Alcuni cenni sulla Siria

(«il comunista»; N° 123-124; novembre 2011 - febbraio 2012)

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Il sanguinoso dominio dell’imperialismo francese

 

La storia della Siria moderna si può dire che cominci durante la prima guerra mondiale (1), mentre in precedenza il paese era stato una regione dell’Impero Ottomano.

Con il robusto sostegno dei britannici, che avevano promesso loro l’indipendenza, le truppe dello sceriffo Hussein, che si era ribellato nel 1916 proclamandosi re degli Arabi, cacciarono i Turchi da una buona parte del Medio Oriente. Nel marzo 1920 a Damasco si costituì un governo che dichiarò l’indipendenza della Grande Siria (comprendente anche il Libano e la Palestina).

Ma, durante la guerra, erano stati presi degli accordi segreti fra le potenze imperialiste – i  famosi “Accordi Sykes-Picot” (dal nome dei rappresentanti francese e inglese che li firmarono, insieme al russo Sazonov) – che vennero alla luce in occasione della rivoluzione bolscevica la quale si impossessò dei documenti diplomatici zaristi e rese noti al mondo intero gli arcani della diplomazia borghese.

Uno degli scopi nella guerra degli imperialisti francesi e britannici, alleati ma rivali, era lo smembramento dell’Impero Ottomano alleato della Germania, e la spartizione delle sue spoglie. Rinnegando le sue promesse ai nazionalisti arabi, l’imperialismo inglese fece blocco con l’imperialismo francese perché il trattato di Sèvres, concluso nel 1920, rispettasse a grandi linee gli accordi Sykes-Picot: alla Francia fu così affidato un “mandato” (col compito di “preparare l’indipendenza”) sulla Siria, e la Gran Bretagna se ne fece attribuire uno sull’Irak e la Palestina.

Mentre in Francia l’euforia della pace ritrovata agiva come un potente calmante delle tensioni sociali, le truppe francesi del posto si lanciavano all’attacco delle forze governative di Damasco; la città fu presa nel luglio del 1920, ma i combattimenti nelle diverse regioni del paese continuarono fino al 1923. Nel frattempo, Parigi, conformemente alle volontà della lobby coloniale, aveva creato lo Stato libanese incorporando alla regione del Monte Libano, che era da lungo tempo un punto d’appoggio degli interessi francesi (2), alcune province siriane come la valle della Bekaa, la regione di Tripoli ecc. La Siria sotto mandato francese veniva divisa in diversi Stati per poterla controllare meglio: dall’inizio, come in Libano, i Francesi giocarono la carta della divisione e del confessionalismo, attizzando i contrasti esistenti. Nel 1924 l’imperialismo francese  costruì una Federazione Siriana raggruppando le regioni di Damasco e di Aleppo, uno Stato Aluita e altri due territori “autonomi” (autonomi rispetto al resto della Siria, non rispetto all’imperialismo!): il Djebel Druso e il Sangiaccato di Alessandretta (regione dove era presente una forte minoranza turca).

Di fronte all’arbitrio e alla brutalità del giogo coloniale imposto dall’amministrazione militare francese, che faceva rimpiangere alle popolazioni siriane il dominio ottomano, nel 1925 scoppiò nel Djebel Druso una rivolta che, rapidamente, abbracciò tutta la Siria facendosene un baffo delle divisioni amministrative instaurate dall’occupante, fino a cacciare i francesi da Damasco.

Malgrado una repressione selvaggia (le truppe francesi non esitarono a bombardare le città per mesi), i francesi conobbero gravi rovesci militari; tuttavia, dopo le vittorie iniziali degli insorti, nel 1927 la rivolta fu alla fine vinta e non soltanto per l’afflusso di truppe coloniali francesi ben armate (3), ma essenzialmente a causa della divisione delle forze che dirigevano il movimento (grandi proprietari terrieri, tribù, nazionalisti borghesi). Comunque, l’autorità francese non andò mai al di là delle grandi città, mentre le campagne e i piccoli villaggi continuavano ad essere percorsi da manifestazioni e appelli alla lotta contro l’occupante.

