Afghanistan

Italia imperialista e bifronte

(«il comunista»; N° 116; Aprile 2010)

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Il fronte di guerra

 

Nel 2001 Usa e Gran Bretagna iniziano la loro guerra in Afghanistan contro i talebani e il gruppo di Al Qaeda, affiancati poi da numerose potenze imperialiste tra cui l’Italia. Il pretesto lo si conosce bene: dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York dell’ 11 settembre 2001 gli Stati Uniti, che avevano già da tempo predisposto l’intervento militare in Afghanistan, aprono un ennesimo fronte imperialistico di guerra, e il pretesto è la “lotta al terrorismo” individuato nel gruppo di Al Qaeda di Osama Bin Laden, nascosto tra le montagne dell’Afghanistan ai confini col Pakistan, e nel governo dei talebani che lo protegge. L’intervento militare anglo-americano ha disarcionato i talebani dal potere centrale, ha “liberato” la capitale Kabul e ha cominciato a costituire un governo dipendente, e quindi a loro favorevole, dagli imperialismi di Londra e di Washington.

L’imperialismo italiano, dalla fine della seconda guerra mondiale a fianco di ogni operazione statunitense sullo scacchiere internazionale, non se l’è fatto dire due volte: ha prontamente aderito alla richiesta anglo-americana di inviare i propri militari in Afghanistan anche se, apparentemente, non ha laggiù  interessi diretti e immediati messi “in pericolo” dai talebani. E’ certo che la sua partecipazione alla guerra in Afghanistan fa parte della condivisione imperialistica del dominio del mondo da parte del gruppo di imperialismi attualmente più forte, e che da tale coinvolgimento l’imperialismo italiano si attende benefici e favori su molti altri piani.

La guerra in Afghanistan ha fatto e sta facendo molti più morti e feriti fra la popolazione civile, in particolare tra i bambini e le donne, che non tra i nemici armati, i guerriglieri talebani e i “terroristi” di Al Qaeda: è un dato documentato dagli stessi media borghesi. Ma quei morti sono considerati “vittime inevitabili” la cui causa principale viene addossata ai “terroristi” di Al Qaeda e ai talebani che si ostinano a proteggere i membri di Al Qaeda e lo stesso nemico n.1, Bin Laden.

Da più di 8 anni, la spedizione militare delle forze armate organizzate nell’ISAF(1) (costituite soprattutto da volontari) e di quelle organizzate al di fuori di questa formazione  militare di copertura dell’ONU come la NATO e soprattutto i mercenari (i famosi contractors utilizzati per la guerra sporca), la “guerra al terrorismo” portata nel paese identificato come culla del terrorismo internazionale non ha portato risultati concreti: Bin Laden non è stato preso e non è stato ucciso, i talebani non sono stati sconfitti,la tanto amata “democrazia” non ha “vinto” il caos generato dalla stessa guerra anglo-americana, la droga – che è la prima e praticamente unica “ricchezza” dell’Afghanistan interamente controllata dai signori della guerra e dai talebani – non è stata sostituita da altre attività economiche meno nocive. Dunque, la guerra in Afghanistan, per gli imperialismi che l’hanno scatenata e che la stanno rafforzando proprio in questi mesi, ha altre finalità che sono con ogni probabilità soprattutto di controllo di un territorio strategicamente importante perché si trova in un crocevia di grandissima delicatezza nel quadro dei rapporti, e dei contrasti, interimperialistici: confina infatti con il Pakistan, il Turkmenistan, l'Uzbekistan e il Tagikistan (ex repubbliche sovietiche), l’Iran e la Cina, ed insiste nell’area dell’Asia centrale che fa da cuscinetto rispetto alle nuove potenze capitalistiche asiatiche, Cina e India, che non vedono di buon occhio un Afghanistan totalmente americanizzato o, tanto meno, russizzato. L’Afghanistan conquistato e sottomesso militarmente per lungo tempo? Impresa storicamente quasi impossibile, data la conformazione morfologica particolarmente ostica del paese, la vicinanza di potenze capitaliste con forti ambizioni imperialiste come la Russia, la Cina, l’India e la presenza di tribù, clan e popolazioni montanare in perenne conflitto, sì, tra di loro, ma capaci di unire le forze contro chiunque dall’esterno delle loro montagne li provochi (Engels, 1857): prima la Persia e l’Inghilterra, poi la Russia, si sono già rotte le ossa, e ora tocca agli Stati Uniti e a tutto il codazzo degli altri paesi al loro seguito. Ciò non toglie che, per la “credibilità” della più forte potenza imperialistica del mondo, gli USA, e per il coinvolgimento di una coalizione così vasta, la guerra in Afghanistan debba continuare anche se non sarà mai vinta definitivamente. Intanto gli Usa hanno inviato altri 35.000 militari chiedendo che gli altri paesi della coalizione provvedessero a mandarne altri 10.000. L’Italia ha risposto di sì, e ne manderà altri 1.000, alla faccia della “missione di pace”.

