Ancora elezioni, ancora illusioni e inganni!

I proletari hanno un’altra strada da scegliere:

rompere con l’inganno democratico e riconquistare il terreno della lotta di classe, aperta, decisa, inconciliabilmente opposta agli interessi di conservazione sociale della classe borghese e dei suoi servitori!

(«il comunista»; N° 125; maggio 2012)

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Si sono tenute in Italia, lo scorso 6-7 maggio le elezioni amministrative con le quali il sistema democratico ha chiamato a raccolta più di 9 milioni di votanti per rinnovare i consigli comunali di 1.014 città italiane (su 8.101 comuni totali), fra cui 28 capoluoghi di provincia. In questa tornata elettorale non vi sono state le grandi metropoli, ma erano presenti comunque città importanti come Palermo, Genova e Verona. La Sicilia è la regione con più comuni sotto elezione (149), seguita dalla Lombardia (126), dalla Campania (90), dal Veneto (86), da Calabria e Piemonte (82) ecc. ecc. Come spesso succede per le elezioni amministrative, esse vengono considerate dai partiti che vi partecipano, come un test indicatore diretto della fiducia, o sfiducia, che gli elettori esprimono verso di loro in vista delle sucvcessive elezioni politiche nazionali. Naturalmente esse rappresentano il primo gradino per inserirsi nel circuito in cui si acquisiscono posizioni di vantaggio personale, politico, economico e di potenziale scambio di favori con i propri sostenitori, siano essi partiti, sindacati, organizzatori sociali e religiosi o, e i casi non sono rari, della “criminalità organizzata”. Cogliamo questa occasione per fare una serie di riflessioni che si scostano un po’ dalla classica critica dell’elezionismo che la corrente di Sinistra comunista ha sempre fatto e che continua a fare. 

In questi tempi, in cui i partiti borghesi hanno mostrato i loro aspetti più triviali – dalla corruzione sistematica alle ruberie a man salva, dall’impotenza genetica a risolvere i problemi immediati della grande maggioranza della popolazione all’arroganza e all’impudenza più brutali, dalla fabbricazione di dossieraggi per colpire concorrenti più o meno scomodi alla collusione con organizzazioni a carattere mafioso – e in cui, arresisi all’incapacità di governare anche solo parzialmente la situazione economica e politica italiana emergente dalla crisi economica e dalla crisi politica che ne è derivata, hanno avuto bisogno di chiamare al governo una squadra di “tecnici” e di “professori” che togliesse le castagne dal fuoco per conto loro, in questi tempi il sistema borghese democratico avrebbe dovuto apparire agli occhi dei proletari come un sistema del tutto inefficace, inefficiente e ingannevole a tale livello da squalificarsi da solo. In effetti, segnali di disgusto della gestione politica attuata da tutti i partiti dell’arco costituzionale, sia a livello centrale che a livello locale, ce ne sono stati diversi: un astensionismo strisciante che va aumentando di anno in anno abbinato a tentativi di “democrazia diretta” con liste civiche e di raggruppamenti sociali nelle forme di “movimenti”, di cui il movimento No-Tav della Val Susa è una delle ultime espressioni, sono segnali in questa direzione che, sebbene non rappresentino una rottura con la democrazia in generale, indicano un disagio sociale crescente e una radicata sfiducia nelle organizzazioni di “partito” esistenti. E’ inevitabile che il disgusto verso il comportamento dei partiti seduti in parlamento si trasferisca anche verso le loro sezioni territoriali, che però possono godere, in una certa misura, di un piccolo vantaggio perché le persone che li rappresentano possono essere conosciute personalmente da chi li vota, e perché l’elezione amministrativa consente di “scegliere” le persone da votare. Con questo trucco, il sistema democratico tenta tutte le volte di salvare il proprio “onore” perché l’elettore – al quale si fa credere che, con la scheda elettorale, abbia in mano l’arma per decidere chi e come dovrà amministrare la comunità di cui fa parte – è chiamato ad esprimere la sua preferenza che, una volta data,  non è più ritirabile se non all’elezione successiva. Nei fatti, questo trucco funziona sempre anche nei confronti delle masse proletarie le quali, pur chiamate di volta in volta, localmente o nazionalmente, a scegliere il personale politico che ha in realtà il compito di difendere l’ordine borghese costituito, come dimostrato da decenni di regime democratico variamente attuato, non hanno in effetti alcun potere per cambiare sostanzialmente e radicalmente le loro condizioni di esistenza da schiavi salariati esposti sempre, ogni minuto di ogni giorno, alla crisi economica e sociale e ai capricci o agli interessi dei loro padroni. Trucco che può saltare e perdere i suoi effetti deleteri solo quando i proletari riconquistano il terreno della lotta di classe sul quale l’antagonismo tra interessi proletari e interessi borghesi non è più facilmente mascherabile con i veli di un sistema democratico che mistifica la realtà dell’oppressione capitalistica. 

