L’Egitto fra repressione militare, reazione islamista e lotte operaie

(«il comunista»; N° 123-124; novembre 2011 - febbraio 2012)

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L’AMARA VITTORIA DELLA DEMOCRAZIA

 

Dieci mesi dopo la caduta di Mubarak fra il tripudio popolare, i media del mondo intero hanno annunciato all’unisono “la vittoria della democrazia” in Egitto, con le prime elezioni libere che hanno visto il trionfo dei partiti islamici reazionari e la sanguinosa repressione da parte dei militari dell’occupazione e delle manifestazioni di piazza Tahrir che ha fatto decine di morti.

Se i borghesi illuminati possono provare qualche imbarazzo di fronte a questi avvenimenti, certamente si rassicurano quando si rendono conto che si tratta di due aspetti complementari, legati fra loro, dello stesso fenomeno di rafforzamento dell’ordine borghese che era stato sconvolto dalle manifestazioni e dalle lotte dell’inizio dello scorso anno. Questo spiega come mai siano state moderate le reazioni dei governi occidentali, che di solito non perdono occasione per dare saccenti e ipocrite lezioni di democrazia ai governi dei paesi cosiddetti “periferici”: il ripristino della stabilità politica e sociale in un paese di oltre 85 milioni di abitanti situato nel cuore di una zona strategica per l’imperialismo mondiale ha assolutamente bisogno dell’azione congiunta dell’oppio democratico e religioso e delle fucilate della soldatesca e dei gruppi paramilitari. Soprattutto quando si leva la minaccia dell’agitazione operaia…

 

TUTTI UNITI CONTRO LE LOTTE OPERAIE

 

Praticamente dall’indomani della caduta di Mubarak, il Consiglio Supremo delle Forze Armate (CSFA), prese le redini del potere, con un comunicato condannava le azioni rivendicative in quanto mettevano in pericolo la sicurezza nazionale: il 23 marzo il nuovo governo nominato dai militari vietava le assemblee, le manifestazioni e gli scioperi che avrebbero ostacolato il buon funzionamento delle imprese pubbliche e private, e minacciava i responsabili a condanne fino a un anno di carcere e ad ammende molto salate.

Il portavoce dei Fratelli Musulmani (corrente islamica tradizionalista che, sotto Mubarak, rappresentava la sola vera forza d’opposizione tollerata) esprimeva già dalla metà di febbraio 2011 la sua “comprensione” rispetto alla posizione dei capi militari, accusando anch’egli le azioni rivendicative di minare il consenso nazionale, mentre un eminente responsabile salafita (corrente islamica di estrema destra) faceva appello perché si ponesse fine agli scioperi e ai sit-in dei lavoratori. In aprile, il gran mufti, la massima autorità religiosa in Egitto, dichiarava che gli istigatori di azioni rivendicative “violavano gli insegnamenti di Dio” (1).

Questa campagna contro gli scioperi e le lotte operaie è stata portata avanti nel corso dei mesi da giornali e reti televisive. Quando non venivano denunciati per essere stati manipolati da “elementi controrivoluzionari”, i proletari in lotta venivano accusati di difendere egoisticamente i loro interessi invece di pensare all’interesse generale della nazione; si cercava di farli vergognare affermando che i manifestanti di piazza Tahrir, invece, avevano lottato per la patria: “tutti i loro slogan ruotavano intorno al significato della libertà, poiché i manifestanti avevano messo da parte le proprie rivendicazioni e non pensavano che all’avvento della libertà. Non chiedevano aumenti di salario o indennità (…). Il contagio di punti di vista meschini non aveva fatto presa su di loro, com’è successo fra le persone coinvolte nelle continue lotte rivendicative, isteriche e vendicative” (2). I borghesi sono sempre pronti a tessere le lodi dei proletari quando questi mettono da parte i loro interessi di classe e non cercano “meschinamente” di migliorare la loro sorte, rischiando di mettere in pericolo i sacrosanti profitti capitalistici!