 

Il fronte umanitario

 

Ma, l’Afghanistan, oltre all’invasione militare della coalizione di quasi una cinquantina di paesi, registra la presenza anche di alcune organizzazioni private non governative, pacifiste e umanitarie del volontariato internazionale, come Medici senza Frontiere, Emergency, Focus, Azione contro la Fame e altre. Le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite, presenti in Afghanistan fino all’inizio della guerra se ne andarono appena la guerra scoppiò.

I paesi imperialisti sono dunque presenti in Afghanistan sul doppio fronte, quello della guerra, dei bombardamenti alla cieca, delle vittime civili come “effetti collaterali”, e, nello stesso tempo,  quello dell’aiuto “umanitario”, dell’aiuto alimentare, della carità e della compassione verso i poveri, i derelitti, le vittime della guerra. Il ruolo che un tempo svolgeva soprattutto la Croce Rossa, ora lo svolgono, soprattutto sui fronti di guerra più difficili dove l’intervento umanitario di organizzazioni indipendenti dai governi non è per nulla ben visto, organizzazioni appunto come Emergency.

Anche in Afghanistan  Emergency è presente con i suoi ospedali. Questa organizzazione, si legge nel suo sito internet, “è un’associazione italiana indipendente e neutrale. Emergency offre assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevata qualità alle vittime civili delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. Emergency promuove una cultura di solidarietà, di pace e di rispetto dei diritti umani”. Negli ospedali di Emergency si curano tutti i feriti che vengono portati, soprattutto civili, ma anche miliziani a qualsiasi fronte di guerra appartengano. Questa caratteristica, che mette il personale di Emergency spesso in situazioni di grande pericolo di vita, lo mette però in rapporto con tutti i protagonisti della guerra e ciò è stato utilizzato anche dal governo per avviare trattative finalizzate, ad esempio, alla liberazione di ostaggi; lo mette però, allo stesso tempo, nelle condizioni di essere testimone di fatti di guerra, o di azioni della guerra sporca, che i rispettivi comandi militari hanno interesse a tenere nascosti o a raccontare in modo da non riceverne dei contraccolpi mediatici o diplomatici difficili poi da gestire. Ora, la regione in cui ultimamente le forze anglo-americane e alleate hanno lanciato la più forte offensiva militare contro i talebani, comprende la provincia di Helmand, nella quale è in funzione un ospedale di Emergency, a Lashkargah. Ed è in quell’ospedale che la mattina di sabato 10 aprile forze di polizia afgana e militari britannici della Nato hanno fatto irruzione, hanno perquisito i locali dell’ospedale “trovando” materiale esplosivo ed hanno arrestato 3 volontari italiani e alcuni volontari afgani di Emergency con l’accusa di essere coinvolti in un complotto per uccidere il governatore della provincia e per fare attentati suicidi a Lashkargah.

Sembra proprio che sia la prima volta che polizia ed esercito facciano irruzione negli ospedali di Emergency e che arrestino addirittura del loro personale; quegli ospedali, benché in zone di guerra, non sono certo dei fortilizi. Quell’irruzione, quel “ritrovamento” di materiale esplosivo (che assomiglia troppo alle bottiglie molotov “trovate” nella scuola Diaz di Genova nei famigerati giorni del G8 del luglio 2001), quegli arresti hanno troppo il sapore di una manovra ordita proprio per colpire un’organizzazione che sta dando molto fastidio ai comandi militari e ai rispettivi governi – compreso il governo fantoccio afgano – per la sua indipendenza e per le sue continue denunce dei feriti civili delle operazioni militari delle forze Isaf o Nato, dei quali feriti il 40% sono bambini. Ed è certo che dà molto fastidio anche all’attuale governo italiano che dell’amicizia con i guerrafondai americani – Obama non lo è di meno di Bush, anche se può vantarsi di aver ricevuto il premio Nobel per la pace!  – ne ha fatto una bandiera importante per recuperare prestigio internazionale.

La guerra delle potenze imperialiste in Afghanistan sta segnando il passo, incontran una resistenza che non è più soltanto esclusivamente dei talebani ma è molto spesso di insorti che non c’entrano con i talebani, e perciò mettono gli Usa, la Gran Bretagna, la Germania, l’Italia, la Francia e tutti gli altri paesi coinvolti nell’invasione militare del paese in una situazione sempre più difficile quanto a «credibilità» e «prestigio» internazionali relativamente alla ormai consunta parola d’ordine di una democrazia importata a suon di bombardamenti e di eccidi in un paese considerato incapace di generarla per conto proprio. La democrazia non sorge sulle montagne afgane, e intanto i bombardamenti fanno migliaia di morti tra i civili.