Dopo un’intera stagione chiamata “tangentopoli” in cui tutti i partiti borghesi, di destra di centro e di sinistra, si sono riempiti le mani di soldi non solo pubblici – come succede da sempre – ma anche di aziende private in cerca di scorciatoie per accaparrarsi appalti e commesse, la democrazia borghese ebbe un sussulto e, attraverso alcuni magistrati subito indicati come i paladini delle “mani pulite”, osò scoprire il marcio di cui soffrivano tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale, denunciandolo e... condannandolo... In verità la condanna fu molto verbale e ben poco sostanziale, come d’altra parte succede sempre in democrazia quando ad andare sotto mira della magistratura sono i boss politici, i rappresentanti dei famosi “poteri forti”, i faccendieri che hanno agganci e contatti con mille derivazioni politico-finanziarie-mafiose. La vicenda di tangentopoli scoppiò e fece talmente scalpore che qualcuno, per forza, “doveva pagare”, ma nello stesso tempo fu il trampolino di lancio di ben altri personaggi che andarono in parte a sostituire chi ormai si era giocato qualsiasi “credibilità” e in parte a “rinnovare” un personale politico ormai logoro e non più utilizzabile con efficacia nell’opera di un inganno democratico che la classe dominante borghese non smetterà mai di alimentare visto che risulta ancora utile sul piano del consenso sociale. Con qualche arresto, un po’ di processi, qualche condanna e la destrutturazione dei vecchi partiti che ha cancellato almeno formalmente la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista Italiano, il Partito Socialista italiano, il Partito Socialdemocratico, il Partito Repubblicano, il Partito Liberale, il Movimento Sociale Italiano, il sistema democratico si è “rigenerato” grazie all’azione della magistratura, delle vecchie e mai morte nomenclature partitiche, delle mafie e dei poteri finanziari. Al posto dei vecchi partiti usciti dalla seconda guerra mondiale, dalla resistenza antifascista  e rappresentanti di un sistema democratico che assunse l’eredità della politica sociale del fascismo – con i suoi ammortizzatori sociali, con il suo sindacalismo tricolore, col suo collaborazionismo programmatico e pratico e con un pluralismo partitico e parlamentare che doveva apparire come la “svolta” dal totalitarismo fascista alla democrazia costituzionale –, si sono formati nuovi partiti che, presentando necessariamente nuovi volti, non hanno fatto altro che continuare la vecchia politica di sempre: accordi sottobanco, corruzioni di piccolo o grande cabotaggio, spartizione delle poltrone e della gestione dei soldi pubblici a fini privati, favoreggiamento nel campo degli appalti, appropriazione sistematica e personale di risorse pubbliche, assoggettamento della gestione della cosa pubblica alle esigenze delle fazioni capitalistiche più potenti e via così. Il sistema delle tangenti, non potendo più essere contenuto nelle pieghe più o meno nascoste della corruzione e della concussione, generava un “bisogno di pulizia” e il fenomeno dei magistrati del pool di “mani pulite” veniva in soccorso per ridare credibilità alla cosiddetta “classe politica”, diffondendo l’idea che il sistema democratico contenga in sè gli anticorpi in grado di combattere e vincere le malattie che lo colpiscono. Il fatto è che il proletariato, reso inattivo dal punto di vista classista a causa di una costante intossicazione di democrazia, e illuso per decenni di poter utilizzare ai propri fini di classe gli stessi strumenti che usano i borghesi e i loro partiti per spartirsi il potere, ha ancora estrema difficoltà a liberarsi di quella intossicazione e, nonostante la netta percezione che i poteri borghesi centrali e locali difendano i loro interessi a discapito di quelli proletari, continua ad esprimere un “bisogno di democrazia” come l’intossicato da eroina, che sa perfettamente che quella droga lo rende impotente e schiavo dei pusher, continua a cercarla perché non riesce a farne a meno. 

“Tangentopoli” aveva reso di dominio pubblico la corruzione dei partiti parlamentari da parte dei capitalisti privati, così tutti i partiti parlamentari trovarono per se stessi una soluzione “anticorruzione”: il finanziamento pubblico, per legge. Ma contro il finanziamento pubblico si sono levate le proteste di tutti coloro che credono nella democrazia e che concepiscono l’attività dei partiti come un servizio per il “bene comune” e non come un’occasione per accaparrare risorse pubbliche per fini privati; un referendum popolare decretò che il finanziamento pubblico dei partiti cessasse, tanto più che la certezza del finanziamento pubblico aveva come risultato la formazione di una miriade di gruppi politici e partiti, con relative testate giornalistiche finanziate anch’esse, tutti impegnati ad accaparrarsi una quota dei soldi pubblici. I partiti parlamentari trovarono il modo di aggirare l’ostacolo: non più “finanziamento pubblico” direttamente ai partiti in quanto tali, ma “rimborsi elettorali”. Il gioco era fatto: in un paese come il nostro in cui si tengono elezioni spessissimo, i partiti potevano assicurarsi introiti continui grazie a questa voce. Come ogni legge borghese, anche questa ha il suo trucco: il rimborso elettorale non è un vero rimborso, per cui i partiti presentano fatture per le effettive spese sostenute, e verificabili come spese effettivamente “elettorali”, ma è una quota di denaro determinata da un coefficiente legato alla quantità di voti ricevuti, 4 euro per ogni voto. Perciò, soprattutto i grandi partiti, si sono così assicurati un flusso enorme di denaro nelle proprie casse che supera di gran lunga le spese elettorali effettive. La corruzione è così diventata legale, e siccome il denaro chiama denaro, la corruzione chiama corruzione, era inevitabile che il personale politico ai vertici dei partiti e direttamente interessato a maneggiare il denaro se ne intascasse una parte, nelle forme più diverse, e lo distribuisse ad amici e parenti, oliando quegli ingranaggi burocratici che servono per dimostrare il proprio potere e la propria “indispensabilità” ed alimentando, nello stesso tempo, un sostegno elettorale da parte di tutti coloro che direttamente o indirettamente potevano beneficiare in qualche modo dei maneggi politici.

