La grande bestemmia del «socialismo in un solo paese»(pubblicato ne «il programma comunista», nn. 14 e 15 del 1968)

(«il comunista»; N° 139;  Giugno 2015)

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In questo articolo si svolge in modo succinto, ma molto chiaro, la dimostrazione di come lo stalinismo abbia falsato il marxismo fin nel cuore della sua dottrina e di come i comunisti rivoluzionari combattono contro questo genere di attacchi alla teoria marxista. La ripresa continua dei punti teorici che strutturano la dottrina marxista, la difesa dei loro inscindibili nessi dialettici, costituiscono il più efficace contrattacco. E' d'altra parte il metodo utilizzato fin dall'inizio dagli stessi Marx ed Engels contro ogni dottrina idealistica e controrivoluzionaria, e da Lenin, Trotsky, Zinoviev, Kamenev, Bordiga ogni volta che un punto fondamentale della teoria marxista veniva messo in discussione o stravolto.

 

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Quando era ancora in vita Stalin, la vicinanza di quel grande vento che fu la Rivoluzione di Ottobre e delle implacabili polemiche che ad essa seguirono, l’erompere delle nuove forze produttive che l’insurrezione aveva liberate, la sconfitta del moto comunista nel cuore dell’Europa, lo sterminio della vecchia guardia bolscevica operato dagli stalinisti , conservavano in vita e prolungavano la polemica sul socialismo in un singolo Stato; allora, essere pro o contro Stalin significava essere pro o contro la teoria del socialismo in un solo paese che in Stalin aveva trovato il più convinto banditore. Il discorso che ne seguiva aveva, se non altro, il pregio di vagliare argomenti di carattere economico e di evitare a noi marxisti il contatto col frasario idealistico ed esistenzialistico di cui si è andato successivamente «arricchendo» il vocabolario dei partiti legati a Mosca.

Molti ricordano un articolo del povero onorevole Alicata, apparso su l’Unità pochi giorni prima della sua morte, in cui le parole «angoscia», «scelta», «responsabilità», facevano bella msotra di sé nella più pura accezione esistenzialistica; né hanno dimenticato che uno degli importanti necrologi dell’onorevole Togliatti fu dovuto alla penna di Jean Paul Sartre.

Non saremo noi marxisti a legare al fenomeno biologico della vita e della morte di un individuo la genesi di formidabili eventi storici che interessano e determinano la vita dell’intera umanità, e volentieri lasciamo ai nostri avversari il compito di trarre le strampalate conclusioni che derivano da tali pazzesche premesse; piuttosto possiamo tentar di leggere nella realtà dei rapporti di produzione quello che il maleodorante linguaggio dei nostri nemici volentieri mistifica e nasconde.

Risale al 1952 la pubblicazione in Italia di un opuscolo di Stalin in cui erano riuniti articoli sulla linguistica stampati nel maggio del 1950 in occasione di una discussione aperta con alcuni cittadini sovietici. Di un tale opuscolo si occupava il nostro Partito nel Dialogato coi morti, oltre dieci anni fa, e prevedeva che sarebbe stato «tolto di sacristia» sebbene filisteamente vi si affermasse che la lingua madre non è una sovrastruttura ma piuttosto una «base» comune a molti uomini e destinata a permanere sovrana al disopra del «mutare delle forme di produzione e dei rapporti di classe». Ancora oggi questo libro ha per noi il pregio di riassumere una parte degli errori teorici dello stalinismo denunciandone la chiara matrice idealistica, ed implica un riconoscimento che ci torna gradito.

 

COSÌ DISSE STALIN

 

In data 28 luglio 1950, Stalin, polemizzando con un tale Kholopov – che evidentemenete aveva il torto di non persarla come lui e di citare Marx a sostegno della propria tesi – scrive:

«Ho ricevuto la vostra lettera. Vi rispondo con un certo ritardo perché sovraccarico di lavoro. La vostra lettera procede, implicitamente, da due premesse: dalla premessa che sia ammissibile citare le opere di un autore staccandolo dal periodo storico a cui si riferisce la citazione e, in secondo luogo, dalla premessa che questa o quella conclusione o formula del marxismo, a cui si sia giunti avendo studiato uno dei periodi dello sviluppo storico, siano giuste per tutti i periodi di sviluppo e quindi debbano rimanere immutabili.