In Iraq ci fu, da parte delle forze americane, l’eccidio di Falluja nel 2004, su cui la giornalista del «manifesto» Giuliana Sgrena tentò di scavare qualche verità, col risultato di essere sequestrata, passata di mano in mano da una banda ad un’altra di sequestratori e, alla fine, una volta liberata, prelevata dal capo del Sismi in Iraq, Calipari, per essere rimpatriata, con l'obiettivo del governo italiano di aggiungere  un altro successo nel “riportare a casa” vivi i “connazionali” che, per conseguenza della guerra che esso stesso sostiene e conduce, sono stati fatti prigionieri. E’ noto che su Falluja non si seppe e non si saprà mai la verità (sull’uso del fosforo bianco contro la popolazione civile da parte americana, ecc.), ed è noto che, agli USA, sia l’atteggiamento di Calipari, accusato di essere troppo “accondiscendente” nel pagare somme anche ingenti nelle trattative per liberare i sequestrati (come nel caso precedente del giornalista di “Repubblica”, Mastrogiacomo), sia l’atteggiamento troppo “curioso” e “indagatore” della giornalista Sgrena, davano troppo fastidio tanto da essere molto interessati che le loro bocche e i loro occhi fossero chiusi. Obiettivo raggiunto per metà, perché nel famoso ultimo pezzo di strada per l’aeroporto di Bagdad, all’ultimo posto di blocco volante americano è stato ucciso solo Calipari mentre la giornalista Sgrena e l’autista sono rimasti solo feriti e qualcosa, al loro rientro in Italia, hanno raccontato. Il governo italiano, che allora era di centro sinistra, dopo qualche formale protesta a sostegno dell’inevitabile indagine avviata dalla procura di Roma, e di fronte al muso duro americano (come già nel caso della strage del Cermis),  poteva mettersi in urto con l’amico americano? Certamente no, e infatti ha abbassato le orecchie e ha ingoiato come unica la versione ufficiale americana del «tragico incidente»…

In Afghanistan, eccidi ce ne sono stati più d’uno, a cominciare dal novembre 2001 a Mazar-i-Sharif, la città più importante nel nord Afghanistan, dove l’Alleanza del Nord, alleata degli USA, si è lanciata a massacrare insieme ai talebani la popolazione civile della città; per arrivare a Marjah, nella provincia meridionale di Helmand, come Lashkargah dove c’è l’ospedale di Emergency. Marjah, insieme a Nadalì fanno parte della zona nota come la capitale afgana dell’eroina. Nella provincia di Helmand vi sono 70 mila ettari di piantagioni di papaveri da oppio su un totale nazionale di 123 mila; vi si produce il 60% di tutto l’oppio afgano. Se si tiene conto che l’Afghanistan produce il 90% dell’eroina diffusa nel mondo, quella provincia è la capitale mondiale dell’eroina, e quindi del denaro che se ne ricava. Tanta ricchezza fa gola a qualsiasi potenza, e gli anglo-americani non si sono fatti alcuno scrupolo: nelle dichiarazioni ufficiali hanno sempre lanciato campagne contro l’eroina e per la distruzione delle piantagioni di papaveri da oppio (come per la coca in Colombia), ma nei fatti hanno perseguito una strada ben diversa. Lo stesso governo afgano, i cui fili sono manovrati da Washington, ammette di aver “concesso” ai contadini di Helmand di continuare a produrre oppio e molte fonti (1) affermano che l’eroina prende il volo dall’Afghanistan con i voli militari che decollano dalle basi aeree di Kandahar e di Bagram. La grande offensiva nella provincia di Helmand, se da un lato ha causato moltissime vittime civili, dall’altro va a confermare un obiettivo ben diverso da quello di annientare i talebani, e cioè quello di riprendere il controllo della zona dove si produce la maggior parte di oppio in Afghanistan.

Allora si comprende perché la presenza di un centro sanitario del tutto indipendente dalle forze militari d’occupazione e dallo stesso governo afgano, come Emergency, proprio nel cuore delle manovre militari di rioccupazione della provincia più “drogata” dell’Afghanistan, centro sanitario oltretutto apprezzato dalla popolazione proprio per l’attitudine a curare e alleviare le sofferenze soprattutto dei civili massacrati da una e dall’altra parte del fronte bellico, possa dare molto fastidio. Che i volontari di Emergency, come di ogni altra organizzazione simile, rischino la vita in Afghanistan come in Iraq, in Somalia o in Congo, è un dato di fatto, ma non la rischiano per azioni di guerra, la rischiano perché sono testimoni scomodi, perché denunciano la violazione continua di ogni “regola” che gli eserciti democratici si vantano di diffondere nel  mondo e pretendono sia rispettata dai “nemici”, perché raccolgono “credibilità” e “prestigio” internazionale giocando sul piano della pace, dell’umanitarismo, della solidarietà, sfuggendo così alla spietata concorrenza guidata solo dagli affari, dal tornaconto personale, dalla violenza della guerra.

