le forme sociali entro cui è costretto lo sviluppo delle forze produttive) costituiscono il vero impedimento al libero sviluppo delle forze produttive sociali. L’urto tra il lavoro salariato e le forme in cui il capitalismo costringe il lavoro umano nella condizione del salariato, è inevitabile. La classe dominante borghese lo sa, le forze opportuniste della conservazione sociale lo sanno, e si organizzano dividendosi i compiti affinché il proletariato continui a non saperlo, continui a non rendersi conto della forza sociale e storica che in realtà possiede. La lotta per sopravvivere fa parte della natura dell’uomo, come di ogni essere vivente. Per il proletariato significa lottare contro un potere che lo schiavizza sempre più, per la classe dominante borghese significa lottare contro il proletariato per continuare a schiavizzarlo perché solo in questo modo essa può estorcergli il plusvalore, e quindi accumulare profitto capitalistico, e può mantenere i suoi privilegi sociali. Non esiste riforma borghese che possa attenuare o addirittura far scomparire questo antagonismo di classe, non esiste pace sociale che possa alimentare la comunanza di interessi tra due classi che la storia dello sviluppo sociale umano ha prodotto fin dall’inizio come classi antagoniste, dagli interessi non solo immediati ma soprattutto storici del tutto contrapposti. D’altra parte, non esiste pace, in generale, nello sviluppo del capitalismo poiché la concorrenza fra capitalisti, fra gruppi, Stati e blocchi di Stati capitalisti, proprio in virtù delle caratteristiche fondamentali del modo di produzione capitalistico (merce, denaro, mercato, tendenza alla concentrazione e al monopolio), porta inevitabilmente a contrasti, a guerre commerciali, a conquiste di mercati e territori economici con ogni mezzo economico e politico e a guerre guerreggiate.

 

La spartizione del mondo è l'obiettivo principale degli Stati imperialisti, ma la rimettono sempre in discussione

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Lo sviluppo del capitalismo nella sua fase imperialistica ha portato il mondo ad essere diviso in sfere di interessi e di influenza, in una prima lunga fase attraverso il colonialismo classico, poi attraverso il dominio del capitale finanziario, dei trust, dei monopoli, delle alleanze fra Stati. Lenin afferma, nel suo scritto sull' Imperialismo, che «in regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie ecc., che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, trust, rami di industria, paesi ecc.». E, dopo aver fatto l’esempio della Germania e dell’Inghilterra di mezzo secolo prima, e del Giappone e della Russia, continua: «Si può “immaginare” che nel corso di 10-20 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano immutati? Assolutamente no» (10).

La storia degli ultimi 60 anni è sotto i nostri occhi e la serie interminabile di guerre locali e di movimenti di «liberazione nazionale» delle colonie dimostra che i rapporti di forza fra le potenze imperialiste hanno continuato a modificarsi. Non solo gli Stati Uniti hanno preso il posto della Gran Bretagna come prima potenza imperialista mondiale, ma i paesi sconfitti e distrutti dalla guerra mondiale si sono rilanciati – come fossero usciti da un bagno di giovinezza – in uno sviluppo economico accelerato per raggiungere nel giro di una ventina d’anni il livello di potenze economiche mondiali di tutto rispetto: leggasi Giappone, ancora oggi la seconda economia mondiale, Germania, la prima economia europea e la terza mondiale e l’Italia diventata la settima dopo Regno Unito e Francia. Nel gruppo di testa si è inserita prepotentemente la Cina diventata ormai la quarta economia mondiale. A questo gruppo di potenze, segue un altro gruppo «inseguitore» che vede nell’ordine Spagna, Canada, Brasile, Russia, India, Corea del Sud, Australia, Messico, Paesi Bassi, Turchia, Svezia, Belgio, Indonesia per arrivare ai primi 20 paesi del mondo che, insieme, costituiscono il 42% del PIL mondiale. Resta il fatto che gli Stati Uniti, pur avendo perso terreno nel corso degli ultimi trent’anni rispetto ai paesi concorrenti, soprattutto rispetto a Giappone e Germania, restano l’economia più forte del mondo; il suo PIL nel 2007 era di 13.843.825 milioni di dollari Usa, cifra che supera la somma dei PIL di Giappone, Germania, Cina e Regno Unito (11). Rispetto al PIL mondiale, che è di 54.311.608 milioni di dollari Usa, il PIL degli Stati Uniti rappresenta oggi il 25,5%, assolutamente determinante per il mercato mondiale e particolarmente vitale per tutte le più grandi economie del mondo. Se aggiungiamo alla potenza economica di ogni paese, la sua potenza finanziaria, militare e di influenza sui diversi teatri degli scontri commerciali e strategici del mondo, risulta chiaro che gli Stati Uniti sono sempre il paese con cui  qualsiasi alleanza e qualsiasi altro singolo paese imperialista si deve confrontare. Essendo in pieno imperialismo, l’epoca è quella in cui le potenze imperialistiche non si presentano sullo scenario mondiale come entità staccate da tutto il resto del mondo, ma come partecipi, pur a gradi diversi, di alleanze, di blocchi di Stati.

