La  fame di profitto  all’origine dei naufragi e delle stragi del mare

(«il comunista»; N° 137; Novembre 2014 - Gennaio 2015)

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Sabato 27 dicembre 2014, ore 17.30, dal porto di Patrasso parte il traghetto Norman Atlantic con rotta Igoumenitsa-Ancona. Il traghetto Norman Atlantic, costruito in Italia, di proprietà della Visemar di navigazione ma noleggiato alla società greca Anek Lines, porta passeggeri e automezzi, e parte con ritardo perché imbarca i passeggeri che avrebbero dovuto partire con un’altra nave. Le condizioni meteo previste sono già di forte vento e mare molto mosso, ma la Anek Lines e il comandante Giacomazzi, noto “lupo di mare”, decidono di partire egualmente convinti di precedere la tempesta annunciata.

Sabato 27 dicembre 2014, ore 20.00, porto di Igoumenitsa, nodo cruciale sull’autostrada Egnatia che collega la Grecia con la Turchia, l’Albania e la Bulgaria: il traghetto si riempie oltremisura imbarcando tir, camion, auto e passeggeri. Tra passeggeri e membri dell’equipaggio risulterebbero 478 persone secondo la lista d’imbarco; secondo la lista degli imbarcati le persone sarebbero 458, ma a tre giorni di distanza dal disastro il numero esatto dei passeggeri è ancora ignoto, sembra addirittura che fossero circa 500; di sicuro si sa che l’equipaggio era composto da 56 persone.

Domenica 28 dicembre 2014, in piena notte, verso le ore 4.00, alcuni passeggeri avvertono odore di fumo; a 12 miglia dal porto di Valona, in acque internazionali, a bordo del traghetto Norman Atlantic scoppia un incendio e alle ore 4.47 il comandante Giacomazzi lancia il may day: “Italian coast guard to all ships transiting the Otranto channel Norman Atlantic in distress with fire on board…please divert your course ad give assistance…”.  Nella nave scoppia l’inferno e si diffonde il panico: la gran parte dei passeggeri dormiva e, stando ai racconti di molti naufraghi, l’allarme sarebbe scattato in ritardo; i passeggeri, infatti, avvertita la presenza del fumo, avevano iniziato a svegliarsi gli uni con gli altri, prima dell’allarme ufficiale; sentendo poi la sirena d’allarme vi è stato un fuggi fuggi generale. Le condizioni del mare? Proibitive!, mare forza 8, onde alte dai 3 ai 6 metri, pioggia, vento gelido. Le condizioni della nave? Tragiche, il fuoco, partito dal garage del ponte 4 dove erano ammassati più di cento tir che trasportavano cisterne olio d’oliva e materiali infiammabili, avvolgeva la nave dalla parte in cui erano posizionate le scialuppe e le zattere di salvataggio. Secondo alcuni autotrasportatori, intervistati dalla stampa greca, “i tir erano schiacciati come sardine, ballavano per le onde alte. Facile che una scintilla sia partita da lì”, sfregando magari su tetto del garage o uno contro l’altro!

Dato che il fuoco veniva dal basso, tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio si sono diretti verso il ponte 7, il più alto, sia per sfuggire al fuoco (il pavimento dei ponti sopra il garage, per il calore, scioglieva le scarpe) sia per potersi salvare imbarcandosi nelle scialuppe e nelle zattere. Ma di 2 scialuppe calate a mare, capaci di contenere 150 persone ognuna, una si è rovesciata e l’altra è stata calata in acqua in fretta con una cinquantina di persone; impossibile per il resto dei passeggeri abbandonare la nave se non gettandosi in mare – col rischio di annegare, come è successo ad alcuni. Ai più non restava che attendere sul ponte i soccorsi.

