I sindacati tricolore a caccia di un nuovo patto sociale

(«il comunista»; N° 121; luglio 2011)

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A settembre, i maggiori sindacati italiani si reincontreranno per tirare le conclusioni dell'accordo che i loro vertici hanno siglato il 28 giugno con Confindustria e Governo. Che Cgil, Cisl, Uil, siano sindacati collaborazionisti, e perciò li abbiamo chiamati fin dal 1949 sindacati tricolore, non c'era bisogno di attendere il fatidico incontro con la Marcegaglia a nome della Confindustria e Sacconi a nome del Governo; il personale di vertice può anche cambiare, ma le strutture che rappresentano posseggono una dinamica del tutto indipendente da chi, in quel dato momento, firma l'accordo.

Il trambusto che ha caratterizzato la Confindustria e i sindacati, in particolare la Fiom-Cgil, nell'ultimo periodo è dovuto all'accelerazione che la Fiat - spinta da una crisi eccezionale del settore automobilistico mondiale che si è sovrapposta alla crisi finanziaria ed economica generale in corso dal 2008 e non ancora finita -ha impresso alle cosiddette relazioni industriali. Verso i sindacati: la Fiat, forte degli accordi presi con gli americani della Chrysler, coi sindacati dell'auto americani e con la Casa Bianca, ha messo mano ad una vera e propria ristrutturazione degli stabilimenti auto in Italia (e, in parte, in Polonia, in Serbia e in Brasile) con lo scopo di ottenere dai propri  operai più flessibilità, più produttività, più  disciplina e adattamento alle esigenze di produzione dell'azienda. E intendeva ottenere questi risultati nel più breve tempo possibile, scardinando abitudini, regole, accordi, contratti, disponibilità negoziale che intralciavano la corsa contro il tempo. Infatti, il tempo era diventato uno dei fattori determinanti nel disegno mondiale della Fiat. Le lungaggini che normalmente caratterizzano i pour-parler, gli incontri, i negoziati e gli accordi tra sindacati e aziende, dovevano essere drasticamente tagliate; troppi erano gli impegni finanziari presi per la Chrysler con i sindacati americani e la Casa Bianca. Quindi? Il metodo più spiccio è uno solo: dare l'aut aut, formulare una proposta aziendale che disciplinasse secondo le imperative esigenze capitalistiche tutto il ciclo produttivo. Disciplina vuol dire soprattutto che ciascun lavoratore deve svolgere il compito assegnato nel minor tempo possibile e col minimo di errori. Ed ecco il nocciolo della questione: il tempo!. Per quanto riguarda gli operai è il tempo di lavoro giornaliero, tempo nel quale ogni operaio deve aumentare la sua operatività produttiva, importante mezzo - insieme alle innovazioni tecniche - per aumentare produttività individuale. Ma il tempo di lavoro dell'operaio è, in realtà costituito, da una quota di tempo necessario per la sua riproduzione giornaliera in quanto forza lavoro - che corrisponde al salario che gli viene pagato dal padrone - e da una quota di tempo che l'operaio impiega lavorando per il padrone ma non gli viene pagata (il tempo di lavoro non pagato, di Marx, da cui il padrone trae il plusvalore, e quindi il suo profitto). La grande fretta di Marchionne, e i continui ricatti con i quali ha cercato di giungere rapidamente ad un accordo con i sindacati, era per lo più rivolta ad ottenere proprio questo: maggior tempo di lavoro non pagato che gli operai dovevano somministrare al padrone giorno dopo giorno. Le minacce di chiusura degli stabilimenti, di trasferire la produzione in Polonia piuttosto che in Serbia, di ridurre drasticamente gli organici degli stabilimenti italiani "rei" di "bassa produttività" rispetto agli altri, sono state utilizzate proprio allo scopo di accelerare i tempi dell'accordo e allo scopo di ottenere il massimo vantaggio per la Fiat. Minacce che sono servite a piegare i sindacati, innanzitutto Cisl e Uil che sono congenitamente aziendalisti e, poi, in tempi successivi, la Cgil che è altrettanto aziendalista ma con minore sfacciataggine. Il fatto che la Fiom abbia fatto per mesi la voce grossa e abbia rifiutato di firmare (da subito) l'accordo di Pomigliano e poi di Mirafiori con cui la Fiat vinceva su tutta la linea, non ha impedito alla casa-madre Cgil di trovare il modo (il pretesto è stato la discussione sulla rappresentanza sindacale in fabbrica) di avvicinarsi alle richieste della Fiat attraverso l'accordo con Confindustria del 28 giugno scorso.