Per tentare di riprendere il controllo della situazione, mentre alcuni circoli capitalisti predicavano il ritiro da una Siria ingovernabile per concentrarsi sul Libano, l’imperialismo adottò una politica più liberale: fine dell’amministrazione militare, elezioni, discussioi coi notabili locali in vista di un’indipendenza che rispettasse gli interessi francesi. E’ così che, nel 1934, col “presidente-fantoccio” della Siria, fu combinato un progetto di indipendenza graduale per una parte dei territori siriani; questo progetto suscitò la collera dei nazionalisti che si mobilitarono in manifestazioni e scioperi (50 giornate di sciopero) in tutto il paese. Nel 1936, il nuovo governo francese di Fronte Popolare si rassegnò ad avviare dei negoziati con i nazionalisti. Alla fine fu firmato un trattato di pace, nel dicembre 1936, col quale si riconobbe immediatamente la Siria come Stato indipendente comprendente i territori Drusi e Aluiti, che in precedenza l’imperialismo voleva staccare dalla Siria, ma non quelli attribuiti al Libano. In “contropartita” i siriani accettavano il mantenimento delle basi militari francesi, la libera disponibilità dello spazio aereo per l’aviazione francese e un sostegno siriano ad un eventuale sforzo di guerra francese; inoltre, la piena sovranità sarebbe stata accordata solo 25 anni dopo!

Questo trattato di indipendenza dimostrava – se ce ne fosse stato ancora bisogno – che il governo di Fronte Popolare non intendeva ledere in alcun modo gli interessi dell’imperialismo francese; ma presto negli ambienti colonialisti si levarono critiche che denunciavasno quel trattato come una liquidazione dell’impero. Docilmente, allora, il governo di Fronte Popolare decise di non presentarlo in parlamento per la ratifica, col pretesto che non sarebbe stato votato al Senato! Il trattato non entrò mai, dunque, in vigore...

Per comprarsi la neutralità della Turchia in previsione di una guerra imminente con la Germania, nel 1938 l’imperialismo francese trasformò il Sangiaccato di Alessandretta in una Repubblica di Hatay, una sorta di condominio franco-turco, e l’anno seguente cedette questa regione alla Turchia provocando alte rimostranze da parte dei nazionalisti siriani. Ancor oggi, i diversi governi siriani non hanno mai riconosciuto questa annessione.

Nel corso della seconda guerra mondiale, nel 1943, le Forze Francesi Libere del generale de Gaulle, dopo essersi impossessate della Siria e del Libano con l’appoggio dei Britannici, togliendoli dalle mani delle truppe fedeli a Vichy, promisero solennemente l’indipendenza a questi due paesi subito dopo la fine della guerra. Ma, nel novembre 1943, le autorità antifasciste della cosiddetta “Francia Libera” arrestarono il presidente e i ministri del governo libanese, regolarmente eletti, e al loro posto imposero un governo fantoccio. Ci vollero uno sciopero generale e violenti scontri perché il governo eletto fosse liberato e riconosciuto e perché fossero ribadite le promesse di indipendenza. Ma, alla fine della guerra, ancora una volta le promesse non furono mantenute.

Nel maggio 1945, dopo 10 giorni di manifestazioni a Damasco per chiedere l’indipendenza e la partenza delle truppe francesi, queste ultime bombardarono la capitale siriana per 36 ore consecutive nel tentativo di riprenderne il controllo. Dopo aver seminato centinaia di morti e di feriti e ingenti distruzioni i francesi lasciarono finalmente il paese: il dominio dell’imperialismo francese finì come era iniziato, fra sangue e rovine (4).

Al momento della Grande Rivolta del 1925, la Siria, compreso il futuro Libano, contava solamente circa 2 milioni di abitanti; era, secondo le analisi dell’Internazionale Comunista, il paese “industrialmente più sviluppato di tutta l’Asia Minore” (regione che si estende tra la Turchia e l’Egitto); ma si rilevava che questo sviluppo era molto relativo poiché il paese restava ancora largamente agricolo (5).