Il condominio russo-americano sul mondo che è seguito alla seconda guerra imperialistica, e che è stato caratterizzato dalla spartizione del mondo in due grandi blocchi fra Stati – l’Alleanza Atlantica da un lato con a capo gli Usa, e il Patto di Varsavia dall’altro con a capo l’Urss – con la crisi del 1975 è entrato in crisi lasciando spazio ad un nuovo disordine mondiale.

La caduta dell’impero russo segue un andamento lento, ma inesorabile: la rottura con la Cina di Mao e poi con la Jugoslavia di Tito non è soltanto un fenomeno ideologico, ma è il segnale di una messa in discussione del ruolo egemonico svolto fino ad allora dalla Russia nella sua sfera più diretta d’interessi e d’influenza; altri segnali sono venuti dalla primavera di Praga del 1968, dagli scioperi polacchi di Danzica e Stettino del 1970, 1976 e ancora, nel 1980, dall’attrazione fatale dell’economia della Germania dell’Est verso la Germania dell’Ovest, e, dietro di essa, delle economie dei Paesi Baltici, della Polonia e dell’Ungheria. La cosiddetta «cortina di ferro» che Mosca aveva innalzato ai confini del suo impero territoriale non solo non impediva gli scambi commerciali con le economie occidentali – che, anzi, cercava essa stessa per prima – ma apriva, attraverso questi scambi, la propria economia e quelle dei paesi dell’Est, da essa dominati, a tutti i possibili contraccolpi delle crisi capitalistiche che si presentavano ormai con una certa ciclicità dopo il 1975. Arriveranno le crisi dell’81-82 e del 1987 che contribuiranno a far crollare il famoso «muro di Berlino» nel 1989 e all’implosione del gigante russo nel ’91.

Sul versante delle potenze occidentali, come abbiamo già ricordato, il preludio dell'anteguerra mondiale, iniziato con la crisi del 1975, lo si riscontra nell'aggressione imperialistica all'Africa. Paesi che avevano ottenuto formalmente l'indipendenza negli anni Sessanta, in realtà erano sottoposti a continui colpi di Stato militari, a guerre cosiddette tribali o etniche, in particolare nel Corno d'Africa, nelle excolonie francesi dell'Africa Nera, nel Congo Belga (diventato poi  Zaire e infine Repubblica Democratica del Congo) e nelle ex colonie inglesi Rhodesia (ora Zimbabwe), Namibia (ex protettorato tedesco annesso poi dal Sudafrica), Rhodesia del Nord (ora Zambia) ecc. In Estremo Oriente la lunghissima guerra del Vietnam, vinta dai vietcong nel Nord del paese contro l'imperialismo francese, ma continuata nel Vietnam del Sud protetto e difeso dall'imperialismo americano, terminerà con la disfatta militare dell'esercito più potente del mondo, disfatta che ancora oggi  lo segna e ne rappresenta l'incubo più spaventoso eguagliato, in parte, dall'attacco micidiale alle Torri Gemelle di New York nel 2001 che hanno decreteto la fine della inviolabilità del territorio americano da parte di forze avversarie. Il 1975 non è soltanto l'anno della crisi mondiale, è anche l'anno della disfatta dell'esercito americano in Vietnam, disfatta che però non fermerà la pressione militare degli Stati Uniti nei diversi continenti, come dimostrano i continui interventi in Medio Oriente, nel Nord Africa, in Indocina e, soprattutto, nel «giardino di casa», l'America Latina.

L’implosione dell’Urss e il conseguente crollo del suo dominio militare ed economico sull’Europa dell’Est e della sua influenza in Medio Oriente e in Africa hanno aperto scenari che, negli anni Settanta e Ottanta, potevano sembrare ancora bloccati sul condominio russo-americano nel mondo fino allo scoppio di una terza guerra mondiale che tutto il mondo supponeva probabile tra Usa e Urss. Ma i rapporti tra le potenze imperialistiche non rimangono mai immutati per tanto tempo. La riunificazione delle due Germanie ha segnato un ulteriore colpo agli equilibri imperialisti precedenti perché ha significato ridare alla Germania unita un diverso e più potente peso politico in Europa e nel mondo. L’esplosione della federazione Yugoslava ha riaperto alle potenze occidentali – e segnatamente agli Stati Uniti e alla Germania – il corridoio dei Balcani dal quale si controlla il ventre molle della Russia e, soprattutto, il Vicino e Medio Oriente troppo gonfio ancora di petrolio perché le potenze imperialistiche occidentali non se ne occupino direttamente.