Secondo altre fonti la causa dell’incendio andrebbe cercata anche nella sala macchine, oppure nel fatto che tra i passeggeri non registrati vi erano dei migranti “clandestini” rimasti nascosti nel garage e che, per combattere il freddo, avrebbero acceso un fuoco. Che vi fossero dei migranti nascosti clandestinamente nella nave è certo: questo risulta sia dai racconti di alcuni camionisti che li hanno effettivamente nascosti nei propri automezzi, sia dal controllo di alcuni naufraghi salvati ma privi di documenti. D’altra parte è noto che la rotta Patrasso-Italia è tra le più usate dai “viaggi fantasma della speranza” come vengono chiamati i viaggi via mare tentati dai profughi afghani, pakistani, iracheni e siriani. Dare la colpa ai migranti “clandestini” è la cosa che più piacerebbe ai soliti reazionari a caccia di “ disperati stranieri” da colpevolizzare per ogni disastro… Resta il fatto che il numero dei dispersi non è certo, poiché se il numero totale delle persone registrate all’imbarco, secondo le autorità italiane, è di 478, di cui, al 30 di dicembre, 427 risultano salvati e 11 morti accertati, ne restano ancora 40 da trovare: ma sono davvero solo questi i dispersi?

Se le autorità greche hanno tutto l’interesse a fornire numeri più bassi, per non essere accusate di scarsi controlli all’imbarco, coprendo così, anche se indirettamente, il traffico dei clandestini, le autorità italiane, che hanno avuto l’incarico di dirigere i soccorsi, non fanno certo una figura migliore poiché - pur avendo fatto di tutto per essere incaricate ufficialmente di comandare i soccorsi, assicurando così ad aziende italiane (leggi Compagnia Rimorchiatori Barretta, i “padroni” del porto di Brindisi) i lauti guadagni previsti per ogni operazione di questo tipo, hanno di fatto ritardato di almeno 36 ore l’intervento di soccorso vero e proprio. La Norman Atlantic, infatti, quando è scoppiato l’incendio ed è divenuta completamente ingovernabile, era a 12 miglia dal porto albanese di Valona, a 40 miglia dal porto di Brindisi e a 33 da Otranto. Anche un bambino arriverebbe a pensare che, per i soccorsi, il tragitto di soccorso da scegliere avrebbe dovuto essere quello più corto, cioè verso il porto più vicino: questo avrebbe facilitato il salvataggio in tempi molto più rapidi dei naufraghi, sia di coloro che si erano gettati in mare o che erano caduti in mare, sia di coloro che erano rimasti sul ponte più alto della nave. Ciò dimostra per l’ennesima volta che non è l’interesse per le vite umane, ma sono gli interessi economici a presiedere a qualsiasi attività svolta nella società capitalistica in cui predominano il denaro e gli affari, sia essa un’attività industriale, commerciale, finanziaria, di malaffare o di soccorso!

Lanciato il may day sono ovviamente partiti i soccorsi, sia da parte delle imbarcazioni che già transitavano nelle vicinanze, sia dall’Italia, dall’Albania e dalla Grecia. Le condizioni proibitive del mare sono di per sé un ostacolo alla velocità di intervento dei soccorsi, ma di fronte ad ogni sciagura, terremoti, smottamenti, frane, innondazioni, naufragi che siano, il capitale fa festa e non è la velocità di intervento che viene premiata bensì l’assegnazione dell’incarico, perché questa si traduce in pioggia di denaro per chi “vince” l’appalto!