L’industria tradizionale era, in effetti, essenzialmente artigianale, e la popolazione attiva era maggiormente occupata nell’agricoltura (dal 65 al 70%); un piccolo strato di grandi proprietari assenteisti possedeva circa il 60% delle terre a fronte di circa 700.000 contadini senza terra. Nel Djebel Druso sussistevano delle forme particolarmente arcaiche d’occupazione dei suoli: divisione periodica delle terre, teoricamente comunitarie ma delle quali i cacicchi prendevano la gran parte. Il tentativo degli occupanti francesi di spezzare queste forme e di instaurare, come in Algeria, una proprietà privata delle terre fu uno dei detonatori della rivolta.

I piccoli mestieri urbani raggruppavano dal 15 al 18% della popolazione attiva e il commercio circa il 10%. L’industria nel senso proprio del termine, per la maggioranza nelle mani dei capitalisti stranieri (soprattutto francesi), era costituita da circa 150 imprese che occupavano ciascuna, in media, qualche decina di lavoratori.

Fino all’inizio degli anni Trenta queste imprese “industriali” non erano che dei laboratori attrezzati in modo rudimentale, dove la divisione del lavoro era appena accennata. Le due prime vere officine moderne in Siria furono un cementificio, creato nel 1928, e un opificio tessile nel 1933. Nel 1934, uno studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro recensiva 306 officine che impiegavano in tutto meno di 6000 lavoratori salariati in Siria e in Libano: 81 officine a Beirut (3000 lavoratori), 71 ad Aleppo (1700 lavoratori) e 63 a Damasco (1300 lavoratori).

 

Lotte proletarie e aborto del movimento comunista

 

La tessitura in Siria era da lungo tempo un’attività economica importante, i tessuti di Damasco avevano una reputazione internazionale al di là dell’impero ottomano. Negli anni Settanta del XIX secolo vi erano 6/7000 tessitori a Damasco di cui 4/5000 operai specializzati lavoravano per dei maestri artigiani e venivano pagati alla pezza. A dispetto delle tradizioni e delle regole corporative, gli scioperi dei lavoranti specializzati non erano sconosciuti; tuttavia quello del 1879 segnò una svolta: più di 3000 lavoranti si misero in sciopero per protestare contro l’abbattimento delle tariffe con cui venivano pagati alla pezza, da 16 a 13 piastre. Gli scioperanti organizzarono delle squadre per minacciare i crumiri e mettere fuori uso i loro attrezzi del mestiere. Dopo 4 settimane i maestri artigiani ristabilirono le vecchie tariffe e il lavoro riprese. In seguito al successo di questa grande lotta, gli scioperi degli operai tessili specializzati divennero più frequenti e la loro tradizione militante si mantenne nel corso dei decenni seguenti (6).

Ma dopo la prima guerra mondiale, la rottura dei legami economici di questa vecchia privincia ottomana con la Turchia e la concorrenza dell’industria tessile internazionale precipitò il settore in un profondo e irrimediabile marasma (secondo alcune stime, il numero dei lavoranti diminuì dell’80% dal 1910 al 1930 e il numero degli artigiani si dimezzò) (7): l’agitazione sociale nelle città divenne sempre più la caratteristica dei proletari salariati moderni. Tuttavia, il debole sviluppo economico ha come conseguenza inevitabile la debolezza del movimento operaio; anche se alcuni scioperi sono segnalati nelle ferrovie nel 1908, bisognerà attendere il 1920 per vedere una prima lotta ampia dei ferrovieri, che si chiuse con un fallimento, e il 1924 perché apparisse il primo vero sindacato: il sindacato degli operai del tabacco, su iniziativa di Fouad Chimali, operaio espulso dall’Egitto dagli Inglesi per “propaganda bolscevica” (8).

Ciò non impedì alcuni tentativi di organizzazione politica contemporanei a questi primi sforzi, ancora timidi, di organizzazione del proletariato per la lotta di difesa immediata. Nell’autunno del 1924, in seguito a contatti con un emissario dei comunisti ebrei di Palestina, un pugno di intellettuali e di operai fondò il “Partito del Popolo Libanese” di cui Chimali sarà il presidente; nel corso di qualche mese egli attirò nei suoi ranghi gli elementi più dinamici del piccolo movimento sindacale nascente. In occasione del primo maggio 1925 un contatto a Beirut fu stabilito con la “Gioventù Spartacus”, fondata da rifugiati armeni, che contava una quindicina di membri in questa città e delle sezioni ad Aleppo, Mossul, Zaleh e Alessandretta; il “Partito Comunista di Siria e del Libano” fu costituito dalla fusione di questi due gruppi.