«La spartizione del mercato mondiale e delle nazioni - scrivevamo nel 1991 - è in realtà già cominciata senza una guerra mondiale» (12). Con il crollo dell'impero russo e l'esplosione della Federazione jugoslava anche le alleanze ad essi collegate, o strette in loro contrapposizione, sono state rimesse in discussione e sconvolte. Non solo tutti i paesi dell'Europa dell'Est sono piombati nella sfera d'interessi e d'influenza occidentale, e segnatamente della Germania e degli Stati Uniti, ma la penetrazione di questa influenza è proseguita fin dentro gli antichi territori della Grande Russia come nel caso dell'Ucraina e della Georgia caucasica (motivi, questi, di ulteriori contrasti non solo tra Stati Uniti e Russia, ma anche con la Germania e la Francia, storicamente interessate a quell'area). E l'articolo citato continuava: «E' la forza economica dei grandi paesi imperialisti e del loro contrasto che hanno provocato questi primi passi della nuova spartizione imperialistica, e non la forza della guerra guerreggiata fra di loro. In questo senso, la terza guerra mondiale viene obiettivamente allontanata nel tempo; essa, d'altra parte, rappresenterà sempre più la spartizione dei paesi imperialisti, delle loro nazioni e dei loro territori, dei loro apparati produttivi e delle loro ricchezze fra i paesi imperialisti stessi più forti e in grado di colonizzare gli altri» (13), come è già successo con la seconda guerra mondiale.

Le guerre che sono seguite al crollo delle entità statali russa e jugoslava, sia in territorio balcanico che in territorio caucasico, dimostrano una volta di più che il normale processo di sviluppo del capitalismo nella fase imperialista avviene attraverso la guerra; ed è soltanto per la guerra, per i suoi obiettivi e per l'impegno di forze, di risorse economiche e finanziarie, che si formano, o si sciolgono, le alleanze «inter-imperialiste» o «ultra-imperialiste». Nella realtà capitalistica - ribadisce Lenin - «le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell'economia mondiale e della politica mondiale, l'alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta» (14). E' il terreno dei contrasti inter-imperialistici, il terreno dello scontro tra le sfere d'interessi e d'influenza dei grandi Stati imperialistici, quell'unico e identico terreno in cui si determinano reciprocamente e si producono dei nessi imperialistici e dei rapporti dell'economia e della politica mondiali; il terreno in cui la forma pacifica è in sostanza un «momento di respiro tra una guerra e l'altra».

I marxisti, a proposito della guerra borghese, fanno però una distinzione basilare.  Esistono le guerre borghesi progressive, di sviluppo antifeudale, di liberazione nazionale, e le guerre imperialiste, le guerre di oppressione nazionale, di rapina e di spartizione del mondo in zone di influenza e di interessi imperialistici. Vi è poi un terzo tipo di guerra: la guerra rivoluzionaria del proletariato vittorioso contro la borghesia, la guerra di difesa della dittatura proletaria e della rivoluzione proletaria internazionale. Su questo tema il partito ha prodotto molti lavori, e in particolare una serie di sei «fili del tempo» che Amadeo Bordiga scrisse nel 1950 (15).

Tale distinzione è d'importanza vitale soprattutto per il fatto che l'opportunismo utilizzò, rispetto alla prima e alla seconda guerra imperialista mondiale, sostanzialmente gli stessi argomenti per convincere e irreggimentare le masse proletarie negli eserciti borghesi (la difesa della nazione, della civiltà, della pace, della democrazia ecc.); e perché l'opportunismo li riutilizzerà anche di fronte ad una terza guerra mondiale. E se vi sono stati argomenti diversi a sostegno della prima guerra mondiale rispetto alla seconda, sono stati argomenti peggiorativi e ancora più intossicanti per il proletariato perché alla propaganda della difesa della patria aggredita dallo straniero si è aggiunta la propaganda della difesa della democrazia contro il fascismo e della difesa di un falsissimo socialismo che si pretendeva edificato nell'Urss.

Finita la carneficina, la macchina produttiva capitalistica viene rimessa in moto per la ricostruzione nazionale: più vaste sono state le devastazioni di guerra, più lucrosi sono gli affari della ricostruzione. Ciò vale per ogni guerra borghese, moltiplicato all'ennesima potenza di fronte alla guerra mondiale. Resta il fatto che il proletariato, se non è influenzato e guidato dal suo partito di classe, è inevitabilmente influenzato e guidato dalle forze opportuniste, dalle forze della collaborazione di classe che hanno il compito storico di incanalarne la forza sociale a difesa dell'ordine borghese costituito, non importa se in un momento l'alleanza proposta è con la monarchia o il momento dopo con la democrazia parlamentare, purché sia contro il «nemico straniero», contro il cosiddetto «aggressore».

Sappiamo con Marx e con Engels che la guerra tra Francia e Prussia nel 1871 fu sospesa per dare spazio ad un'alleanza di classe contro il proletariato parigino della Comune, giustamente considerato come nemico di entrambe; e questo fatto decretò la fine del sostegno della classe proletaria, nell'Europa occidentale, alle classi borghesi nelle loro guerre perché non erano più storicamente progressive.

