Il “nuovo” modello contrattuale peggiora le condizioni operaie più del “vecchio”

(«il comunista»; N° 140-141;  Novembre 2015)

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La crisi di sovrapproduzione del capitale spinge il padronato ad aumentare la concorrenza tra i proletari, mentre il collaborazionismo sindacale tricolore, fedele difensore delle esigenze dell’economia nazionale e aziendale, tenta di “difendere” il suo ruolo nella contrattazione nazionale; e intanto il salario precipita al di sotto della pura sopravvivenza.

Sul modello FCA (ex Fiat) la tendenza nelle relazioni industriali è di ridurre il ruolo della contrattazione nazionale per limitarlo a quello aziendale. Questo potrebbe non succedere se i sindacati collaborazionisti saranno più disponibili di quanto già non lo siano ad abbassare ulteriormente la quota del salario-base trasformando gli eventuali aumenti salariali in incentivi “una tantum”, legati strettamente agli obiettivi di incremento della produttività aziendale o dei settori produttivi di volta in volta stabiliti dal padronato.

Il contratto nazionale finora,  in qualche modo, tendeva, più nella forma che nella sostanza, a dimostrare che un minimo salariale e normativo veniva in generale “garantito” a tutti i lavoratori; inoltre, grazie ai vari meccanismi di volta in volta inventati dal collaborazionismo sindacale tricolore, si pretendeva, anche se in percentuale sempre minore, di collegare gli aumenti richiesti  all’eventuale aumento del costo della vita delle famiglie proletarie.

Dal ’92, con l’eliminazione della scala mobile, si era già passati da un meccanismo (in grado di coprire comunque appena il 60% degli aumenti subiti e che da trimestrale era passato a semestrale) che scattava automaticamente in busta paga per effetto dell’aumentato costo della vita, ad un meccanismo secondo il quale gli aumenti di salario venivano di volta in volta contrattati tra il sindacato tricolore e il padronato sulla base di un’inflazione programmata dal governo borghese; quest’ultimo, naturalmente, manteneva questi indici appositamente molto al di sotto dell’inflazione reale e i proletari dovevano aspettare come minimo 2 anni per recuperare questo scarto che, in realtà, non veniva mai recuperato. Anche i calcoli del collaborazionismo sindacale difettavano nello stesso senso e, inoltre, erano riparametrati per livello salariale in maniera tale che ai salari più bassi della maggioranza dei lavoratori toccava un aumento inferiore nonostante si trattasse del “recupero” dell’inflazione.

Con quegli accordi-capestro era anche scomparsa la possibilità di avere aumenti di salario per elevare il tenore di vita proletaria (in precedenza, gli aumenti della scala mobile si aggiungevano a quelli della contrattazione nazionale); inoltre, nella contrattazione aziendale – che riguardava  soprattutto le grandi e medie aziende – scompariva la possibilità di un recupero salariale aggiuntivo, perché veniva reso precario con il meccanismo dell’”una tantum”, oltretutto vincolato agli obiettivi sia di produzione che di miglioramento dell’efficienza aziendale da parte dei singoli lavoratori, obiettivi che venivano stabiliti di volta in volta dai padroni.

E’ così che in 15 anni, fino alla crisi economica iniziata nel 2007-2008, i salari si sono praticamente dimezzati per la maggior parte dei proletari inquadrati ai livelli salariali più bassi, tanto che in una famiglia proletaria media non bastava più un solo salario; per riuscire a sbarcare il lunario più componenti della famiglia proletaria (compresi donne e bambini) dovevano cercarsi un lavoro per poter far fronte all’aumentato costo della vita. Nel frattempo, le forme contrattuali si differenziavano sempre più (interinali, a termine, co.co.co ecc.) ed aumentava il lavoro nero: tutto ciò rendeva i posti di lavoro più precari e facilitava l’uso ricattatorio sempre più ampio del “posto di lavoro”. Non solo i proletari venivano spremuti maggiormente dai padroni, ma tutta una serie di incentivi previsti dagli accordi aziendali passati, o “ufficialmente” presenti anche nei contratti nazionali, scomparivano immiserendo ancor di più il loro salario.