Dalle tangenti versate a questo o quel partito e a personaggi politici di questo o quel partito per ottenere dei vantaggi privati, si è passati ad un sistema di appropriazione diretta di denaro pubblico per tutti i partiti, con buona pace della morale e dell’onestà politica di cui Santa Democrazia continua a vantare il valore ideale.

Le prossime elezioni amministrative, e ancor più le prossime elezioni politiche del 2013, si tengono in un clima generale in cui la corruzione la fa da padrona perchè tocca tutti i partiti. L’ultimo scandalo riguarda la Lega Nord che, con lo slogan “Roma ladrona”, ha sempre accusato il potere centrale come un covo di ladri tartassante gli onesti cittadini, e che in questi ultimi mesi si è scoperta non meno ladrona di Roma, addirittura in casa propria. Ma prima era stato il caso del Partito Democratico con loro dirigenti in Lombardia e in Puglia dove divide lo scandolo con il partito del governatore, Sinistra e Libertà, o del tesoriere della Margherita, ora Futuro e Libertà di Rutelli, Casini e Fini, che si è intascato (solo lui?) diversi milioni di euro dei famosi “rimborsi elettorali”; ed è anche il caso del Pdl, il partito di Berlusconi e Alfano, per cui gli indagati della giunta regionale di Lombardia hanno raggiunto quota 10 mentre il presidente della Regione, Formigoni, continua a dirsi estraneo nonostante nella rete della magistratura siano caduti i suoi più fidati collaboratori e soci di CL. Di fronte agli scandali attuali, in cui ciò che emerge è la ruberia per fini personali, la stagione di “tangentopoli” appare addirittura come qualcosa di più “nobile” perché i denari della corruzione, secondo le indagini della magistratura e l’ammissione da parte degli stessi segretari di partito (famoso è il discorso in parlamento di Craxi in cui ammetteva che tutti i partiti intascavano tangenti), servivano soprattutto per finanziare i partiti e solo una loro piccola parte finiva nelle tasche personali di tizio e di caio. D’altra parte, è normale per i borghesi giustificare la corruzione: l’imprenditore la giustifica perché cerca di ottenere appalti e commesse che altrimenti non otterrebbe, il burocrate la giustifica perché cerca di arrotondare il magro stipendio che percepisce distribuendo favori a pagamento, l’amministratore pubblico la giustifica perché... anche gli altri fanno la stessa cosa per ottenere vantaggi personali, il mafioso non ha bisogno di giustificarla perché l’abbina sempre allo scambio di favori che si trasformano in numero di voti, in prestigio personale quando non in minaccia di rovina e di morte.

Il quadro della corruzione generalizzata non è destinato a chiudersi, mettendo in fibrillazione tutte le segreterie dei partiti che non sanno più quali argomenti usare nella propaganda elettorale. Cerca che ti cerca, hanno trovato un bersaglio: l’antipolitica, ossia quella reazione spontanea da parte dei “cittadini” che, avendo perso fiducia nei partiti e nel personale politico dei partiti, organizzano movimenti orizzontali e trasversali dandosi obiettivi molto parziali ma vicini alla loro vita quotidiana, riassunti in genere nelle cosiddette “liste civiche” che si occupano in modo ossessivo del “proprio territorio”. L’antipolitica viene intesa come un movimento di sfiducia nei confronti di tutti i partiti, non importa come collocati nello spettro politico, e la critica che questi ultimi ne fanno parte dal presupposto che la politica, ossia la gestione della cosa pubblica, è cosa che riguarda soltanto i partiti.

In realtà, la politica borghese non è altro che la difesa degli interessi capitalistici ai diversi livelli e contiene inevitabilmente gli stessi ingredienti del modo di produzione capitalistico. Ciò che muove la produzione capitalistica è la produzione di merci, e le merci si scambiano nel mercato attraverso un fondamentale inganno che consiste nello scambio di “valori equivalenti”; i proprietari dei mezzi di produzione e dei prodotti che escono dai cicli di produzione sono i capitalisti, e le merci che scambiano nel mercato contro denaro contengono un valore (meglio, un plusvalore) che non è scambiato con nessun altro equivalente perché è semplicemente estorto dallo sfruttamento del lavoro salariato nella forma di tempo di lavoro non pagato. Tutta la produzione capitalistica che per finalità ha la produzione e la valorizzazione di capitale, ha la sua ragion d’essere nel sistema di estorsione di plusvalore. Lo scambio tra “equivalenti” è adottato anche nel rapporto tra capitale e lavoro salariato in cui il tempo di lavoro del proletario viene pagato con un salario che non corrisponde mai all’intero tempo di lavoro impiegato effettivamente nella produzione capitalistica, ma soltanto ad una sua parte – quella che corrisponde alla sussistenza quotidiana del proletario affinché ricostituisca la sua forza lavoro – mentre un’altra parte del tempo di lavoro proletario impiegato nella produzione capitalistica non viene pagata ed è essa che rappresenta il vero guadagno del capitalista. L’inganno contenuto nello scambio di “valori equivalenti” nel campo dell’economia si trasferisce nel campo della politica e assume la forma della democrazia elettorale che pretende di assegnare ad ogni voto, che il cittadino è chiamato ad esprimere, lo stesso “valore” al di là dei rapporti di forza vigenti nella società e che vedono la classe borghese, e i suoi rappresentanti, dominatori esclusivi sui piani economico, sociale, politico e militare.