Sappiamo con Lenin, dal 1917 con la rivoluzione proletaria dell'Ottobre, che, anche per l'Europa orientale e per la grande Russia euroasiatica, la fase storica di appoggio del proletariato alle guerre progressive della borghesia in quella vasta area era finita. Non solo, ma la guerra del 1914-18, a differenza della guerra franco-prussiana o della guerra dei trent'anni ricordata da Engels, era effettivamente mondiale perché imperialista. L'orizzonte proletario non poteva che essere, non soltanto idealmente e nelle aspirazioni rivoluzionarie, ma nella lotta pratica, mondiale; e sull'onda della vittoriosa rivoluzione proletaria in Russia, non a caso, nacque l'Internazionale Comunista, guida politica del proletariato mondiale.

Questi svolti storici non cancellavano la dinamica storica dello sviluppo ineguale del capitalismo. Se da un lato confermavano in pieno la prospettiva generale della rivoluzione proletaria e comunista a livello mondiale, dall'altro riproponevano al partito comunista mondiale del proletariato la prospettiva di guidare, influenzandoli in modo determinante, tutti i movimenti sociali che lottavano contro i vecchi regimi, contro le vecchie e le nuove oppressioni nazionali, convogliandoli in un unico movimento rivoluzionario anticapitalistico e, insieme, antifeudale.

Sono passati 90 anni dalla fondazione dell'Internazionale Comunista e dalla dichiarazione della guerra di classe e rivoluzionaria a tutti gli ordini costituiti esistenti; nella maggioranza dei paesi del mondo il capitalismo ha distrutto i modi di produzione precedenti e gli equilibri di sopravvivenza precedenti, sostituendoli solo in parte, e spesso in minima parte, con  uno sviluppo economico moderno effettivo.

Anzi, con le guerre locali (che non vanno confuse con le «guerre nazionali progressive» di cui spesso Lenin ha parlato differenziandole dalla guerra imperialista tra le grandi potenze), che le potenze imperialiste hanno continuato a provocare, a sostenere e ad alimentare in tutti i continenti, si è continuato a registrare proprio quanto affermava Engels e ripeteva Lenin:   un generale imbarbarimento economico e sociale in quei paesi; e il miliardo e mezzo di esseri umani che muoiono di fame nel mondo è la cruda dimostrazione di quanto anche le guerre loceli in epoca imperialista gettino una cospicua parte dell'umanità nelle forme di produzione e di sopravvivenza più barbare.

Se già queste guerre locali, ma intrise di interessi e di influenze imperialistiche, provocano una situazione del genere, si capisce come la guerra mondiale, anche se per il pugno di paesi capitalisticamente avanzati e dominatori del mercato mondiale significa un osceno bagno di giovinezza, per la gran parte dei paesi del mondo, sottoposti inevitabilmente ad una sempre più feroce colonizzazione, significhi precipitare in uno stato di miseria e di schiavitù permanente fornendo a quel pugno di paesi dominatori del mondo forza lavoro a basso prezzo e carne da cannone.

 

Solo la rivoluzione proletaria potrà fermare la terza guerra mondiale

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E’ tesi marxista da sempre che nel capitalismo la guerra è inevitabile, nel senso che lo sviluppo stesso del capitalismo porta inesorabilmente ad acutizzare a tal punto i contrasti fra i grandi trust e i grandi Stati da spingere, ad un certo punto di tensione di questi contrasti, gli Stati borghesi a proseguire la loro politica di espansione e di predominio internazionale coi mezzi militari quando i mezzi della diplomazia, degli accordi economici e delle alleanze pacifiche non sono più in grado di compensare le differenze di peso nei rapporti di forza interimperialistici.

L’inevitabile sbocco dello sviluppo economico e politico del capitalismo nella guerra guerreggiata e, nella fase imperialistica, nella guerra mondiale, è dimostrato storicamente dalle numerosissime guerre locali, mai terminate, e dalle due guerre mondiali già avvenute.

E’ tesi marxista che l’unica forza che può opporsi alla classe dominante borghese e alla sua politica di guerra è costituita dalla classe del proletariato e dalla sua rivoluzione di classe. Anche questa tesi è dimostrata storicamente, prima con la Comune di Parigi che nel 1871 fermò la guerra europea franco-prussiana, poi con la Rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917, che fermò la guerra tra Russia e Germania e accelerò la fine della guerra mondiale attraverso il movimento proletario internazionale in lotta in ogni paese contro la propria borghesia e la sua partecipazione bellica.