«Debbo dire che entrambe queste premesse sono profondamente errate. Ecco alcuni esempi:

«I – Nel quarto decennio del secolo scorso, quando non esisteva ancora il capitalismo monopolistico, quando il capitalismo si sviluppava in modo più o meno regolare secondo una linea ascendente, estendendosi a nuovi territori non ancora da esso conquistati, e la legge dell’ineguale sviluppo non poteva ancora operare con tutta la sua forza, Marx ed Engels giunsero alla conclusione che la rivoluzione socialista non poteva vincere in un Paese soltanto, che essa poteva vincere solo in seguito a una azione generale in tutti o nella maggior parte dei Paesi civili. Questa conclusione divenne allora norma direttiva per tutti i marxisti.

«Tuttavia, all’inizio del XX secolo, specialmente nel periodo della prima guerra mondiale, quando si rivelò evidente per tutti che il capitalismo premonopolistico si era chiaramente trasformato in capitalismo monopolistico, quando il capitalismo in ascesa era divenuto capitalismo morente, quando la guerra mise in luce le debolezze insanabili del fronte mondiale dell’imperialsimo, mentre la legge dell’ineguale sviluppo determinava la maturazione della rivoluzione proletaria nei differenti Paesi in epoche diverse, Lenin, partendo dalla dottrina marxista, giunse alla conclusione che, nelle nuove condizioni di sviluppo, la rivoluzione socialista poteva benissimo vincere in un singolo determinato Paese, che la simultanea vittoria della rivoluzione socialista in tutti i Paesi civili era impossibile in considerazione dell’ineguale maturazione della rivoluzione in questi Paesi, che l’antica formula di Marx ed Engels non corrispondeva più alle nuove condizioni storiche».

Fin qui il discorso di Stalin; e a noi interessa subito ammettere che ci torna gradito, per bocca del banditore della teoria buchariniana del «socialismo in un solo Paese», il riconoscimento che né Marx né Engels ammisero mai che il socialismo potesse trionfare e durare in un Paese soltanto; ma dobbiamo aggiungere subito che è pazzesco attribuire a Lenin la conclusione opposta.

Come tutti i socialdemocratici, come tutti i riformisti, Stalin mira a «storicizzare» il pensiero di Marx, cioèa vincolarlo a un determinato periodo storico, fuori del quale esso è privo di validità e risonanza storica. Secondo le sue testuali parole è errato ritenere che questa o quella formula del marxismo, cui si sia giunti studiando «uno dei periodi dello sviluppo storico», sia valida per tutti i periodi di sviluppo e «quindi debba rimanere immutabile». In tal modo, egli non si accorge di uccidere il marxismo privandolo dell’oggetto medesimo della sua ricerca. Se infatti è vero che non è la coscienza dell’uomo a determinare il suo essere sociale, ma è l’essere sociale a determinare la coscienza, è conseguentemente vero che lo studio dei rapporti di produzione è possibile solo in quanto essi rappresentano la sola, l’autentica forza capace di determinare la storia del genere umano. Seguendo alla lettera il discorso di Stalin, si finisce per ammetere che né Marx né Engels potevano prevedere l’intero arco di sviluppo del capitalismo semplicemente perché c’è sempre qualcosa di nuovo, un quid, un imponderabile, che opera in modo da rendere errato oggi ciò che ieri poteva dirsi giusto.

Nella seconda metà dell’Ottocento Marx non riusciva a prevedere quanto sarebbe accaduto verso i primi del Novecento; intendeva sì lo svolgimento del capitalismo «premonopolistico», ma non riusciva al suo sguardo di abbracciare l’intero arco di sviluppo del capitalismo monopolistico; in sostanza, gli sfuggiva la legge dell’ineguale sviluppo delle economie dei singoli Paesi!!!

C’è da rimanere allibiti di fronte a simili argomenti; ma in fondo, se leggiamo un qualsiasi scritto sociologico dei nostri avversari, ci accorgiamo che essi – si chiamino Don Sturzo o Saragat, Mussolini o Stalin – non cessano di battere lo stesso tasto: i marxisti sono dei dogmatici, dei talmudici che «citano formalmente» alcuni testi «senza tener conto delle condizioni storiche» in cui nacquero. Solo che Stalin, dopo di aver osato affermare ciò, sostiene anche di essere un discepolo di Marx, e si comporta come un prete il quale, dopo di aver negato la veridicità delle Scritture, pretenda di dir messa, sicché ci si trova dinanzi a uno che celebra ma non si sa che cosa cavolo stia celebrando.