Domenica 28 dicembre, ore 9 del mattino: l’Italia, stabilito l’accordo con la Grecia, assume il coordinamento delle operazioni di soccorso e di recupero del traghetto, di cui è stato decretato il sequestro, e che dovrà essere rimorchiato in un porto italiano. Il traghetto, che si trovava a 12 miglia dal porto albanese di Valona, era già stato oggetto di alcuni tentativi di aggancio da parte dei rimorchiatori Barretta – partiti dal porto di Brindisi non prima delle 6 del mattino – tentativi però non coronati da successo, mentre un rimorchiatore albanese, l’Adriatic, era riuscito ad agganciarlo ed aveva iniziato ad avviarsi verso il porto di Valona, seguito a poca distanza da tre rimorchiatori di Barretta e da due rimorchiatori greci. Ma, a tre miglia dalla meta, il rimorchiatore albanese riceve l’ordine di rientrare in porto sganciandosi dalla Norman Atlantic perché l’operazione non compete all’Albania, ma all’Italia! Il traghetto non era vuoto, ma vi era ancora ammassata sul ponte più alto e a richio di morte per ipotermia la gran parte dei passeggeri: l’interesse economico italiano “ha vinto” su tutto, il traghetto sarà prima o poi, condizioni del mare permettendo e se non affonda nel tragitto, portato al porto di Brindisi. Si dimostra in questo modo che ciò che stava a cuore soprattutto ai tre paesi coinvolti era mettere le mani sul traghetto, accaparrarsi l’affare del recupero aldilà di quanti passeggeri l’operazione di soccorso sarebbe riuscita a trarre in salvo: nel capitalismo vale di più uno scafo bruciato che 478 vite umane! Lavoro morto contro lavoro vivo!

Sui media italiani molto risalto è stato dato all’azione di soccorso degli elicotteri della marina che hanno dovuto portare in salvo i naufraghi due o quattro per volta dato che le condizioni del mare non permettevano ad altre navi di abbordare la Norman Atlantic per il trasbordo dei passeggeri. Oltretutto la Norman Atlantic non era dotata nemmeno di biscagline. I soccorritori hanno dovuto certamente fare miracoli per organizzare sul ponte del traghetto ancora in fiamme il trasbordo dei passeggeri negli elicotteri, trasformati per l’occasione in “taxi”, e per far rispettare l’ordine di evacuazione (prima bambini, anziani e donne) in una situazione in cui, in diversi casi, le donne sono state travolte e picchiate da uomini che volevano salire per primi sull’elicottero.

Trattati come “eroi”, i soccorritori sono stati usati dai media per stendere un velo sull'accaduto e sul veoe colpevole di questa tragedia: la sete di profitto, per la quale i traghetti vengono rimaneggiati e “ammodernati”, allungati e allargati per contenere più passeggeri e più automezzi al fine di far guadagnare di più la Compagnia per ogni singolo viaggio, alla faccia dei delicati equilibri di stabilità e di tenuta della struttura del naviglio soprattutto in condizioni di mare grosso; sete di profitto per la quale, a fronte di certificazioni cartacee in ordine, risultano sistematici malfunzionamenti, come nel caso della Norman Atlantic per quanto riguarda le porte tagliafuoco, la chiusura stagna di alcune porte, sistemi di emergenza mancanti ed irregolarità nei sistemi salvavita! La prevenzione, come si dimostra sistematicamente in ogni episodio in cui vi sono tragedie che comportano morti e distruzioni, è una voce che, quando esiste, esiste soltanto nelle carte scritte e non è mai la voce più importante. In materia di incendio all’interno delle navi, oltre a quella che viene chiamata “sicurezza attiva”, e cioè getti d’acqua e schiuma antincendio, dovrebbe essere sempre presente la “sicurezza passiva”, ossia “l’attuazione di criteri e l’installazione di strutture in grado di limitare il propagarsi delle fiamme” (“il fatto quotidiano”, 29 dicembre 2014). Nessuna di  queste cose era presente nella Norman Atlantic, e anche se esistevano, come le porte tagliafuoco, funzionavano male…

Sete di profitto di imprese perfettamente legali che si accompagna alla sete di profitto di imprese illegali che si occupano del traffico di uomini che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla repressione, dalla miseria e che rischiano la vita nei famosi “viaggi fantasma della speranza” nei quali il vero fantasma è proprio la speranza di raggiungere una costa sicura.