E’, d’altra parte, dimostrato storicamente quanto già affermato da Engels - come riportato da Lenin nel suo intervento all’VIII congresso del PCR(B) del marzo 1919 - che la «futura guerra» (che scoppiò nel 1914) «avrebbe portato devastazioni ancora peggiori della guerra dei trent’anni, un generale imbarbarimento dell’umanità, la bancarotta del nostro artificioso apparato commerciale e industriale» (16). Riprendendo lo stesso concetto, nella Struttura economica e sociale della Russia d’oggi si sottolineava che la guerra mondiale «avrebbe fatto talmente rinculare l’umanità da compromettere le stesse conquiste del capitalismo moderno», ossia lo sviluppo estremo delle basi economiche necessarie per il salto rivoluzionario nel socialismo attraverso la rivoluzione proletaria  (17). Qui è perfetta l'impostazione dialettica del problema tra Lenin e la Sinistra Comunista italiana. Nel suo scritto del 1916, A proposito dell'opuscolo di Junius (18), opuscolo della Luxemburg sul problema della guerra, Lenin sottolinea il concetto dialettico per cui «la guerra imperialista degli anni 1914-1916» può trasformarsi «in guerra nazionale», ossia in un tipo di guerra «progressivo»; Lenin afferma immediatamente che questa trasformazione «è sommamente improbabile» ma non «impossibile», poiché se determinate circostanze si dovessero presentare (se il proletariato europeo dovesse dimostrarsi impotente ancora per venti anni, se l'attuale guerra dovesse finire con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma, se l'imperialismo extra-europeo - americano e giapponese principalmente - durasse per venti anni senza che si arrivasse al socialismo, allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale), allora «ciò implicherebbe per l'Europa una involuzione di parecchi decenni»; si comprenda bene: involuzione rispetto alle possibilità rivoluzionarie del proletariato e del suo partito di classe!

  L’imbarbarimento, ossia il rinculare della società dalle stesse conquiste più avanzate del capitalismo moderno, non significa girare all'indietro la ruota della storia; significa in realtà spostare l’età del capitalismo dalla sua macilenta e decrepita vecchiaia ad un’età molto più giovane, significa un innesto di nuova gioventù. Sempre nella Struttura il partito sosteneva il seguente concetto: «Il processo che, alla fine di una fase di spinto imperialismo, sostituisce (per forza di determinanti storiche, non certo per abilità di partiti e capi) alla crisi rivoluzionaria una guerra generale, si esprime in questo risultato: che alla fine della guerra le forme spinte dell’imperialismo vengono mitigate, e riappaiono forme più antiche. Se la nostra visione della storia è giusta, nello stabilire un certo decorso di vita ad ogni classica forma di produzione, il ritorno del capitalismo a fasi di età minore vale un acquisto di più lunga vita probabile, un netto successo antirivoluzionario» (19).

Da questo punto di vista, anche l’entrata nel mercato mondiale di nuovi grandi paesi caratterizzato da uno sviluppo capitalistico accelerato, frenetico e selvaggio - come è stato il caso della Russia e di altri paesi suoi satelliti dagli anni Trenta agli anni Sessanta, e come è il caso più recente della Cina e dell’India (che insieme fanno più di 2 miliardi e 300 milioni di abitanti, quasi il 40% della popolazione mondiale) - funziona come ringiovanimento generale del capitalismo mondiale. Dunque, non solo le devastazioni della guerra mondiale costituiscono un’opportunità di rilancio dell’economia capitalistica per la ricostruzione generale degli apparati produttivi e delle infrastrutture distrutti, e della produzione in generale; non solo costituiscono la causa di un arretramento dell’umanità dalle conquiste sociali del capitalismo moderno, ma esse costituiscono anche l’occasione storica per il capitalismo di riavviare, in molti paesi anche imperialisti, la propria macchina produttiva come fosse agli albori del suo sviluppo economico. E’ questa la condizione storica che offre al capitalismo mondiale una durata di vita più lunga; è grazie a questa dinamica sociale che il capitalismo è riuscito a perpetuare il suo dominio per numerosi decenni oltre il periodo storico in cui ha ampiamente dimostrato di non essere più in grado di far progredire le forze produttive, e quindi l’umanità, ma di doverle ciclicamente distruggere per poter ricominciare il processo di valorizzazione del capitale. Più il capitale si valorizza, più degenera e imputridisce l’organizzazione sociale ad esso corrispondente.

Ad ogni guerra finita segue una fase di distensione, di tentativi di pacificazione generalizzata da parte delle potenze vincitrici che, pur tendendo ad incassare i maggiori vantaggi dalla vittoria nella guerra a discapito delle potenze vinte, sono disposte a concedere loro spazio e una certa vitalità economica. Resta comunque il fatto che, dopo la guerra, i livelli di altissima concentrazione capitalistica e di monopolio raggiunti nel periodo di preparazione e di svolgimento della guerra si abbassano, lasciando spazio alle famose forme imperialistiche «più antiche». Riprendendo il concetto sopra riportato dalla Struttura, il nostro partito metteva in chiara evidenza questo processo di rinnovata liberalizzazione dell’economia capitalistica: «La fine della guerra - ci si riferisce alla seconda guerra mondiale - determinò un’altra volta la distensione imperialista, diagnosticata da Lenin, e il ricomparire del vecchio capitalismo sotto la sua sovrastruttura. Le prove non stanno solo nel pullulare di forme economiche spurie e inferiori negli anni di guerra ed immediato dopoguerra, ma in fatti economici di ben più alta sfera, come il nuovo indirizzo “antitrust” in America che ancora oggi [1956-57, NdR] assume la forma di legali incriminazioni, con la trama a fondo libero-concorrenziale che sottostà alla ripresa impressionate in Germania, e non solo in Germania, come altri fenomeni che ora è il caso di accennare soltanto. Non fa eccezione l’Inghilterra malgrado la fase delle sue “nazionalizzazioni” industriali, perché essa si va ormai adeguando alla consegna di liberalizzazione internazionale dei mercati e dei fondi monetari, per quanto ciò non possa condurre che alle medesime crisi generali» (20). Ma l’andamento economico del capitalismo contiene sempre delle eccezioni, e dopo la seconda guerra mondiale, tra i vari paesi imperialisti, era proprio l’Italia a rappresentare una «strana eccezione»; l’Italia che «ha conservato tutto il suo meccanismo di statalismo dirigente ed interveniente in economia, e mostra anzi di accentuare le tendenze pianificatrici. Non vi è affare in Italia in cui non ruotino i contributi dello Stato, e questo non concorre che a rendere più parassitaria la forma del capitalismo privato, che, sotto la pesante e soffocante sovrastruttura, resta, come Lenin insegna, bene la stessa» (21).