 

COSÌ DISSE MARX

 

E tuttavia Stalin ha, ai nostri occhi, il merito di richiamare – pur fra falsificazioni orrende – l’attenzione sui testi di Marx, di Engels e di Lenin, in questo distinguendosi dai suoi pentiti epigoni che organizzano dibattiti intorno ad una allocuzione del papa, che citano Sartre e Camus, che vivono di «auspici» e «afflati» universali.

In quale libro Marx ha negato (lasciamo da parte la favola che egli abbia ignorato il capitalismo monopolistico) la possibilità della realizzazione del Socialismo in un singolo Paese? Una tale domanda può ammettere una sola risposta. Marx ha negato questa possibilità in tutta la sua opera. Ciononostante a noi preme citare qui soltanto alcuni brani della Ideologia tedesca, non foss’altro perché essi sono stati accompagnati in Italia da una nota del commentatore piccistia degli Editori Riuniti che per noi riveste una particolare importanza.

Nel II capitolo della citata opera e più precisamente nel paragrafo intitolato «Storia», Marx ed Engels si occupano del problema della estraniazione. «Questa estraniazione – essi scrivono – per usare un termine comprensivo ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere ‘insostenibile’, cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto ‘priva di proprietà’ e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizza soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali tra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa ‘priva di proprietà’ contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali. Senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste ‘circostanze’ relegate nella superstizione domestica, 3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale. Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominati [*] tutti ‘in una volta’, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica».

Qui termina lo squarcio di Marx ed Engels. Da esso è possibile enucleare alcune idee-guida che rivestono un’importanza incalcolabile. Per i due autori, lo sviluppo delle forze produttive implica il trasferimento della esistenza empirica degli uomini dal piano locale al più vasto contesto della storia universale. Senza di esso solo la miseria potrebbe essere generalizzata, e quindi il bisogno preluderebbe a un ritorno allo sfruttamento e alla divisione in classi. Inoltre, con l’incremento delle possibilità produttive, si genera una interdipendenza nella vita dei vari popoli di guisa che ciascuno di essi dipende dalle rivoluzioni degli altri. Senza lo sviluppo delle forze di produzione il comunismo potrebbe esistere solo sul piano locale, ma la sua esistenza si svolgerebbe all’insegna della precarietà poiché lo sviluppo delle relazioni economiche internazionali finirebbe col sopprimerla.

Passare da queste deduzioni alla considerazione di quanto è avvenuto nell’Unione Sovietica è del tutto spontaneo. Anche lì le ragioni internazionali dello scambio si sono rivelate più «talmudiche» di quanto Stalin sperasse e hanno proceduto alla piena instaurazione del capitalismo. Marx e con lui Engels osservano che il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominati tutti in una volta; a distanza di 50 anni l’Ottobre non ha avuto proseguimenti nel cuore dell’Europa e nei restanti Paesi «civili», e l’operaio sovietico, come il suo compagno dell’era zarista, «non si afferma nel suo lavoro, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito» (Marx). In poche parole, continua ad essere uno sfruttato, uno schiavo del capitale e del salario: «tutta la vecchia merda» è per forza ricominciata.

 

E VENIAMO A LENIN

 

Orbene, al mirabile squarcio di Marx il commentatore piccista fa seguire la nota che segue: «La possibilità della rivoluzione comunista in un solo paese era decisamente esclusa anche da Engels nei suoi principi del comunismo (1847). L’avviso contrario fu poi espresso da Lenin, in considerazione della legge dell’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico del capitalismo, per la prima volta nello scritto Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa» (1915). E così, bellamente, la responsabilità della teoria del socialismo in un solo paese viene fatta risalire a... Nicola Lenin morto il 21-1-1924, oltre due anni prima della svolta del 1926. Come abbiamo scritto nel Dialogato coi morti, spettò invece a Bucharin e a Stalin il compito storico di avallare la suicida ipotesi che restando passivo il proletariato internazionale e attivi gli Stati capitalisti «si poteva in Russia, conservando il potere, attuare la trasformazione dell’economia in sistema socialista». Trotsky, Zinoviev e Kamenev, proprio sulla scorta di Marx e di Lenin, affermarono che se è vero che il capitalismo si sviluppa nel mondo con ritmi diversi, è altrettanto vero che la forza politica e rivoluzionaria del proletariato deve avere uno sviluppo analogo. Per questo la conquista del potere, ma non (lo si noti bene!) la realizzazione del comunismo, può avvenire anche in un singolo Paese, per di più scarsamente sviluppato. Un tale fattore – cioè la presenza nel mondo di Stati in cui il proletariato ha conquistato il potere – accelera la lotta rivoluzionaria negli altri e genera la possibilità di interventi difensivi e offensivi dei Paesi proletari a favore di Paesi in rivolta nella fase cruciale della lotta.