In realtà, la caduta di Mubarak, che era stata preceduta e in un certo senso preparata dagli scioperi del 2008, è stata seguita da una nuova forte ondata di lotte proletarie, malgrado tutte le misure e le campagne antioperaie. Durante l’ondata senza precedenti di lotte operaie del 2008, si stima che il numero degli scioperanti abbia raggiunto i 240 mila (3). Nel febbraio 2011, quando il movimento contro il regime di Mubarak ha raggiunto il punto più alto, vi sarebbero state 489 “azioni collettive” di operai (il numero di partecipanti non è noto) contro solo 42 nel mese di gennaio. Il numero degli scioperanti da marzo ad agosto è stato di circa 400.000, cifra molto importante per un paese come l’Egitto, poco industrializzato e in cui gli scioperi sono stati sempre molto rari. Ma è stato stimato che in settembre il loro numero sia aumentato fino a una cifra compresa fra 500 e 750 mila, più che in tutto l’anno 2008! In questo mese ci sono stati numerosi grandi scioperi che hanno riguardato in alcuni casi tutto il paese, come lo sciopero degli insegnanti (da 250 a 500 mila scioperanti), e 6 altri grandi scioperi che hanno coinvolto circa 160 mila lavoratori, fra cui quelli delle poste, dei trasporti del Cairo, delle raffinerie di zucchero ecc., oltre a una serie di scioperi limitati a una sola fabbrica o amministrazione a cui hanno partecipato in totale alcune decine di migliaia di lavoratori. Anche se non disponiamo di cifre più recenti, il movimento si è mantenuto, o è cresciuto, nel mese di ottobre, nonostante la campagna elettorale per le elezioni di novembre: i lavoratori egiziani non sono ancora stati colpiti dalla funesta abitudine delle tregue elettorali!

Questi movimenti di lotta sono stati diretti o organizzati da nuovi sindacati che si sono appena costituiti ai margini o contro il vecchio sindacato ufficiale, perfino da comitati di sciopero, a volte coordinati a livello regionale come nel caso degli insegnanti del nord del Sinai. Le rivendicazioni più comuni riguardano aumenti salariali (e la creazione di un salario minimo), l’assunzione definitiva dei lavoratori temporanei, il licenziamento di capi particolarmente odiati, il miglioramento delle condizioni di lavoro, seguite da rivendicazioni di natura più riformista come maggiori investimenti statali in questo o quel settore, la rinazionalizzazione di imprese privatizzate negli ultimi anni o il miglioramento del servizio pubblico di Istruzione nazionale; queste ultime riflettono senza dubbio l’influenza reale delle forze borghesi tra i lavoratori (soprattutto in certi settori come ad esempio quello degli insegnanti dove i Fratelli Musulmani sono molto presenti e dirigono il sindacato). Ciò che ha messo e mette realmente in movimento i proletari, sono le rivendicazioni elementari per i loro bisogni immediati di sopravvivenza, dopo anni in cui i salari sono rimasti molto bassi mentre il costo della vita non cessava di aumentare.

 

REPRESSIONE ED ELEZIONI

 

A partire da febbraio 2011 le autorità militari del CSFA si sono date da fare per stroncare le agitazioni recuperando a poco a poco i vecchi metodi repressivi dopo il periodo di vacanza delle forze dell’ordine seguito alla caduta di Mubarak.

E così, ancor prima delle ultime manifestazioni, 12.000 persone erano già state condannate dai tribunali militari grazie alle leggi d’emergenza che sono sempre in vigore; la tortura viene praticata sistematicamente nelle prigioni egiziane e nelle ultime settimane si assisteva di nuovo al sequestro e alla sparizione di militanti conosciuti. Il CSFA non ha esitato neppure a scatenare gli odi interreligiosi. Quando il 9 ottobre, al Cairo, la brutale repressione di una manifestazione di copti (4) ha fatto 27 morti, i media ufficiali hanno accusato i copti di aver attaccato i soldati e hanno chiamato la popolazione a difendere l’esercito contro i cristiani!