Nella nostra visione non c’è posto per l’evoluzione graduale dei processi storici nel loro sviluppo avanzante come non c’è posto per l’involuzione graduale dei processi storici nell’arretramento progressivo. Nelle società divise in classi antagoniste le avanzate e gli arretramenti subiscono accelerazioni o arresti a causa di fattori economici e sociali dirompenti: le crisi economiche e le guerre, che sono anche la dimostrazione concreta che nel capitalismo non vi è alcuna possibilità di sviluppo sinusoidale, ad alti e bassi in un andamento continuo, ma di sviluppo a curve che raggiungono delle cuspidi nelle quali si producono delle rotture che fanno precipitare l’economia, e con essa l’intera società, nelle ricordate forme di capitalismo più antiche. Nel capitalismo non vi è alcuna possibilità di soluzione definitiva delle sue contraddizioni, ma solo soluzioni parziali e temporanee grazie alle quali, in realtà, se da un lato si allontana nel tempo il momento dello scontro decisivo in cui gli antagonismi di classe proiettano nella scena storica l’immenso potenziale di violenza proletaria di classe accumulato nei periodi di sviluppo capitalistico, dall’altro il capitalismo non fa che accumulare crescenti e più acuti fattori di crisi destinate ad esplodere successivamente, mitigate a loro volta solo parzialmente e temporaneamente dalle guerre locali. Tutto ciò fino a quando la guerra generale, mondiale, non si presenta come lo sbocco necessario e inevitabile di tutti i contrasti interimperialistici accumulati del tempo.   

La classe borghese dominante acquisisce, però, in quanto forza economica e politica dominante, un’esperienza di governo e di dominio sociale tale da aumentare le sue possibilità di controllo almeno di una parte delle spinte centrifughe e antagoniste delle classi dominate, e del proletariato in primo luogo. E qui torniamo alle nostre classiche posizioni sulla funzione sociale dell’opportunismo e sulle basi materiali della sua persistente influenza sulle classi dominate, e sul proletariato in specie.