Ma quando la lotta di classe internazionale attraversa un periodo di stasi, i singoli Stati in cui il proletariato ha vinto possono solo muovere i passi che lo sviluppo economico consente «nella direzione» del socialismo. Se dovesse trattarsi di Paesi fortemente progrediti, prima della piena trasformazione economica del sistema in senso socialistico (non impossibile in dottrina) scoppierebbe la guerra civile e statale mondiale. Nel caso invece di un Paese appena uscito dalle strettoie del feudalesimo morente, come la Russia, la vittoria proletaria non potrebbe far altro che realizzare le basi del socialismo procedendo alla rapida industrializzazione delle regioni, e definendo il suo programma come attesa e incoraggiamento della rivoluzione all’estero e come costruzione economica del capitalismo mercantile di stato all’interno, ben sapendo che la guerra civile e statale mondiale non cesserebbe mai di essere in agguato.

SENZA LA RIVOLUZIONE MONDIALE, IN RUSSIA IL SOCIALISMO ERA ED E’ IMPOSSIBILE.

Così o pressapoco il nostro Partito scrisse, oltre 10 anni fa, ed oggi come ieri ribadisce una diagnosi che si annuncia con Marx ed Engels prima, e poi con Lenin, Trotsky, Zinoviev, Kamenev ed altri. Eppure c’è chi osa attribuire a Lenin opinioni del tutto contrarie; «l’ingiuria» è grave e ci obbliga a un’analisi dettagliata.

Sulla parola degli Stati Uniti d’Europa è uno scritto di Lenin apparso sul Sozial-Demokrat del 23 agosto 1915, in seguito ad una conferenza tenuta a Berna dal 27 febbraio al 4 marzo a cui aveva partecipato lo stesso Lenin svolgendovi una relazione sul punto fondamentale dell’ordine del giorno che riguarda la guerra e i compiti del partito. In esso, l’autore, dopo aver notato che le sezioni estere del partito avevano deliberato di soprassedere alla discussione sulla parola d’ordine «Stati Uniti d’Europa» finché la stampa non avesse sviluppato il lato economico della questione, osservava che «opporsi entro i limiti degli apprezzamenti politici di questa parola d’ordine a tale impostazione della questione mettendosi, per esempio, dal punto di vista che essa offusca o indebolisce ecc. la parola d’ordine della rivoluzione socialista, sarebbe assolutamente errato. Le trasformazioni politiche con tendenze effettivamente democratiche e ancor più le rivoluzioni politiche, non possono in nessun caso, mai, e a nessuna condizione, né offuscare né indebolire la parola d’ordine della rivoluzione socialista». E continuava: «Ma se la parola d’ordine degli Stati Uniti repubblicani d’Europa, collegata all’abbattimento delle tre monarchie europee più reazionarie, con la monarchia russa alla testa, è assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica, rimane pur sempre da risolvere l’importantissima questione del suo contenuto e significato economico. Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia della esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali ‘progredite’ e ‘civili’, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari».