Il piccolo partito appena nato si dovette immediatatmente confrontare con la repressione dell’imperialismo francese. Il 20 luglio 1925 la polizia aprì il fuoco a Beirut per disperdere migliaia di manifestanti raccoltisi per protestare contro la soppressione del controllo degli affitti: vi furono 10 morti, una quarantina di feriti e una sessantina di arresti. Questa fu l’occasione per il primo volantino in arabo del partito che denunciava il massacro e chiamava alla lotta contro l’imperialismo e al sostegno della rivolta che stava scoppiando fra i Drusi; in seguito a questo volantino la polizia arrestò i dirigenti comunisti sui quali riuscì a mettere le mani.

In novembre il partito diffuse fra i soldati francesi un appello alla solidarietà di classe, a Beirut, ad Aleppo e Zaleh (9). Nel dicembre 1925 riuscì a tenere, in clandestinità, il suo primo congresso al quale parteciparono 15 delegati. Non abbiamo resoconti di questi lavori, ignoriamo il tenore del programma che fu adottato, ma il sostegno alla rivolta anticoloniale sembra essere stato l’orientamento dominante, mentre gli orientamenti propriamente di classe erano relegati ad un piano subalterno, se ci si basa sulle decisioni che vennero prese:

1. Sostenere la rivoluzione Siriana. 2. Rafforzare la lotta contro l’imperialismo. 3. Lottare per l’indipendenza nazionale e le libertà democratiche. 4. Lottare per i diritti degli operai in Siria e in Libano. 5. Proporre la confisca delle terre dei proprietari terrieri che non sostengono la rivoluzione.

Nel gennaio 1926 i dirigenti ancora liberi furono arrestati, e ciò avviò la scomparsa dell’organizzazione, anche se il 1926 conobbe un movimento di sciopero senza precedenti per il paese: ondate di scioperi nelle differenti categorie lavorative, nelle officine e nell’amministrazione a Beirut durante l’estate (tra i più importanti, lo sciopero degli autoferrotranvieri e dell’illuminazione elettrica per 3 settimane), sciopero dei ferrovieri e dei tessitori di Aleppo, scioperi nel settore tessile a Homs e a Damasco nell’ottobre ecc.

La principale preoccupazione del potere coloniale, sottoposto a diserzioni ed ammutinamenti fra le proprie truppe (10), era di spezzare l’insurrezione, senza esitare nell’uso di una cieca violenza contro la popolazione civile nelle campagne, ma anche nelle città: la repressione, compresi i bombardamenti aerei, contro un attacco ad una postazione militare francese, il 4 ottobre 1925, causò ad Hama più di 300 morti essenzialmente civili; lo stesso mese, i bombardamenti dei quartieri popolari di Damasco, dove si trovavano gli insorti, fecero più di 1500 morti, donne e bambini compresi. E si aggravò ancor più la repressione contro il movimento operaio (11). Nel maggio 1926, il nuovo “Alto Commissario” (capo delle autorità francesi che amministravano la regione su “mandato” della Società delle Nazioni – il precursore dell’ONU), noto per essere un democratico, promulgò il decreto seguente: “Ogni associazione formata, quale che sia la sua durata o il numero dei suoi membri, ogni intesa stabilita allo scopo di preparare o di commettere dei crimini contro le persone o le proprietà nella prospettiva di trasformare la società attraverso mezzi illegali, costituisce un crimine contro la pace pubblica”: l’imperialismo democratico francese imponeva in questo modo una legge sulle associazioni molto più repressiva di quella promulgata nel 1909 sotto l’Impero Ottomano! Queste misure repressive antiproletarie furono accentuate nel corso degli anni seguenti; le autorità francesi cercavano, infatti, di privilegiare le vecchie forme d’organizzazione corporativa per ostacolare la formazione di sindacati.