Con l’inizio della crisi economica sono aumentati licenziamenti e cassa integrazione guadagni (vera anticamera dei licenziamenti). Nel gennaio del 2009 il padronato, in accordo con il governo e i sindacati tricolore, ha ottenuto di allungare la durata dei contratti che da biennale è passata a triennale, allontanando nel tempo i già miseri aumenti richiesti. Erano comunque previste delle deroghe (contrattate con i delegati sindacali) grazie alle quali, a livello aziendale, si potevano contrattare orari e turni di lavoro con modalità diverse stabilite precedentemente dai contratti nazionali; ma ciò rispondeva soprattutto alle esigenze produttive determinate dal mercato e in definitiva in linea con gli interessi padronali per non perdere le rispettive quote di profitto.

Poi è arrivato il blocco degli aumenti salariali nel settore del pubblico impiego, varie volte prorogati. Nel settore privato la Fiat fa da apripista e propone, uscendo dalla Confindustria, un contratto più calibrato sulle esigenze immediate dell’azienda che sostanzialmente leghi in misura maggiore il salario e gli eventuali aumenti alla flessibilità dei lavoratori nell’accettare condizioni di lavoro sempre più pesanti, e costringa i delegati sindacali e lo stesso sindacato tricolore ad essere più disponibili nella cogestione delle esigenze produttive determinate dagli alti e bassi del mercato, ma soprattutto a farle rispettare tramite accordi sottoscritti che prevedono una responsabilità più diretta da parte dei lavoratori, pena la perdita dei privilegi (permessi sindacali, richiesta di assemblee, e la possibilità di contrattare) e dell’agibilità sindacale in fabbrica.

Seguono gli accordi a livello Confederale (Cgil-Cisl e Uil con Confindustria 10.1.2014) dove si arriva a sancire la burocratizzazione completa dell’attività sindacale, legandola alla conta delle tessere sindacali fatta da un ente statale (Cnel, Inps) per decidere chi ha maggior peso per contrattare e firmare accordi nelle aziende: se si raggiunge il 50% più uno si può firmare un accordo ed esso deve essere messo in pratica dalle parti con vincoli e sanzioni precise; si estende poi la pratica dei referendum a scrutinio segreto in caso di contrasti tra le sigle sindacali.

Infine, la riforma del mercato del lavoro (Jobs Act), andata in vigore nei primi mesi del 2015 che conferma l’intervento sempre più diretto del governo (già si era visto all’inizio del 2014 con il famoso Bonus di 80 euro in busta paga ai lavoratori, scavalcando e superando anche se di poco gli stessi miseri aumenti a volte ottenuti dai sindacati tricolore), che ha in realtà esteso la precarietà del posto di lavoro per tutti i proletari che entrano nel mondo del lavoro d’ora in poi, imponendo ai padroni una minima sanzione (di poche mensilità) in cambio della libertà di poter licenziare il lavoratore in qualsiasi momento, per motivi semplicemente economici (infatti, il governo ha scontato ai padroni 8.000 euro all’anno di contributi da versare per 3 anni ai nuovi assunti purché, almeno per questi tre anni, i nuovi assunti fossero tenuti al lavoro almeno per questi tre anni in modo da dimostrare di aver saputo ridurre la disoccupazione giovanile).