Una grossolana manovra del CSFA, alla vigilia delle elezioni, ha messo in pericolo questo processo. Poco avvezzi all’arte sottile dell’uso dell’oppio democratico, i militari hanno decretato, alla metà di novembre, dei “principi sovracostituzionali” che restituivano all’esercito uno statuto particolare che lo pone al di sopra delle istituzioni civili (il parlamento e il governo non avrebbero alcun diritto di intervenire sul budget militare, mentre l’esercito si riserverebbe il diritto di modificare la futura costituzione, di sciogliere il parlamento ecc.).

Per opporsi a questo decreto, il 18 novembre è stata organizzata una giornata di manifestazioni, sostenuta dai partiti islamici che temevano di vedersi rubare la vittoria elettorale, e dai gruppi usciti dalla cosiddetta “rivoluzione” di febbraio, mentre i partiti della sinistra tradizionale, come il Partito Comunista Egiziano, i Socialdemocratici, il Tagammu (di cui faceva parte il PCE, illegale all’epoca di Mubarak, così come i dirigenti del sindacato ufficiale), eterni lecchini del potere, o il Wafd (pseudopartito di opposizione sotto il vecchio regime) si rifiutavano di fare appello alla mobilitazione.

Dopo che decine di migliaia di persone avevano iniziato a manifestare pacificamente al Cairo, l’attacco di una sanguinosa repressione che ha fatto decine di morti fra i manifestanti che volevano rioccupare piazza Tahrir ha dato fuoco alle polveri. L’indomani centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade del Cairo, di Alessandria e di altre città per manifestare la loro rabbia e per gridare la loro opposizione al governo. Ma, dopo i negoziati con i militari e le dimissioni del primo ministro, i Fratelli Musulmani, rassicurati sul fatto che le elezioni tenute non sarebbero state messe in discussione e che il CSFA prometteva di lasciare il potere ai civili nei mesi successivi, il giorno 20 chiedevano ai loro sostenitori di non manifestare più.

Le manifestazioni sono però continuate nei giorni seguenti con la parola d’ordine delle dimissioni di Tantawi (il capo del CSFA che intende candidarsi alle presidenziali), di un governo civile ecc.; né le elezioni del 28 novembre, né la repressione continua (altri 17 morti nelle ultime settimane di dicembre) hanno messo fine a questo movimento di protesta, a dimostrazione del fatto che esso esprime il profondo malessere sociale che esiste nel paese; ma, nonostante l’enorme potenza numerica, questo movimento è condannato all’impotenza dalle insignificanti rivendicazioni politiche, di carattere tipicamente piccoloborghese: democrazia, governo civile di unità nazionale ecc.

Questo l’amaro bilancio: decine di morti, migliaia di arresti perché la “democrazia” trionfi sotto forma di un’alleanza, almeno temporanea, fra militari e Fratelli Musulmani, dando la vittoria elettorale ai partiti religiosi di destra e di estrema destra (5)…

Questa vittoria non significa la fine o l’attenuazione della lotta di classe in Egitto, né la stabilizzazione della situazione politica che ne conseguirà. Il debole capitalismo egiziano non ha i mezzi per dare soddisfazione ai lavoratori, se non in maniera temporanea e limitata; gli è impossibile garantire un impiego all’enorme massa di disoccupati, continuamente alimentata dall’esodo dalle campagne. Può sopravvivere alla concorrenza internazionale solo spremendo al massimo il suo proletariato, solo imponendogli bassi salari e pessime condizioni di vita e di lavoro. Le sue difficoltà economiche e sociali aggravate dalle lotte operaie e dal ritorno di decine di migliaia di lavoratori emigrati alla ricerca di un lavoro in Libano e altrove, dal crollo del turismo, per non parlare di altre ricadute della crisi capitalistica internazionale (diminuzione degli sbocchi dell’industria tessile, calo del traffico nel canale di Suez, riduzione degli investimenti esteri ecc.), non gli lasciano altre scelte. Non vi sono i mezzi, come nei paesi capitalistici più ricchi, di mantenere una serie di ammortizzatori sociali per soffocare le tensioni sociali (e d’altra parte anche questi ultimi non ne hanno più i mezzi!); le sovvenzioni statali affinché i prezzi degli alimenti base non aumentino pericolosamente – elemento fondamentale per evitare l’esplosione sociale – rappresentano già un fardello di cui il governo si vorrebbe sbarazzare al più presto...