La classe del proletariato, in verità, ha due grandi nemici di fronte a sé: uno dichiarato, forte, dominante, che ha in mano la vita stessa delle masse proletarie, ed è la classe dei padroni, la classe dei capitalisti che non nascondono di essere i veri e i soli padroni della disponibilità sociale dell’intera produzione, e quindi della vita di ogni proletario. L’altro è nascosto, mascherato, insidiosamente ambiguo e svolge il ruolo di mediatore tra lo strapotere padronale e le esigenze di vita della classe dei lavoratori salariati: il ceto degli opportunisti, gli operai imborghesiti. Il proletariato, in quanto classe per il capitale, in quanto classe salariata che vive solo del salario che prende in cambio della forza lavoro che i capitalisti comprano per muovere i loro apparati produttivi, in quanto classe associata nella produzione capitalistica organizzata per aziende, ha bisogno di affidare a suoi rappresentanti il compito di trattare le proprie richieste con il padrone, e con le associazioni dei padroni, ha bisogno di mediatori perché le sue condizioni di vita e di lavoro migliorino, o perlomeno non peggiorino, rispetto a quelle in cui è costretto da quando nasce. I capitalisti, come hanno capito che il metodo democratico di governo è molto più efficace per tenere soggiogata la classe dei lavoratori alle proprie esigenze, così hanno capito che è molto più producente accettare la mediazione dei rappresentanti dei lavoratori, e trattare con loro, se non vogliono che i loro rapporti con le masse proletarie siano costantemente caratterizzati dallo scontro violento al quale proprio le condizioni insopportabili di vita e di lavoro li spingono continuamente. I cicli di produzione hanno bisogno di ottimizzare il tempo di lavoro e la forza lavoro di ciascun operaio per ottenere la più alta produttività possibile, e per questo hanno bisogno di non essere interrotti da proteste, scioperi, manifestazioni, scontri. I mediatori operai, diventando professionisti delle trattative coi padroni, le loro associazioni e lo Stato, si espongono sempre più alle lusinghe e all’influenza che il potere e l’autorità dei padroni esercitano su di loro, fino a cedere di fronte alle offerte di privilegi e garanzie che normalmente non vengono concessi alla massa proletaria. La corruzione opportunista ha basi materiali molto concrete; diventa ideologica soltanto dopo, allo scopo di giustificare le differenze, la separazione della classe proletaria in strati privilegiati e strati non privilegiati. Lo stesso meccanismo di corruzione vale anche per i partiti politici che si formano nel tempo per difendere la causa generale e storica del proletariato. La classe dominante borghese, dopo aver smesso di vietare le associazioni sindacali operaie e i partiti operai, e dopo averli accettati nell’ambito dei suoi apparati democratici e parlamentari, visto che le contraddizioni fondamentali della sua società capitalistica continuavano e continuano a spingere avanguardie operaie sul terreno della lotta di classe aperta e dichiarata, ha usato qualsiasi mezzo per piegare associazioni economiche e partiti politici alle sue esigenze di sfruttamento della classe proletaria: mezzi di propaganda, scuola, chiesa, associazioni culturali o sportive, mezzi d’informazione più vari. E contro tutte quelle associazioni operaie e quei partiti che non si piegavano alle sue esigenze di conservazione sociale, la classe borghese dominante passò alla repressione più ferma e violenta: sotto il fascismo in modo apertamente antiproletario e antirivoluzionario esercitando la sua violenza cinetica di classe, in democrazia in modo più ingannevole ma egualmente controrivoluzionario esercitando, insieme all’inganno dell’eguaglianza dei diritti, la violenza potenziale dell’intimidazione sociale e della pressione economica. Dato che la guerra è la situazione più normale per il capitalismo in epoca imperialista, è di fronte alla guerra che si confrontano necessariamente tutte le posizioni politiche: o si è in opposizione netta, quindi si lotta contro qualsiasi guerra imperialista e contro tutti i fronti di guerra imperialista, oppure si partecipa alla guerra imperialista alleandosi o integrandosi in uno dei due fronti di guerra. Dal punto di vista della classe proletaria e delle sue finalità storiche che si condensano nella rivoluzione, nell’abbattimento del potere borghese e nell’instaurazione della dittatura proletaria per avviare la trasformazione completa della società capitalistica in società senza classi, opporsi alla guerra non vuol dire assumere posizioni pacifiste, non-violente o neutrali. Nella società capitalistica, e tanto più nella fase imperialista, assumere posizioni di neutralità, non-violente, pacifiste, significa semplicemente fiancheggiare il militarismo imperialista. In realtà, la pace sociale, ossia la mancanza di lotta di classe, facilita proprio l’irreggimentazione del proletariato nello sforzo bellico della propria borghesia. Il militarismo imperialista ha bisogno del pacifismo proletario perché in tale atteggiamento si esprime l’impotenza della classe proletaria a perseguire i suoi interessi di classe, le sue finalità storiche. Piegandosi alle esigenze economiche e politiche dello sforzo bellico della propria borghesia imperialista, tutte le forze della conservazione sociale e della collaborazione fra le classi tendono a rendere il proletariato una classe impotente, una classe incapace di organizzarsi e lottare in piena indipendenza dalle classi borghesi. Per gli opportunisti, al di là di tutte le chiacchiere sui valori della libertà, della democrazia, della patria, della pace e dei diritti, il proletariato deve restare una classe per il capitale, destinata ad essere massacrata di fatica in tempo di pace e come carne da cannone in tempo di guerra! E' da questo punto di vista che gli opportunisti, a qualsiasi chiesa appartengano, sostengono le ragioni della borghesia imperialista di casa in guerra come in pace. Ci rifacciamo nuovamente a Lenin, e al suo  Rinnegato Kautsky, per ribadire che: «La guerra imperialista non cessa di essere imperialista quando i ciarlatani o i parolai o i filistei piccolo-borghesi lanciano una melliflua "parola d'ordine" [come ad esempio la difesa della patria dallo straniero, la lotta antifascista per la democrazia ecc., NdR], ma solo quando la classe che conduce questa guerra imperialistica ed è legata con essa da milioni di fili (se non di cavi) economici, viene di fatto rovesciata e sostituita al potere dalla classe realmente rivoluzionaria, dal proletariato. Non c'è altro modo di uscire da una guerra imperialistica, o, anche, da una pace imperialistica di rapina» (22). La grandezza di Lenin sta in questa ultima frase in cui non limita la prospettiva rivoluzionaria alla guerra imperialista, ma la prolunga alla pace imperialista che, come la guerra, non può che essere di rapina!