L’amnistia dei prigionieri politici del 1928 permise di ritessere i legami tra i militanti e l’Internazionale (Chimali partecipò così al VI Congresso dell’IC nel luglio-agosto 1928; i verbali delle sedute non hanno registrato che la sua firma, insieme ad altri delegati dei partiti del Medio Oriente, in calce ad una dichiarazione contro il trotskismo).

 

La triste traiettoria dello stalinismo

 

La ricostituzione del partito – sempre clandestino – fu resa pubblica il primo luglio 1930 attraverso la diffusione in tutto il paese di un manifesto che chiamava alla lotta contro l’imperialismo francese, denunciava il “tradimento” dei nazionalisti del “Blocco Nazionale” (raggruppamento di forze nazionaliste impegnate in negoziati con la Francia) e si dava l’obiettivo di un “governo operaio e contadino” per ottenere l’indipendenza della Siria. Nel 1932, Chimali, vittima di una giravolta dell’Internazionale, fu espulso dal partito con accuse infamanti, secondo i metodi stalinisti (collusione con i servizi segreti francesi!); fu rimpiazzato alla testa del partito da Khaled Bagdache che sarà, nel corso dei decenni successivi, l’inamovibile e indefettibile uomo di Mosca, facendo obbedire il suo partito agli imperativi della politica russa, spesso contraddittoria, ma sempre imperialista e antiproletaria. E’ in quest’epoca che possiamo datare l’aborto definitivo del tentativo di costituzione di un autentico partito comunista e la nascita del Partito Comunista Siriano (il suo nuovo nome), come partito integralmente staliniano, un partito che non solo non aveva più la minima natura di classe, ma che voltò completamente le spalle alla prospettiva della stessa rivoluzione borghese.

Nel 1931 il PCS aveva pubblicato un programma che affermava che l’obiettivo del partito era lo “smantellamento del sistema capitalistico-imperialista e l’instaurazione di un sistema socialista”. Ma dopo questa forte dichiarazione, un “piano d’azione” mostrava il valore di queste parole; esso definiva le 7 priorità seguenti:

1. Liberazione della Siria: rifiuto del mandato e ritiro di tutte le forze militari straniere (compreso il rifiuto della frammentazione della Siria ecc.). 2. Miglioramento della condizione operaia: leggi sociali che fissino un salario minimo, il tempo di lavoro, le condizioni di lavoro, un sistema di sicurezza sociale. 3. Miglioramento della condizione contadina: abolizione dei debiti, riduzione delle tasse sui piccoli contadini, nazionalizzazione delle risorse d’acqua, riforma agraria e abolizione delle pratiche feudali, abolizione del lavoro forzato, leggi sociali per proteggere i lavoratori agricoli ecc. 4. Liberazione e diritti delle donne: completa eguaglianza sociale e giuridica, abolizione del velo e dei matrimoni forzati, abolizione delle restrizioni al lavoro delle donne, congedo di maternità, leggi sociali per proteggere le donne lavoratrici. 5. Legislazione sul lavoro dei fanciulli: interdizione del lavoro per i minori di 15 anni, autorizzazione ai giovani di organizzarsi in sindacato, istruzione obbligatoria  e gratuita. 6. Altri obiettivi interni che includono un sistema di imposte equo e progressivo, controllo degli affitti, avviamento di un sistema sanitario e di educazione universale e accessibile, espulsione dell’amministrazione coloniale, rifiuto delle divisioni religiose. 7. Altri obiettivi esterni che includono la liberazione dei popoli coloniali e il diritto all’autodeterminazione: lotta per la solidarietà internazionale; lotta per un fronte comune unificato arabo contro l’imperialismo; lotta per la creazione di alleanze fra gli operai e i contadini del mondo arabo.

E’ facile constatare che queste priorità  non hanno nulla di comunista. Siamo qui in presenza di un catalogo di rivendicazioni puramente riformiste, fortemente colorate, oltretutto, dal nazionalismo arabo. Il programma d’azione non si interessa della classe operaia se non sotto l’angolo delle leggi sociali da richiedere allo Stato borghese al fine di fissare dei limiti allo sfruttamento; e non propone altra prospettiva politica che l’alleanza interclassista con i contadini.