Al servizio del capitalismo nazionale, la democrazia egiziana, nata sotto gli auspici più reazionari, non potrà fare altro che continuare la tradizione repressiva e antioperaia del regime precedente.

Dure battaglie attendono quindi i proletari egiziani; per combatterle nelle migliori condizioni occorre che si liberino della cricca interclassista nazional-religiosa e che si organizzino su basi indipendenti di classe. Il primo passo, elementare ma gigantesco, è stato fatto spontaneamente: servendo da esempio ai proletari di tutto il mondo, i proletari egiziani sono entrati coraggiosamente in lotta facendo tremare un regime in apparenza onnipotente; restano ancora molte difficoltà da superare, molte esperienze da accumulare, per battere gli sforzi di coloro che vogliono ricondurli alla loro obbligata docilità di un tempo.

Per quanto riguarda il passo successivo, quello dell’organizzazione in partito di classe per superare l’orizzonte della lotta immediata e intraprendere la lotta contro il capitalismo, potrà essere compiuto solo in stretto legame con i proletari di avanguardia degli altri paesi e, in particolare, con quelli dei paesi capitalistici dominanti, quando questi ultimi avranno rotto i lacci che li paralizzano da decenni.

Per quanto difficile appaia questo cammino, per quanto lontano sembri questo obiettivo, questa prospettiva è oggettivamente aperta dalla crisi capitalistica mondiale, che inesorabilmente mina tutti gli equilibri del periodo precedente. L’avvenire è nella lotta proletaria, in Egitto come ovunque!

 


 

(1)   “Striking back at Egyptian workers”, Merip Reports n. 259 (estate 2011).

(2)   Ibidem.

(3)   Riprendiamo qui i dati forniti da Anne Alexander, Al Ahram (edizione inglese), 16/12/2011; gli stessi sono forniti dall’ONG egiziana Awlad al-Ard, che pubblica regolarmente le statistiche sugli scioperi (ma non sappiamo su quali basi siano calcolate).

(4)   I copti sono una minoranza cristiana, che rappresenta circa il 10% della popolazione e che conta, fra i suoi membri, un’influente frazione della borghesia; e periodicamente fanno da comodi capri espiatori.

(5)   La seconda tornata elettorale ha avuto luogo a metà dicembre nelle province rurali del sud e ha confermato il risultato della prima, in cui i Fratelli Musulmani hanno raccolto più di un terzo dei voti, i Salafiti del partito Nour più di un quarto; venivano poi, molto distanziati, due partiti borghesi: gli “Egiziani Liberi” che, grazie al sostegno di grossi capitalisti, hanno potuto pagarsi una martellante campagna elettorale che ha permesso loro di raggiungere il 15% dei suffragi, e il Wafd, il vecchio partito tradizionale della borghesia, che si appoggia su quanto gli resta della rete clientelare, il 7%. Alla prima tornata la partecipazione era stata solo del 52% degli iscritti alle liste dei votanti, nonostante le insistenti sollecitazioni ad andare a votare: questo significa che la maggioranza dei cittadini ha tenuto in scarsa considerazione “le prime elezioni libere”.

Una terza e ultima tornata avrà luogo in gennaio, poi ci saranno le elezioni al senato; infine, secondo la promessa di Tantawi ai Fratelli Musulmani, le elezioni presidenziali dovrebbero tenersi in giugno e segnare il trasferimento ufficiale del potere politico dai militari ai civili.

Ma , anche se questa promessa sarà rispettata, il peso politico dell’esercito, che è una potenza economica di prim’ordine in Egitto, rimarrà preponderante.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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