Ora si tende ad alleggerire il contratto nazionale in maniera da definire una normativa generale sulle condizioni di lavoro e un minimo salariale da applicare nelle piccole aziende dove non esiste la contrattazione a livello aziendale o territoriale – magari con riferimento a dei minimi stabiliti per legge dal governo di volta in volta, che andrebbero molto al di sotto dei minimi salariali di base, cioè quelli attualmente previsti dai contratti nazionali (in effetti già nel Jobs Act  è previsto il minimo salariale per legge anche se in via sperimentale) – e da estendere invece la contrattazione-gestione aziendale dove si potrà mettere in discussione tutto, dai permessi alle ferie, dagli orari di lavoro ai ritmi di produzione, dal salario alle pause, ma sempre e comunque in funzione dell’aumento produttivo e degli obiettivi dell’azienda.

In pratica, quest’ultimo diverrebbe il modello principale di contrattazione e, a livello nazionale, con l’intervento sempre più diretto del governo borghese, si evidenzierebbe un ridimensionamento delle attuali rappresentanze sindacali per limitarle ad una collaborazione più diretta azienda per azienda. In questo modo, il salario, già ridotto ad una variabile, dipenderà sempre più automaticamente e tempestivamente dagli andamenti del mercato e dalle esigenze di difesa del profitto padronale che, per i borghesi e il loro governo, è la priorità assoluta.

Grazie alla grande abbondanza di braccia di ogni età e colore, proveniente da ogni parte del mondo, espulsa dal processo produttivo del capitale o che tenta di entrarvi, i padroni hanno le mani sempre più libere nel ricattare i proletari; abbatteranno il salario reale anche al di sotto della semplice sopravvivenza operaia fin qui sostenuta e spingeranno i proletari ad un grado di concorrenza ancora più spietata con il compagno di lavoro in fabbrica o disoccupato; aumenteranno i ritmi e l’intensità di lavoro; gli orari e la contrazione dei riposi cresceranno ed aumenterà l’esposizione al rischio infortunio e alla nocività sul lavoro. In breve, la pressione e la brutalità dello sfruttamento capitalistici si faranno sentire nella carne viva dei proletari che, sempre più, subiranno gli effetti di una schiavitù dalla quale non usciranno se non lottando con i mezzi e i metodi della lotta di classe, ad esclusiva difesa delle proprie condizioni di esistenza, con tutte le loro forze e necessariamente rompendo con i mezzi e i metodi della collaborazione di classe coi padroni. I proletari, come è accaduto finora, verranno ancora investiti dalla propaganda borghese che, in particolare nei periodi di crisi e di aumento della disoccupazione, esalta la solidarietà tra sfruttati e sfruttatori; una propaganda che spinge i proletari delle fasce di reddito più alte a non rinunciare ai loro piccoli privilegi che li distinguono dalla grande massa e che istiga questi strati proletari – vera aristocrazia operaia – a “lottare” per conservare i loro piccoli privilegi: solo che la lotta in difesa di questi privilegi si svolge inevitabilmente acuendo la concorrenza fra proletari. Così, in realtà, lo schiavo salariato lotta contro altri schiavi salariati per conservare la schiavitù salariale su cui si basa l’intera società borghese, la società della proprietà privata, dell’appropriazione privata della ricchezza generale prodotta, dell’oppressione e della guerra.

Solo iniziando a rompere l’abbraccio stritolatore con cui i collaborazionisti sindacali e politici tengono avvinti i proletari ai capitalisti, solo mettendo in prima linea la difesa esclusiva degli interessi di classe operai contro qualsiasi altro interesse economico, sociale e politico frapposto tra la loro prospettiva storica di emancipazione dalla schiavitù salariale e la conservazione della società attuale, soltanto osando considerarsi finalmente uomini che combattono per un futuro senza classi antagoniste, senza oppressioni e senza sfruttamento, e non schiavi che si sottomettono ad un presente mercificato capace soltanto di acutizzare sempre più l’antagonismo sociale tra i pochi che posseggono tutto e i molti che non sono padroni nemmeno della propria vita individuale; solo a queste condizioni i proletari saranno non solo “storicamente”, ma nei fatti e nel presente, l’unica classe rivoluzionaria di questa società, l’unica classe in grado di porre fine per sempre allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.   

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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