La posizione tipicamente staliniana di alleanza con il contadiname per andare verso il “sistema socialista” è radicalmente estraneo al marxismo. Secondo l’analisi marxista, in effetti, i contadini sono dei piccolo-borghesi, e questo significa che i loro interessi di classe li portano inevitabilmente a sostenere il capitalismo e ad opporsi al socialismo. Un’alleanza con i piccolo-borghesi, coi contadini, non è possibile che nel quadro di una rivoluzione borghese, antifeudale, anticoloniale, Per riprendere le parole di Lenin:

Si può e si deve lottare contro il funzionario [cioè il rappresentante dello Stato zarista, NdR] e il grande proprietario fondiario insieme con tutti i contadini, anche agiati e medi. Ma contro la borghesia, cioè anche contro i contadini agiati, si può lottare con speranza di successo soltanto insieme con il proletariato rurale” (12).

Allearsi con i contadini significa avere come obiettivo il capitalismo, non il socialismo. Ma d’altra parte, anche in una situazione in cui all’ordine del giorno c’è la rivoluzione borghese e non la rivoluzione socialista, e in cui un’alleanza temporanea con altre classi è possibile nella lotta contro il nemico comune, il primo compito dei comunisti è di lavorare per l’indipendenza di classe dei proletari, lavorare per strapparli all’influenza del nazionalismo e del democratismo borghesi in modo che essi siano nelle migliori condizioni possibili per difendere i loro interessi di classe, durante la lotta comune e dopo di essa.

Se torniamo ancora una volta all’esempio della rivoluzione antizarista in Russia, Lenin metteva i puntini sulle i: “Nel porre in rilievo la solidarietà con gli operai di diversi gruppi di opposizione, i socialdemocratici [vecchio nome dei comunisti, NdR] metteranno sempre gli operai in primo piano, spiegheranno sempre il carattere temporaneo e relativo di questa solidarietà, sottolineeranno sempre che il proletariato è una classe a sé, la quale potrà domani diventare avversaria dei suoi alleati di oggi. Si obietterà: Questo indebolirà tutti coloro che lottano per la libertà politica nel momento presente. No, questo rafforzerà invece tutti coloro che combattono per la libertà politica, risponderemo noi. Forti sono soltanto quei combattenti che si appoggiano sugli interessi reali, effettivamente riconosciuti come tali, di classi determinate, ed ogni tentativo di nascondere gli interessi di classe che svolgono già una funzione dominante nella società contemporanea, indebolirebbe soltanto i combattenti” (13).

Anche quando conserva ancora un discorso che fa riferimento al marxismo, è precisamente l’indipendenza di classe del proletariato che lo stalinismo mette da parte, in Cina come in Siria e dappertutto, in nome dell’unità contro l’imperialismo o il “feudalismo”, indebolendo in questo modo il proletariato, ma anche la rivoluzione borghese!

(Continua)

 


 

(1) In realtà, dei movimenti nazionalisti arabi hanno cominciato ad apparire nelle regioni dominate dall’Impero Ottomano già all’inizio del Ventesimo secolo.

(2) La Francia di Napoleone III, che dopo l’epoca di Luigi XIV si era fatta accordare il titolo di “protettrice dei Cristiani d’Oriente” dal Vaticano, inviò nel 1860 una flotta da guerra (ma con un accordo delle potenze europee che ne limitavano la portata), in seguito ai massacri delle popolazioni cristiane (maronite) nella regione del Monte Libano da parte dei Drusi che si spinsero poi fino a Damasco. L’Impero Ottomano fu costretto ad accordare una certa autonomia alla regione del Monte Libano, suddiviso fra Drusi e Cristiani. Questa autonomia permise ai capitalisti francesi di svilupparvi la loro presenza economica soprattutto nel campo della seta e delle attività portuali e commerciali di Beirut.

(3) Per non provocare delle agitazioni in Francia, venivano impegnate in Siria soprattutto truppe coloniali.

(4) Nel Libano, bisognò attendere l’autunno del 1946 e una serie di scioperi e di manifestazioni, e anche pressioni diplomatiche, perché l’imperialismo francese si rassegnasse all’indipendenza effettiva del paese e reimbarcasse i suoi ultimi soldati. Ma vi mantenne per lungo tempo una presenza economica importante. Cfr. “le prolétaire” n. 481 del 2006.