Vi è una coerenza di fondo nell'atteggiamento dell'opportunismo di fronte alla pace imperialista e alla guerra imperialista: in entrambi i casi le forze opportuniste esprimono una posizione socialsciovinista, di difesa dell'economia nazionale, del territorio nazionale, dell'esercito nazionale, della civiltà nazionale; e, come ben sanno i marxisti, tutto ciò che è nazionale è borghese, e tutto ciò che è nazionale in epoca imperialistica è imperialismo nazionale. A tale «coerenza», il proletariato rivoluzionario, e naturalmente i comunisti, oppongono la propria intransigenza di classe che si traduce in un costante, sistematico, indefettibile disfattismo antiborghese, in tempo di pace e tanto più in tempo di guerra.

L'esperienza rivoluzionaria in Russia, basata sulla vittoria dell'Ottobre 1917, dimostra che il proletariato ha vinto borghesia e aristocrazia insieme sull'unico terreno del disfattismo rivoluzionario: terminare la partecipazione della Russia alla guerra non voleva dire semplicemente ritirarsi dai fronti di guerra, e tanto meno attendere di sottoscrivere una pace imperialista con le potenze belligeranti; voleva dire lottare contro entrambi i fronti della guerra imperialista, disorganizzare l'esercito zarista per organizzare l'esercito rosso, accettare condizioni di «pace» anche particolarmente pesanti, ma per rafforzare il potere proletario e preparare la difesa della rivoluzione e del potere dagli attacchi delle potenze imperialiste alleate alle guardie bianche e alle forze reazionarie russe al fine di abbattere il potere rivoluzionario conquistato. «Le guerre 1918-1920 in Russia furono rivoluzionarie perché condotte contro i due campi dell'imperialismo borghese, alleati e tedeschi, anche mentre essi guerreggiavano tra di loro», si può leggere nel «filo del tempo» Guerra imperialista e guerra rivoluzionaria (23).

La parola d'ordine generale della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, in rivoluzione proletaria, da allora è la sola parola dell'internazionalismo proletario e comunista. Ogni titubanza nell'assumerla e farla propria, ogni suo rinvio a tempi più lontani col pretesto che la situazione creatasi nel tal paese o nel mondo richieda un ritorno alla «difesa della patria» prima di rilanciare la... rivoluzione, equivale ad assumere posizioni controrivoluzionarie. La guerra imperialista va convertita in guerra di classe, ovunque nel mondo. A più di novant'anni dalla rivoluzione d'Ottobre, e con il peso di una seconda guerra mondiale che ha fatto indietreggiare il proletariato non più di ventenni, ma di cinquantenni, le forze dell'imperialismo non potranno essere vinte se non dal sollevamento del proletariato sul suo terreno di classe e rivoluzionario, nell'unica prospettiva della guerra di classe mondiale contro tutti i fronti imperialisti. Il proletariato può iniziare a incamminarsi in questa prospettiva a partire dall'opposizione di classe sul terreno della lotta immediata: disfattismo proletario in tempo di pace per rendere più efficace e vincente il disfattismo rivoluzionario in tempo di guerra!

 

 


 

(7)   Cfr. Sotto la sferza della crisi si approfondiscono i contrasti interimperialistici in «il programma comunista» nn. 23/1977 e 1, 2 del 1978.

(8)   Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916, Opere, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966; a p. 283 si può leggere: «L’imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari», affermazione confermata da quanto sostenuto già da Engels nel 1858 nel suo carteggio con Marx, ripresa più tardi nel 1881 e nella lettera a Kautsky del 12 settembre 1882.

(9)   Cfr. Sotto la sferza della crisi si approfondiscono i contrasti interimperialistici,cit.,  in «il programma comunista» n. 1 del 1978.

(10) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., pp. 294 e 295.

(11) Fonte: Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, 2007.

(12) Cfr. Con lo sfascio dell'URSS è incominciata una nuova spartizione del mercato mondiale, in «il comunista» n. 30-31, dic.1991-marzo 1992.

(13) Ibidem.

(14) Cfr. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., p. 295.

(15) Gli articoli della serie «Sul filo del tempo» dedicati al tema della guerra sono: Socialismo e nazione; Guerra e rivoluzione; Guerra imperialista e guerra rivoluzionaria; La guerra rivoluzionaria proletaria; Romanzo della guerra santa; Stato proletario e guerra, pubblicati su «battaglia comunista» dal  n. 9 al n. 14 del 1950. Sono poi stati raccolti nel n. 3, giugno 1978, dei Quaderni del Programma Comunista, intitolato Proletariato e guerra.

(16) Cfr. Lenin, Rapporto sul programma del partito, tenuto il 19 marzo all'VIII Congresso del PCR(B) del 18-23 marzo 1919, in Opere, vol. 29, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 147.

(17) Cfr. Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, edizioni «il programma comunista», Milano 1976, p. 373.

(18) Cfr. Lenin, A proposito dell'opuscolo di Junius (La crisi della socialdemocrazia), in Opere, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 308-309.

(19) Struttura ..., cit., pp. 385-386.  

(20) Ibidem, pp. 386-387.

(21) Ibidem, p. 387.

(22) Cfr. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Opere, vol. 28, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 287-288.

(23) Vedi Il proletariato e la guerra

 

 

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