Come mai al traghetto Norman Atlantic - nonostante l’ispezione della Paris Mou, organizzazione internazionale di safety marittima che riunisce 27 nazioni costiere europee e atlantiche fra cui l’Italia, avesse evidenziato la serie di malfunzionamenti citati sopra - è stato permesso comunque di navigare? Per di più con un carico di automezzi colmi di combustibili in uno spazio molto ristretto? La risposta è facile da trovare: il capitale non può fermarsi, deve circolare, deve correre, deve valorizzarsi, mare calmo o mare grosso che sia, anche a scapito della vita umana! Malfunzionamenti? Sono le stesse autorità ispettive a permettere la navigazione nonostante i malfunzionamenti evidenziati: hanno scritto che entro 14 giorni quei “malfunzionamenti” avrebbero dovuto essere sistemati, mettendo così “a posto la propria coscienza”! Il fatto è che a 9 giorni dall’ispezione, il 28 dicembre, la Norman Atlantic va a fuoco e quei “malfunzionamenti” contribuiscono al disastro!

 

Se poi si allarga la visuale e si cerca di capire come mai succedano così spesso disastri di questo genere, basta ascoltare quel che affermano gli stessi ingegneri navali o le stesse “Autorità”. Che le navi che trasportano passeggeri abbiano un rischio di incendio più elevato di quelle mercantili è cosa risaputa; e i traghetti di linea sono appunto tra i più rischiosi, perciò dovrebbero essere controllati fin dalla loro progettazione molto accuratamente e non dovrebbero prendere il mare se non dopo che ogni pur piccolo malfunzionamento sia stato risolto in modo adeguato; soprattutto non dovrebbero essere “ammodernati”, allungati e allargati e riadattati ad uso completamente diverso da quello per cui erano stati progettati, al solo scopo di contenere più gente e più mezzi (ossia rendere ogni singolo viaggio più redditizio), né dovrebbero avere una vita lunga decenni visto il pesante logoramento cui sono sottoposti. Ma così non è mai stato. La stessa Unione Europea, in un dossier confidential, già 5 anni fa – come riportato da “il fatto quotidiano” del 30 dicembre 2014 – denunciava che la flotta italiana dei traghetti era vecchia, obsoleta e rischiosa: il 45% delle 200 navi traghetto in servizio sulle rotte nazionali (Sardegna, Corsica, Isola d’Elba, Arcipelago toscano, sardo e siciliano) ha più di 20 anni; 30 di queste navi di anni ne hanno 27, mentre 6 ne compiono 30 e ben 23 ne hanno 40. Ma non è solo una questione di età: è che i traghetti, negli anni, “sono stati allungati, accorciati, snaturati”. Ad esempio, il traghetto Moby Rider, con passeggeri a bordo, che si incagliò a dieci metri dal porto di Livorno nell’aprile del 2005, secondo un’indagine più approfondita di altre, risultò essere “nato come rompighiaccio, riadattato, allungato di quaranta metri senza che la timoneria venisse toccata. Lavori autorizzati e, successivamente, timbrati dalle autorità marittime, ma che cambiarono radicalmente la nave fino a comprometterne la stabilità in mare”. Allora ai passeggeri non successe nulla di drammatico, perché il mare era calmo, non faceva freddo, non ci fu incendio e tutti si salvarono. Ma sorti simili toccano a molti traghetti che, nati in un modo, poi cambiano nomi e compagnie, finiscono nuovamente nei cantieri per subire variazioni, magari vengono allargati “solo” di due metri, come il Moby Vincent, nave che quindi non è più “quella costruita” in origine e “due metri, in tema di navigazione, sono molti”. Per non parlare della Moby Prince che, il 10 aprile del 1991, lasciato il porto di Livorno, destinazione Olbia, in una sera di mare calmo ma di fitta nebbia, cambiando rotta – e non si è mai saputo perché, ma si sa che quella sera la mappa delle rotte in entrata e uscita dal porto di Livorno fu sconvolta perché delle navi americane stavano caricando armi – finì per centrare la petroliera Agip Abruzzo. La Moby Prince prese fuoco, 140 passeggeri morirono in pochi minuti arsi vivi. E il “mistero” di come mai questo traghetto cambiò rotta e finì contro la petroliera, incendiandosi, e come mai i passeggeri furono raccolti tutti nel salone dove morirono, non fu mai risolto perché, di fatto, non si volle andare a fondo. La potenza economica e politica della Navarma (cioè della famiglia Onorato) proprietaria della flotta Moby, unita al fatto che quella sera le navi americane hanno sbrigato le loro faccende senza avvisare le autorità portuali (ma questo fa parte degli “accordi internazionali”), contribuendo a deviare tutte le rotte di un porto molto trafficato, e la strana scomparsa dai radar della Moby Prince, hanno comportato ulteriori fattori di rischio a quelli già normalmente presenti che abbiamo sopra brevemente ricordato.