(5) Cfr. L’Internationale Communiste n. 6 (dicembre 1925).

(6) Cfr. Sherry Vatter “Militant journeymen in Nineteenth-Century Damascus” in “Workers and Working Classe in the Middle East”, New York, 1994.

(7)   Secondo Elisabeth Longuenesse, “Labor in Syria” in “The Social History of Labor in the Middle East”, Washington 1996. Il numero totale di lavoratori nell’industria moderna e nelle attività artigianali tradizionali, sarebbe passato, fra il 1913 e il 1937, da 309.000 a 203.000: la crescita dei posti di lavoro nell’industria era insufficiente a compensare le forti perdite nell’artigianato. Michel Seurat dà cifre differenti, ma che indicano la stessa tendenza. Cfr. “Etat et industrialisation dans l’orient arabe” in “Industrialisation et changement sociaux dans l’orient arabe”, CERMOC, Beyrout 1982.

(8)   Cfr. “Le mouvement syndical au Liban”, Editions Sociales 1970, pp 100-122. Originario della Siria, Chimali era operaio in una fabbrica di sigarette del Cairo, una corporazione che aveva una lunga tradizione di lotta (lo sciopero dei lavoratori del tabacco del 1918 è considerato come il precursore dell’ondata di scioperi e di agitazioni che scossero l’Egitto nel 1919). Membro del Partito Comunista Egiziano, avrebbe fatto parte di un gruppo che aveva tentato di fondare fra gli immigrati siriani ad Alessandria un “Partito Socialista Siriano-Libanese” facendo riferimento all’Internazionale Comunista; fu espulso dall’Egitto nel 1923.

(9)   Il volantino in francese si ispira a parole d’ordine dello sciopero dell’ottobre 1925 organizzato dal PCF contro la guerra in Marocco e in Siria. Cfr. “Le mouvement syndical...”, op. cit. p. 121.

(10) Le truppe francesi (in gran parte truppe coloniali) erano costituite da 14.000 soldati nell’estate 1925, ma furono portate a 50.000 nel gennaio 1926. Alcuni distaccamenti supplettivi reclutati fra le minoranze etniche o religiose siriane passarono all’insurrezione. Nel gennaio 1926, il battaglione incaricato della difesa della fortezza di Rachaya si rifiutò di andare a combattere. Un secondo battaglione, inviato d’urgenza da Rayac, gettò i suoi fucili e si rifiutò di avanzare. Cfr. L’Humanité, 1/2/1926.

(11) Il 25/10/1926, quattro dirigenti dell’insurrezione furono impiccati a Beirut; qualche settimana prima quattro giovani militanti o simpatizzanti comunisti, d’età tra i 16 e i 18 anni, anche se liberati dalla prigione, furono inviati senza giudizio a marcire nel sinistro bagno penale di Rakha nel deserto. Cfr. L’Humanité, 26/10 e 13/10/1926. Secondo J. Varin, “Jeunes comme JC”, Tomo 1, Ed. Sociales 1975, p.103, sarebbero poi morti di fame. Ma non abbiamo trovato conferma di questa informazione sulle colonne del quotidiano del PCF. Il numero delle vittime siriane dopo la rivolta è stimato in 6000 morti, più di 100.000 persone senza tetto, mentre le perdite francesi ammonterebbero a 2000 (la conquista e la “pacificazione” della Siria prima della rivolta era già costata 6700 morti alle truppe dell’imperialismo francese). Cfr. Ph. S. Khoury, “Syria and the French Mandate”, Princeton 1987, pp. 239, 242.

(12) Lenin, Socialismo piccoloborghese e socialismo proletario, Opere, Vol. 9, p. 420. Questo articolo del 1905, scritto contro i “socialisti rivoluzionari” aveva per obiettivo di precisare il rapporto fra proletariato e contadiname in un paese, la Russia, in cui la rivoluzione borghese non aveva ancora avuto luogo.

(13) Lenin, I compiti dei socialdemocratici russi, Opere, Vol. 2, pp. 324-25

 

 

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