In ambiente borghese, e quindi in ambiente dove comanda la legge di mercato – vince chi vende di più e chi conquista più quote di mercato –, ai prodotti che seguono in generale le regole dettate dalle leggi si affiancano da sempre i prodotti che non si sottopongono a quelle regole e che prendono la scorciatoia della sofisticazione, del contrabbando, della fabbricazione e della distribuzione illegale e, perciò, meno costose alla fonte e generatrici di più facili e veloci guadagni. In una società dove tutto dipende dal denaro e dalla velocità con cui lo si accumula e lo si fa circolare, qualsiasi strada faciliti l’accumulazione e la circolazione del denaro è giustificata; naturalmente l’osservazione delle leggi che la società stessa si è data e si dà risponde al bisogno di una regolamentazione della lotta di concorrenza che, se rispettatata almeno entro certi limiti, porta, almeno in un determinato periodo – cioè fino a quando la concorrenza non costringe i capitalisti a sopraffare anche con la forza i concorrenti – ,dei benefici alla maggioranza dei capitalisti. Ma la legalità borghese non può esistere se non accompagnata dall’illegalità borghese, come non esisterebbe il poliziotto se non ci fosse il ladro o l’assassino e il ladro e l’assassino non esisterebbero se non ci fossero le condizioni sociali che generano sopraffazione, vessazione, oppressione. In una società in cui ogni attività produttiva e distributiva è finalizzata al mercato e quindi alla valorizzazione del capitale, i bisogni della specie umana passano in second’ordine essendo piegati sistematicamente ai bisogni del mercato. I borghesi considerano i bisogni umani come considerano, per le merci, il loro valore d’uso: è il pretesto per giustificare il loro valore di scambio che è invece la vera qualità della merce. La politica borghese non può che basarsi sulla stessa legge di mercato partendo dal rapporto di forza economico e sociale che la classe borghese detiene nella società; la politica borghese nasce e si sviluppa in difesa di un potere economico già esistente e che richiede, da un lato, una sua regolamentazione (le leggi sulla proprietà privata, sull’eredità, sul commercio ecc.) su un territorio che da locale e nazionale si espande poi a livello mondiale e, dall’altro lato, un controllo sulle masse proletarie e diseredate perché continuino ad essere sottomesse alle leggi del capitale e, perciò, ad essere sfruttate in quanto forza lavoro salariata.

La democrazia, che attraverso la rivoluzione borghese ha “liberato” la produzione e il commercio borghesi dalle strettoie e dai vincoli della società feudale e ha “liberato” una massa sempre più grande di braccia da lavoro dalla servitù della gleba, ha rappresentato storicamente e positivamente, sul piano ideologico e politico, una partecipazione delle grandi masse alla vita politica e sociale che prima era negata ma, nello stesso tempo, ha elevato al massimo livello l’inganno intrinseco della “libertà”, della “uguaglianza” e della “fraternità” perché, trasformando il lavoro dei produttori in lavoro salariato, in realtà ha decretato la libertà dei padroni di sfruttare a loro piacimento la forza lavoro proletaria; forza lavoro che viene compensata in denaro col salario (che non corrisponde mai all’effettivo tempo di lavoro dato dal salariato al padrone), imponendo un’uguaglianza del tutto virtuale tra padroni e salariati considerati un tempo uguali di fronte al dio religioso e ora uguali di fronte al dio mercato (siamo tutti “consumatori”), e una fraternità del tutto inesistente tra padroni e salariati, ma utilizzata ideologicamente rispetto alla patria e alla sua difesa in pace e in guerra da aggressioni “straniere”.

Con lo sviluppo del capitalismo, con la sempre più marcata concentrazione capitalistica e l’aumentato potere del capitale finanziario, e con l’inevitabile accrescimento della lotta di concorrenza all’interno dei confini di ogni “patria” e nel mercato mondiale, la democrazia liberale si è sviluppata in democrazia imperialista, come d’altra parte il capitalismo liberale si è sviluppato in capitalismo imperialista, perdendo in questo modo anche gli ultimi rimasugli di un sistema che dava l’idea di riconoscere almeno in parte i diritti delle grandi masse proletarie.

La corruzione e la criminalità diffuse ormai in tutti gli ambiti della vita pubblica borghese rappresentano la caratteristica di fondo di una società che segue il suo processo di putrefazione: una società immersa nella mistificazione mercantile di ogni attività umana e generatrice, da molto tempo, solo di una miseria crescente per le grandi masse proletarie ridotte ad essere a disposizione del casuale impiego lavorativo e, quindi, del casuale sostentamento in vita.

Con quale elezione si sono davvero risolti i problemi di vita delle grandi masse proletarie?

Quale governo borghese, di destra o di sinistra, locale o nazionale, ha dato risposta positiva ai gravi problemi di sopravvivenza che colpiscono masse sempre più numerose di proletari?