Ma gli incidenti mortali in mare non sono finiti. La stessa domenica 28 dicembre, alle ore 8.40, mentre la Norman Atlantic  andava a fuoco, nello stesso mare Adriatico, più a nord, di fronte a Marina di Ravenna, a 3 miglia di distanza, due mercantili si scontrano: 2 morti, 4 dispersi, 5 superstiti. Le due navi mercantili, la turca Gokbel e la Lady Aziza del Belize, si scontrano mentre stanno facendo manovra per  entrare ed uscire dal porto di Ravenna; la Gokbel doveva scaricare fertilizzante alla stessa banchina che la Lady Aziza aveva appena lasciato. Le condizioni meteorologiche erano micidiali: nevischio, nebbia generata dalla temperatura del mare più calda di quella dell’aria, pioggia, raffiche di vento gelido che gonfiano il mare; forse, queste condizioni da “tempesta perfetta”, possono aver reso difficile la lettura via radar. Fatto sta che le due navi si sono scontrate: la Gokbel affonda, la Lady Aziza riesce a rientrare con i propri mezzi in porto. Non si sa ancora quale delle due si sia scontrata con l’altra, ma ancora una volta il problema non è limitato semplicemente a strumentazioni non in grado di svolgere la loro funzione anche in condizioni particolarmente difficili di mare; il problema vero è il tempo, le ore che passano: ogni ora che un mercantile passa in banchina per scaricare o caricare le merci ha un costo, e i costi devono essere sempre più contenuti. La banchina deve essere lasciata libera al più presto possibile perché c’è un’altra nave, in questo caso la Gokbel, che deve ormeggiare per scaricare i suoi fertilizzanti: non si può perdere tempo!, il tempo è denaro! Le famiglie dei due morti e dei cinque dispersi sanno chi ringraziare: le avverse condizioni meteo? Troppo facile dare la colpa al tempo!

Certo, c’entrano anche le condizioni meteo, ma il responsabile principale non è il dio del vento o della tempesta, è il dio denaro al quale ogni capitalista non si fa alcuno scrupolo di sacrificare vite umane!

 

Viviamo in una società in cui una sciagura rincorre l’altra, senza soluzione di continuità. Il capitalismo è la società delle sciagure, è la società che sopravvive provocando disgrazie e tragedie sulle quali, perdipiù, guadagna, a scapito della vita degli esseri umani. Per mettere fine alle stragi nel mare, nei cieli e sulla crosta terrestre, bisogna porre fine al capitalismo che è la principale causa di tutte le sciagure e le catastrofi che i media di tutto il mondo non fanno che documentare e sulle quali, immancabilmente, guadagnano pure loro.

 

(Notizie ricavate da “Corriere della sera”,  “il fatto quotidiano”, i tg Rai1e Rai2, 28-31 dicembre 2014)

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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