Lenin, in sostanza, ribadisce che né le trasformazioni né le rivoluzioni politiche democratiche possono offuscare al parola d’ordine della rivoluzione socialista, e aggiunge che se, dal punto di vista politico, l’unione dell’Europa può significare il positivo evento dell’abbattimento delle più retrive monarchie, dal punto di vista economico essa non può costituire che un fenomeno impossibile o apertamente reazionario. Quindi rileva:

«Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. Il mondo è diviso fra un piccolo numero di grandi potenze, vale a dire fra le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala altre nazioni». Più oltre, mettendo in luce le vere ragioni dell’imperialismo, Lenin scrive: «Inoltre l’Inghilterra, la Francia e la Germania hanno investito all’estero non meno di 70 miliardi di rubli di capitale. Per ricevere un profitto ‘legale’ da questa bella somma – un profitto di più di 3 miliardi di rubli all’anno – esistono dei comitati nazionali di milionari, chiamati governi, provvisti di eserciti e di flotte da guerra, i quali ‘installano’ nelle colonie e semicolonie i figli e i fratelli del ‘signor miliardo’, in qualità di vicerè, consoli, ambasciatori, funzionari di ogni sorta, preti e simili sanguisughe».

Con queste parole, Lenin non fa che anticipare la tesi marxista che di lì a un anno esporrà ne L’imperialismo; quindi osserva che «nessun’altra forma di organizzazione è possibile in regime capitalistico. Rinunciare alle colonie, alle ‘sfere d’influenza’, all’esportazione di capitali? Pensare questo, significherebbe mettersi al livello del pretonzolo che ogni domenica predica ai ricchi la grandezza del cristianesimo e consiglia di fare dono ai poveri... se non di qualche miliardo, almeno di qualche centinaio di rubli all’anno».

A questo punto, il nostro pensiero vola ai piccisti nostrani e ai loro confratelli sparsi nel mondo i quali, simili a tanti pretonzoli, predicano la rinuncia e il pacifismo alle varie potenze capitalistiche, per poi dirsi seguaci non del papa ma di un Marx e di un Lenin. Ma da essi Lenin si distingue ancora scrivendo:

«In regime capitalistico, gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie. Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza... Predicare una ‘giusta’ divisione del reddito su tale base è proudhonismo, ignoranza piccoloborghese, filisteismo». E il nostro pensiero torna, con monotonia preoccupante, ai piccisti i quali vanno implorando che in Italia i profitti e l’accumulazione del capitale si formino in modo da andare più a vantaggio della collettività e meno a vantaggio dei privati!

Per Lenin, comunque, gli Stati Uniti d’Europa sono possibili, ma perché? «Fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono possibili anche gli Stati Uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa».

Per somma ironia, proprio in questi giorni (vedi l’Unità del 6-7-1968), la delegazione del PCUS in Italia invita «tutti i governi europei a partecipare ad una conferenza paneuropea dalla quale potrebbero scaturire proposte per trasformare l’Europa in un continente di pace duratura e di collaborazione dei popoli». Due bestemmie in una volta: 1) farsi promotori di una Paneuropa con paesi capitalisti (noi diremmo: fra paesi capitalisti, perché tale è anche l’URSS; ma lasciamo all’avversario la sua arma per combatterlo con essa); 2) ammettere e predicare la possibilità di una pace, per giunta duratura, rimanendo in vigore il regime capitalista. E costoro si dicono... leninisti!

In che senso, allora, i marxisti sono per «l’unificazione dei vari paesi»? Risponde ancora Lenin:

«Gli Stati Uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la vittoria completa del comunismo non porterà alla sparizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici. La parola d’ordine degli Stati Uniti del mondo, come parola d’ordine indipendente, non sarebbe forse giusta, innazitutto perché essa coincide con il socialismo; in secondo luogo perché potrebbe ingenerare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri».

 

LE CONDIZIONI DEL SOCIALISMO

 

Eccole, finalmente, le attese parole; ma che cosa significano? Lenin lo spiega chiaramente: La forma statale di unione e di libertà delle nazioni è rappresentata dagli Stati uniti del mondo (e non solo europei!); ma essa è inconcepibile fuori di un regime socialista, un regime cioè che preluda al comunismo e alla scomparsa di qualsiasi Stato. Ora le condizioni materiali per l’instaurazione di un regime socialista sono presenti – come Lenin dice più avanti – solo nei paesi capitalistici (e la Russia non lo era). In essi, non solo è possibile la vittoria politica della presa del potere da parte del proletariato, ma è possibile anche l’avvio di una trasformazione economica in senso socialista, non però ancora in senso comunista.

D’altra parte, Lenin delimita i rapporti che il Paese in cui la Rivoluzione socialista è riuscita politicamente vittoriosa, deve instaurare con gli altri: «L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attirando a sé le classi oppresse degli altri Paesi, spingendole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo in caso di necessità anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati... Impossibile è la soppressione delle classi senza la dittatura della classe oppressa, del proletariato. Impossibile la libera unione delle nazioni nel socialismo senza una lotta ostinata, più o meno lunga, fra le repubbliche socialiste e gli Stati arretrati» (cioè capitalisti).