La risposta è evidente a tutti: nessuna elezione ha portato al governo, locale o nazionale, forze politiche in grado di prendere misure economiche, politiche e sociali atte a cambiare radicalmente la direzione che la società capitalistica ha storicamente preso date le sue basi economiche fondamentali; il massimo che le masse proletarie hanno  ottenuto, nei paesi a capitalismo avanzato, è di aver migliorato temporaneamente il proprio tenore di vita a condizione di essersi sottoposte ad una oppressione lavorativa e sociale più pesante e di aver condiviso con la propria borghesia, attraverso l’opera del collaborazionismo politico e sindacale, la spoliazione di interi popoli dei paesi meno sviluppati. Si è trattato, sempre, di miglioramenti temporanei che non hanno scalfito la tendenza generale del capitalismo a produrre miseria crescente dalla parte del proletariato e ricchezza crescente dalla parte della borghesia dominante, miglioramenti costantemente rimangiati nei periodi di crisi e in modo tale da rigettare masse di proletari sempre più numerose nella precarietà e nell’insicurezza di vita; Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia sono lì a dimostrarlo con le altissime percentuali di disoccupati e di precari. Per non parlare delle guerre che avrebbero dovuto, secondo la propaganda borghese, scomparire dall’orizzonte della società grazie alla vittoria della democrazia sul totalitarismo nazifascista, e che invece sono state una costante nelle diverse zone del mondo aggravando ancor più le condizioni di sopravvivenza dei popoli colpiti dalle aggressioni dell’uno o dell’altro imperialismo.  

Nemmeno in periodi di boom economico vi sono stati dei cambiamenti significativi nella vita dei proletari: lo sfruttamento sui posti di lavoro è continuato e tendenzialmente è aumentato di intensità, la disoccupazione non è mai sparita, anzi è aumentata, il disagio sociale per strati sempre più numerosi di popolazione non è mai stato superato, i morti, i feriti e gli invalidi a causa di infortuni sul lavoro hanno continuato a cadenzare lo sfruttamento capitalistico, il dispotismo di fabbrica e il dispotismo sociale non sono mai diminuiti, anzi, vanno aumentando nei periodi di crisi economica, mentre il costo della vita sale e i salari e le pensioni diminuiscono sempre più. Un tempo, nei periodi di boom economico, il riformismo sindacale e politico, poggiandosi sulla spinta di lotta delle masse operaie, otteneva qualcosa in più in aggiunta agli ammortizzatori sociali che la borghesia concesse nel dopoguerra, ammortizzatori ereditati dal fascismo vista la loro efficacia nel mantenimento di un sostanziale controllo sociale. Ma come intevenne una crisi economica di grandi proporzioni, ed era il caso del 1973-75, oltretutto di dimensioni mondiali, la classe borghese dominante iniziò un processo di lento ma inesorabile smantellamento del castello di ammortizzatori sociali che aveva consentito fino a quel momento di sfruttare al massimo possibile il proletariato e di tenerlo avvinto, contemporaneamente, ai miti della democrazia e della solidarietà nazionale. Da quegli anni in poi i proletari hanno potuto verificare sulla propria pelle gli effetti del riformismo sindacale e politico e del collaborazionismo interclassista in termini di peggioramento delle loro condizioni di lavoro, di vita e di lotta. Nonostante la dimostrazione continua che il metodo democratico non fa fare un passo avanti al miglioramento sostanziale e duraturo delle condizioni di esistenza delle grandi masse proletarie, le tornate elettorali che la borghesia sforna raccolgono sempre un certo successo tra i proletari, anche se talvolta le percentuali di astensionismo dal voto fanno impensierire i partiti borghesi che temono di perdere pericolosamente il controllo sociale sul proletariato. Ma il successo che il metodo elettorale raccoglie ancora tra i proletari lo si deve all’influenza che il collaborazionismo interclassista ha ancora sulle masse proletarie e che si basa su quel castello di ammortizzatori sociali di cui hanno goduto i proletari della generazione più vecchia e che costituiscono ancora un obiettivo per il quale “lottare”; e si basa, nello stesso tempo, nell’abitudine, costruita ed alimentata dai sindacati e dai partiti opportunisti in decenni di opera riformista e controrivoluzionaria, a ritenere che il mezzo democratico, legalitario, pacifista e sostanzialmente remissivo sia l’unico metodo che il proletariato è in grado di utilizzare per rivendicare una vita meno brutalizzata di quella che è costretto a vivere, l’unico metodo attraverso il quale la massa proletaria, per il numero che la costituisce, può essere ascoltata e soddisfatta nelle sue esigenze quotidiane.

La questione di fondo non è mai una questione culturale, o una questione di “coscienza”: è una questione materiale, e fino a quando la società borghese riesce a distribuire briciole di salario a masse proletarie devitalizzate dal punto di vista classista, il potere borghese non avrà da temere alcun serio sconvolgimento sociale. E, quand’anche si presenti una situazione di gravissima crisi, ad esempio come quella che stanno passando da tre anni i proletari in Grecia, la classe dominante borghese ricorre ai soliti giochi elettorali, lasciando nello stesso tempo spazio – perché le frange più ribelli possano sfogare la propria rabbia – ad organismi o organizzazioni estremiste, soprattutto di destra, che hanno l’oggettivo compito sociale di recuperare forze centrifughe generate dalla situazione di forte tensione sociale e di acute contraddizioni.