Non si può però dimenticare che anche le organizzazioni umanitarie e pacifiste contribuiscono a giustificare l’esistenza e il dominio del capitalismo; lo fanno con altre motivazioni, con altri mezzi, ma lo fanno. Esse si illudono di poter riformare il capitalismo attraverso l’esempio della solidarietà materiale da parte di coloro che per ideale hanno un capitalismo pulito, senza conflitti, senza violenze, senza guerre: curano i feriti di tutte le guerre e portano cibo ai diseredati e agli affamati in mezzo mondo perché si sentono spinti ad “aiutare” e non a “sopraffare”, perché si sentono spinti ad un sentimento di compassione verso le popolazioni dominate, vessate, sfruttate bestialmente, massacrate, disperse e inebetite dalla fatica del lavoro o dalle droghe. Al di là delle loro intenzioni immediate, è come se volessero tamponare presso quelle popolazioni una loro potenziale e tremenda reazione ai secoli di violenze subite dai paesi del progresso, del benessere, della democrazia, della civiltà borghese e capitalistica. E tutto questo per quale fine? Un mondo senza guerre.

Ma il mondo senza guerre non sarà mai il mondo del capitale, dello sfruttamento del lavoro salariato, del mercato, della proprietà privata: non potrà mai esservi capitale senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, e precisamente coi mezzi militari; nella società borghese, è l’espressione massima della necessità permanente del capitalismo di sviluppare forze produttive e nello stesso tempo di distruggerle. Nel capitalismo la pace non è che il tempo che trascorre tra una guerra e l’altra, e le missioni di pace sono solo preparatorie delle condizioni per le missioni di guerra.

La fine delle guerre guerreggiate si potrà avere soltanto con la fine delle loro cause, e le loro cause sono tutte nella società divisa in classi, nella società capitalistica, nella società che, difendendo la proprietà privata e l’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente,  genera inesorabilmente le contraddizioni che portano all’urto tra concorrenti capitalisti, appunto alle guerre.

La fine delle guerre guerreggiate passerà non attraverso il disarmo, la distensione, gli accordi tra briganti o l’umanitarismo da crocerossa, ma attraverso l’unica guerra che decreterà la morte del capitalismo: la guerra di classe, la guerra rivoluzionaria che il proletariato – la classe che non ha nulla da conservare o da guadagnare nel capitalismo – farà per emanciparsi dal lavoro salariato facendo della propria lotta per l’emancipazione il veicolo dell’emancipazione dell’intera società umana.

 


 

(1) L’International Security Assistance Force (ISAF) è una missione di supporto al governo dell’Afghanistan che opera sulla base di una risoluzione dell’ONU dal dicembre 2001. Consta di una forza militare composta da una quarantina di nazioni, di circa 59mila soldati, il cui apporto maggiore è dato dagli Stati Uniti (34.800), e da Regno Unito (9.000), Germania (4.465), Francia (3.095), Canada (2.830), Italia (2.795), Paesi Bassi (2.160), Polonia (1.900), Australia (1.350), Spagna (1.000),  Romania (990), Turchia (720) ecc. Nei primi due anni della guerra aveva compiti di presidio solo nella capitale, poi il raggio d’azione delle truppe ISAF. Queste truppe non sono le sole ad essere intervenute in Afghanistan; vi sono le truppe sotto il comando Nato e, a fianco di questi soldati spediti laggiù “ufficialmente” e sotto principi di ingaggio rispondenti al cosiddetto “diritto internazionale”, vi è un vero e proprio esercito di mercenari che  agisce sotto la protezione degli anglo-americani e dei tedeschi, ma certamente anche di altri Stati, compresa l’Italia (come d’altra parte è già avvenuto in Iraq). Secondo i dati raccolti da «peacereporter» il numero dei mercenari schierati in Afghanistan dagli Usa, dalla Germania e da altre potenze, sono circa 125.000, nei quali sono compresi i mercenari afgani, dunque più ancora dei militari “regolari” che superano di poco i 100mila.

(2) Cfr. gli articoli Marjah, la Fallujah di Obama del 15/2/10;  Marjah val bene una strage del 16/2/10;  Dentro Marjah del 23/2/10;  L’oppio di Marjah del 18/3/10, tutti nel sito www.peacereporter.net

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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