Non ci vuol molto a constatare che tra le indicazioni di Lenin, a loro volta perfettamente collimanti con quelle di Marx ed Engels, e la poliitca dello stalinismo, corre un baratro.

Anzitutto, in Russia era possibile la vittoria politica socialista, ma non l’organizzazione anche solo embrionale di una economia socialista (negli stessi anni 1914-1915, come all’epoca della NEP, Lenin indicherà per l’area russa il compito di «portare la rivoluzione borghese fino in fondo»); in secondo luogo, Lenin preannunzia e predica l’attacco del paese socialista vittorioso (anche solo sul piano politico) «contro il resto del mondo capitalista»; Stalin invece predicherà l’accordo prima, la pacifica coesistenza per questo stesso mondo poi, per la Russia e per tutti i paesi.

Lenin fu e resta uno dei più ortodossi discepoli di Marx. Tra lui e il maestro non si apre alcune discordanza in dottrina; sia lui che il maestro negano la possibilità che il comunismo possa sorgere in un solo Paese; né lui né il maestro negano che la rivoluzione socialista possa iniziarsi, in un primo momento, in un gruppo di nazioni o anche in un singolo Stato: politicamente dovunque, economicamente negli Stati capitalisti. Il passaggio poi al comunismo implica l’eliminazione degli Stati. Stalin, invece, la pensa anche qui in maniera del tutto diversa. Nei suoi Principi del leninismo, dopo di aver superficialmente definito «assolutamente nuovo» lo Stato sovietico, egli trova il coraggio di scrivere: «Ma lo sviluppo non può arrestarsi qui. Noi proseguiamo il cammino, andiamo avanti, verso il comunismo. Si conserverà da noi lo Stato anche in periodo di comunismo? Sì, si conserverà, se non verrà liquidato l’accerchiamento capitalistico [ma allora non potrà parlarsi di «comunismo», NdR], se non sarà eliminato il pericolo di aggressioni armate dall’esterno. Del resto si comprende che le forme del nostro Stato saranno nuovamente modificate, conformemente ai cambiamenti sopravvenuti nella situazione interna ed esterna. No, non si conserverà e si estinguerà, se l’accerchiamento capitalistico sarà liquidato, se sarà sostituito da un accerchiamento socialista».

Ora finalmente le cose appaiono chiare: per la prima volta nella storia della letteratura sedicente marxista uno scrittore ha ammesso la possibilità del sorgere e del perdurare del comunismo in un solo Paese, per giunta economicamente arretrato, e del perdurare quindi in esso dello Stato; e questo scrittore si chiama Giuseppe Stalin. Ne segue che, quando i nostri avversari parlano di marxismo-leninismo, non lo fanno per indicare la perfetta conformità di due analisi storico-economiche ma per designare, ipocritamente, in Lenin una specie di riformatore o aggiornatore del marxismo. Per essi, dire "marxismo-leninismo" non è la stessa cosa che dire "marxismo=marxismo", poiché per loro la espressione sta nel senso di marxismo più qualche cosa di nuovo. Ma questo nuovo non ci viene da Lenin bensì da Stalin e comporta il totale rovesciamento della teoria di Marx. Questi, nella XI tesi su Feuerbach, aveva scritto: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo». Stalin e i suoi seguaci e successori lo interpretano in un modo ogni giorno diverso, e hanno ormai deciso di non mutarlo per omnia saecula saeculorum. Per loro bocca parlano di esigenze di conservazione dello Stato capitalistico russo, non le esigenze di lotta e di vittoria della rivoluzione proletaria.

 


 

[*] Errata corrige: il termine giusto è dominanti e non “dominati”. Questo errore di battitura, purtroppo, si è verificato fin dalla pubblicazione dell’articolo nel “programma comunista” n. 15 del 1968, e non è stato nemmeno corretto successivamente; si è ripresentato nella sua ripubblicazione ora ne “il comunista”. Il lettore attento si accorge, da tutto il contenuto dell’articolo, che qui si tratta senza dubbio di “popoli dominanti” e non di “popoli dominati”.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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