 

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L’astensionismo professato dai comunisti rivoluzionari internazionalisti è sempre stata la risposta coerente ad una preparazione politica da parte del partito di classe e da parte del proletariato che mette al centro della lotta operaia la lotta di classe, e al centro dello sviluppo della lotta di classe la conquista rivoluzionaria del potere politico, obiettivo fondamentale per la classe del proletariato che lotta non per rafforzare il sistema economico e politico dello sfruttamento capitalistico, ma per abbatterlo ed emanciparsi finalmente dalla schiavitù del lavoro salariato.

La lunga battaglia contro il riformismo, contro la concezione gradualistica della rivoluzione proletaria, contro l’idea che si possa scardinare il potere borghese conquistando elettoralmente comune dopo comune fino alla maggioranza assoluta in parlamento, non è mai stata una battaglia semplicemente ideologica o morale: era, ed è, parte integrante di una battaglia che deriva direttamente dal programma della rivoluzione proletaria e che, facendo perno sulla lotta di classe del proletariato contro la borghesia, si pone sulla direttrice storica del traguardo finale della lotta di classe portata fino in fondo: l’abbattimento del potere politico borghese e della sua dittatura di classe, anche se ammantata con i veli della democrazia, e l’instaurazione della dittaura proletaria esercitata dal partito proletario di classe come unico mezzo per modificare radicalmente le basi economiche della società borghese. Infatti, fino a quando non si vince la forza politica e militare con cui la borghesia difende le basi economiche della società che le danno il privilegio di dominarla e di continuare a dominarla, opprimendo la stragrande maggioranza della popolazione umana assoggettata alle leggi del capitale, il proletariato continuerà a vivere e a morire nella condizione di schiavo salariato, alla mercé degli alti e bassi del mercato e degli interessi contrapposti dei capitalisti sempre in concorrenza tra di loro. E’ la schiavitù salariale in cui è costretto il proletariato a dimostrare che la borghesia esercita il suo potere attraverso una dittatura di classe, e non ci sarà mai alcuna elezione democratica a cambiare questa realtà.

Vi è stato un tempo in cui poteva sembrare che la combinazione tra lotta di classe e rivoluzionaria e parlamentarismo rivoluzionario, ossia tra lotta aperta e di strada e lotta politica all’interno dell’istituzione parlamentare, potesse accelerare il processo di influenza del partito comunista rivoluzionario sul proletariato, dimostrando che le istituzioni borghesi, e prima fra tutte il parlamento, potevano essere utilizzate a fini di propaganda rivoluzionaria. Era il tempo delle grandi lotte operaie del primo dopoguerra, quando sull’onda della vittoria rivoluzionaria in Russia e al calor bianco della rivoluzione europea attesa e tentata in Germania, in Ungheria, in Italia, la stessa Internazionale Comunista e lo stesso Lenin credevano di poter recuperare il ritardo con cui i partiti rivoluzionari si erano costituiti scindendosi dai partiti socialisti caduti nel collaborazionismo di guerra e di conquistare, per questa via, una influenza decisiva sulle masse proletarie che seguivano ancora i vecchi partiti riformisti. Già allora, la Sinistra comunista d’Italia, che nel gennaio 1921 a Livorno costituì il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista, sulla base della lunga battaglia politica e teorica condotta contro il riformismo operaio e la democrazia borghese, definiva la propria posizione riguardo l’elezionismo e il parlamentarismo con un astensionismo che nulla aveva da dividere con l’astensionismo anarchico o, peggio, qualunquista.

La formula dell’astensionismo comunista, basata sulle lezioni tirate dalla lotta politica di decenni contro il principio e il metodo della democrazia nei paesi capitalisti a lunga tradizione democratica, come erano già allora l’Italia e i paesi dell’Europa Occidentale, rappresentava la tattica antielezionista e antiparlamentarista che metteva al centro della sua azione la preparazione rivoluzionaria del partito e del proletariato, una tattica con la quale il partito rivoluzionario dedicava tutte le sue energie e forze di classe alla sola preparazione rivoluzionaria: il motto “o preparazione elettorale o preparazione rivoluzionaria” sintetizzava perfettamente questa tattica. E tale tattica non riguardava soltanto le elezioni politiche generali, bensì anche le elezioni amministrative locali, perché la lotta contro la democrazia doveva contenere la lotta contro ogni forma di gradualismo, a partire dal municipalismo.

La storia della lotta fra le classi e delle sconfitte della rivoluzione proletaria e comunista ha dimostrato senza ombra di dubbio che tutte le istituzioni borghesi, quindi non solo lo Stato centrale, ma anche tutte le sue derivazioni nazionali e locali, non possono essere utilizzate a fini rivoluzionari. La corruzione democratica della politica e del programma della rivoluzione proletaria si è diffusa nei partiti operai attraverso la tattica elezionista e parlamentare e da questa si è innestata negli stessi criteri organizzativi interni. La tremenda sconfitta della rivoluzione proletaria nei gloriosi anni Venti del secolo scorso ha segnato un vero e proprio indietreggiamento storico della lotta operaia che, da allora, salvo qualche esempio limitato nel tempo e nello spazio, non ha più avuto la forza di riconquistare durevolmente il terreno dell’aperto antagonismo di classe. Non solo i sindacati operai, ma anche i partiti operai, sono stati trascinati così nel pantano della democrazia borghese, invischiando sempre più i proletari in lotte caratterizzate da un immediatismo economico dai risultati effimeri e da un collaborazionismo interclassista sempre più triviale. L’antico “parlamentarismo rivoluzionario” si è trasformato in semplice “parlamentarismo” e poi in un ministerialismo convinto, mentre i sindacati operai, un tempo organismi di classe separati e contrapposti agli apparati dello Stato borghese, diventavano organizzazioni della collaborazione di classe sostenuti e protetti dallo Stato borghese.