La questione discussa in questo incontro riguarda un tema normativo in realtà di una certa importanza. Dal 1995 si è passati dal concetto dei sindacati "maggiormente rappresentativi" (e che avevano diritto di firma dei contratti collettivi rendendoli validi per tutti i lavoratori, iscritti e non) al concetto di sindacati firmatari di un contratto collettivo che si applica nell'unità produttiva. Allora, questo passaggio (votato col referendum appunto del 1995) sembrò a molti operai positivo, perché rompeva il monopolio della rappresentanza della triplice (Cgil-Cis-Uil) e consentiva l'emergere di altri sindacati ufficialmente riconosciuti. In realtà, proprio il principio del riconoscimento di rappresentanza in fabbrica solo ai sindacati firmatari di un particolare accordo, ha permesso alla Fiat, oggi, e domani ad ogni altra azienda, di escludere da una fabbrica i sindacati non graditi, indipendentemente dalla loro rappresentanza: basta che non abbiano firmato il contratto che si applica in quella fabbrica. La minacciata uscita della Fiat dalla Confindustria - che è legata dall'aver firmato i contratti nazionali di categoria con tutti i sindacati riconosciuti e col vecchio principio di rappresentanza - a sua volta, ha accelerato anche sul versante padronale l'attacco alle condizioni operaie.

Sì, perché quando si parla di contratto da applicare in fabbrica, si parla di condizioni operaie e se queste sono negoziate da sindacati che nel loro dna non hanno la difesa intransigente degli interessi operai, ma la difesa intransigente delle esigenze delle aziende, gli operai, ai quali si prospetta un futuro prossimo di continui peggioramenti, non potranno contare nemmeno su un peggioramento... più lieve. La lotta alla quale vengono chiamati saltuariamente, e in modo che sia sempre meno dannosa possibile per il padrone, non è nemmeno più una lotta: è un fattore di autolesionismo, si perde salario per non ottenere se non un rafforzamento delle posizioni padronali.

Il contratto di lavoro, la rappresentanza sindacale in fabbrica e non soltanto sul territorio, il riconoscimento legale degli accordi tra sindacati e padroni, sono tutte cose importanti e utili alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro operaie a condizione che siano il risultato di lotte condotte con mezzi e metodi di classe, quindi ad esclusiva difesa delle condizioni operaie, e da organizzazioni operaie di classe. Il patto sociale che i sindacati tricolore stanno sottoscrivendo per l'ennesima volta è, in realtà, una sconfitta della lotta operaia, è una capitolazione di fronte alle esigenze dei capitalisti che, oltretutto, data la crisi persistente della loro economia, preparando il proletariato alle lacrime e sangue, oggi in tempo di pace, lo stanno preparando a sacrifici ben maggiori domani, in tempo di guerra. Tornare alla lotta di classe, oggi, per i proletari, significa riprendere in mano direttamente le sorti della difesa delle proprie condizioni di esistenza e di lavoro, significa organizzare e difendere la lotta classista se possibile dentro, e sennò fuori, i sindacati esistenti.

Finché la società capitalistica è in piedi e garantische il dominio della classe borghese sull'intera società, i capitalisti cercheranno sempre di estorcere dal lavoro salariato il massimo di pluslavoro possibile - e dunque il massimo di profitto possibile -  sia per battere la concorrenza interna e internazionale sia per rafforzare il proprio dominio di classe sulla società. E i proletari non potranno difendere le proprie condizioni di esistenza e di lavoro se non combattendo ogni sorta di attacco portato dai padroni e dai politici che, difendendo gli interessi dei capitalisti difendono i propri privilegi sociali. Ma i proletari devono soprattutto combattere la concorrenza fra operai, interna e internazionale, come hanno fatto lo scorso anno i lavoratori polacchi della Fiat di Tychy. E dovranno rompere con le pratiche e le politiche del collaborazionismo.

La lotta classista non ha confini, nè di reparto, nè di fabbrica, né di nazione.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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