Il metodo democratico, se all’epoca della nascita dell’Internazionale Comunista poteva essere considerato un metodo tattico e organizzativo utile, se piegato alle esigenze della lotta di classe, ai fini rivoluzionari, e perciò costituiva per la Sinistra comunista d’Italia un fattore tattico secondario rispetto alla stessa formazione dell’Internazionale Comunista e alla sua più salda compattezza nel cruciale periodo rivoluzionario apertosi con lo scoppio della prima guerra mondiale e con la vittoria della rivoluzione bolscevica in Russia, nell’epoca successiva alla sconfitta rivoluzionaria – dovuta alla forza con cui l’opportunismo, nelle sue più diverse tendenze, si è opposto alle masse proletarie lanciate verso la rivoluzione e ai partiti comunisti rivoluzionari, avendone infine ragione – non aveva più alcuna utilità nemmeno formale.

Da “questione tattica” l’uso del metodo democratico è diventato, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, una “questione di principio”: l’astensionismo comunista da qualsiasi terreno politico elezionista e parlamentare è la risposta tecnica alla “preparazione elettorale”, mentre la risposta politica è la preparazione rivoluzionaria.

Che significa “preparazione rivoluzionaria” per il partito che si dice essere comunista e internazionalista, per il partito rivoluzionario di classe, se la rivoluzione non  è alle porte, e se lo stesso partito di classe non ha influenza decisiva sugli strati più avanzati del proletariato?

Per noi la preparazione rivoluzionaria non è un fatto tecnico, né semplicemente organizzativo, né tantomeno culturale. E’ il lavoro politico di assimilazione teorica e programmatica che l’organizzaazione-partito, anche se a livello embrionale, è tenuta a fare mettendo alla base della sua preparazione la teoria marxista e i risultati dei bilancio storico del movimento comunista internazionale; è, dunque, non semplicemente studio della teoria e delle lezioni storiche tratte dalle sconfitte e dalle vittorie del movimento proletario e comunista, ma assimilazione politica che può avvenire soltanto applicando un metodo di lavoro che risponda coerentemente alle finalità della lotta di classe proletaria e della rivoluzione. Un metodo che la storia stessa del movimento comunista internazionale ha dimostrato non potersi basare su concezioni e opinioni personali, e quindi nemmeno sul confronto e il dibattito di opinioni, e di non potersi basare su criteri individuali e democratici che privilegiano il mito della maggioranza numerica a discapito della coerenza e omogeneità politico-programmatica; di non potersi basare, inoltre, su presunte nuove vie o nuove soluzioni col pretesto delle sconfitte cui è andato incontro il movimento proletario e comunista nei precedenti periodi storici, sconfitte che giustificherebbero l’abbandono della teoria e dei principi del comunismo rivoluzionario così come generati dalla storia della lotta fra le classi a metà dell’Ottocento e che da allora abbiamo l’abitudine di chiamare “marxismo”.

E’ proprio nel bilancio delle sconfitte del movimento proletario e comunista che la Sinistra comunista d’Italia, nel ricostituirsi “partito” nel secondo dopoguerra e, soprattutto, dal 1952 con la fondazione del “partito comunista internazionale-il programma comunista”, ha tratto l’indicazione storica di rigettare per sempre, nei paesi a lunga tradizione democratica, la tattica del parlamentarismo rivoluzionario e dell’elezionismo. La degenerazione dei partiti comunisti che un tempo formavano l’Internazionale Comunista, e la degenerazione stessa dell’Internazionale Comunista, non è stata causata dal personalismo di uno Stalin o dal pugno di ferro che lo stalinismo ha adottato per imporre a tutti i partiti comunisti del mondo la ragion di Stato russa: è stata causata dal cedimento programmatico alle lusinghe della democrazia borghese e dall’espedientismo che progressivamente prese piede in seno all’Internazionale che si poneva l’obiettivo di recuperare il ritardo storico con cui si erano formati i partiti comunisti nell’Europa occidentale, in una situazione obiettivamente rivoluzionaria, utilizzando per l’appunto alcuni espedienti tattici e organizzativi.

Da quel bilancio, che solo il nostro partito di ieri ha avuto la forza e la capacità di fare in virtù delle sue coerenti battaglie di classe condotte in tutto l’arco storico che copre il periodo del grande svolto storico in cui si sono decise le sorti della rivoluzione proletaria in Europa e nel mondo, cioè fino al 1926, da quel bilancio si è ridefinito il programma politico del partito di classe valido internazionalmente (e che si legge su ogni numero del giornale) sulla base di quanto già scritto nel 1921 scolpendo ancor meglio la nostra posizione dopo la seconda guerra mondiale e lo sfascio generale del movimento comunista internazionale. Vi si ribadisce, al punto 2, che “Gli odierni rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese che, qualunque sia la forma del sistema rappresentativo e l’impiego della democrazia elettiva, costituisce l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica”, e, al punto 3, che “Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento senza l’abbattimento violento del potere borghese”; e più avanti, al punto 8, richiamando la posizione del partito di fronte alla situazione del mondo capitalistico dopo la seconda guerra mondiale, si sottolinea che le forme di totalitarismo di governo, unite ai tentativi di massima centralizzazione economica degli apparati produttivi, non sono “tipi nuovi di organizzazione sociale con carattere di transizione fra capitalismo e socialismo, né tantomeno ritorni a regimi politici pre-borghesi”, ma sono invece “precise forme di ancora più diretta ed esclusiva gestione del potere e dello Stato da parte delle forze più sviluppate del capitale”. Ne deriva, perciò,  che “Questo processo esclude le interpretazioni pacifiche evoluzioniste e progressive del devenire del regime borghese e conferma la previsione del concentramento e dello schieramento antagonistico delle forze di classe. Perché possano rafforzarsi e concentrarsi con potenziale corrispondente le energie rivoluzionarie del proletariato, questo deve respingere come sua rivendicazione e mezzo di agitazione il ritorno al liberalismo democratico e la richiesta di garanzie legalitarie, e deve liquidare storicamente il metodo delle alleanze a fini transitori del partito rivoluzionario di classe sia con partiti borghesi e di ceto medio che con partiti pseudo-operai a programma riformistico”.

La preparazione rivoluzionaria del partito che pretende essere di classe, quindi comunista rivoluzionario, non può che partire da questi assunti. Chi critica questa nostra posizione, accusandoci di non essere al passo con i tempi, di essere ancora avvinti al vetero-marxismo, di essere talmente minoritari da scomparire da qualsiasi orizzonte visibile ai proletari, e ci consiglia di rivedere il nostro programma, di “attualizzarlo” e di rinnovarlo dato che dal 1921 sono passati più di novant’anni, in realtà mostra di essere rimasto alla superficie del problema e di essere immerso nell’ideologia borghese e nei suoi miti della continua “novità” da cercare e di una “maggioranza numerica” da raggiungere sulla base di un falso peso dato ad una massa che numericamente è sì maggioranza, ma politicamente impotente per il semplice fatto che si riconosce nei programmi, nei fini e nei metodi del potere borghese invece di rispondere, sulla base di una antagonismo di classe materiale ed esistente nella società, ad un suo programma, a suoi fini, a suoi metodi e mezzi di lotta.

Lottare perciò contro i miti della democrazia borghese, per i comunisti rivoluzionari, è imporante allo stesso modo che lottare con metodi e mezzi di classe in difesa delle condizioni di esistenza proletarie. Prepararsi di lunga mano ad una lotta politica sul terreno dell’antagonismo di classe che investirà inevitabilmente le grandi masse proletarie quando le loro condizioni di esistenza saranno talmente insopportabili da generare rotture verticali nella pace sociale e nella fumosa “coesione nazionale”, è un dovere per un’organizzazione che pretende di diventare domani il potente e compatto partito di classe, influente sul proletariato e guida della sua rivoluzione anticapitalistica.

Tutti i partiti che hanno adottato tattiche non coerenti con i fini rivoluzionari, nonostante giurassero sulla rivoluzione proletaria e sulla conquista del potere politico per avviare l’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato e dal capitale, hanno dimostrato di condurre il proletariato alla sconfitta più dura e di contribuire al rafforzamento, invece, del potere borghese e, quindi, del sistema dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato. La storia ha dimostrato che una delle porte attraverso le quali si insinua la degenerazione dei partiti comunisti è la porta della democrazia, intesa non solo e non tanto come forza ideologica quanto come metodo pratico e tattica politica.

D’altra parte, basta guardare a che cosa serve il parlamento e che cosa fanno effettivamente gli amministratori locali, per rendersi conto che gli edifici della democrazia borghese sono in realtà bastioni di difesa di un potere che si mimetizza sotto le vesti di una democrazia ormai inconsistente e logora, putrefatta da cima a fondo, mantenuta in vita al solo scopo di ingannare e deviare le masse proletarie su terreni sterili e artificiali. Finché funziona come lenta ma inesorabile tossina debilitante le forze proletarie, la borghesia se ne servirà e utilizzerà cospicue risorse sociali per tenerla in vita: alla sua greppia mangeranno frotte di politicanti, faccendieri, mezzani, intermediari di ogni razza, malavitosi e pii uomini di chiesa.

Il fottuto sarà sempre il proletario che avrà creduto, quel giorno, che infilando una scheda di voto in un’urna aveva avuto l’occasione per “modificare” qualcosa a suo vantaggio: in realtà, la maschera democratica non ha avuto e non ha altra funzione che nascondere l’antagonismo sociale che oppone le classi, la borghesia da un lato e il proletariato dall’altro. Finché questa maschera non verrà strappata e il proletariato non comincerà a marciare sul terreno dell’aperta lotta di classe, i fottenti saranno sempre i borghesi e i loro leccapiedi e i fottuti saranno sempre i proletari.

 

 

Partito comunista internazionale

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