A cent’anni dalla prima guerra mondiale

Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato (1)

(«il comunista»; N° 142;  Febbraio 2016)

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Nel riprendere la questione della guerra in occasione dell’anniversario del primo massacro mondiale di popolazioni oppresse e di proletari di ogni paese, vogliamo richiamarci ad alcuni capitoli dalla nostra Storia della Sinistra comunista (1). Questo contribuirà a richiamare alla memoria un periodo della storia europea e mondiale in cui il proletariato mondiale avrebbe avuto l’opportunità storica non solo di lanciare il suo «assalto al cielo», ma anche di farla finita una volta per tutte con il regime capitalistico, oppressore di tutti i popoli del mondo e sfruttatore di lavoro salariato in ogni paese, nella prospettiva di aprire all’umanità intera la strada per la società di specie, la società senza classi, il comunismo. Tale prospettiva non si può realizzare se alla guida del proletariato mondiale non c’è il partito di classe, ossia quell’unico organo della lotta rivoluzionaria che rappresenta la coscienza e la volontà di classe, indispensabile perché la lotta rivoluzionaria del proletariato mondiale sbocchi nella società finalmente priva di sfruttamento, oppressione, miseria e guerre devastanti.

Nei primi del Novecento, soprattutto in presenza di potenti partiti socialisti in Europa e della Seconda Internazionale che li organizzava, con il manifesto di Basilea del 1912 (2) nel quale si ribadivano le posizioni marxiste di fronte alla guerra mondiale che si stava preparando, al proletariato europeo in particolare – e, di fatto, al proletariato mondiale – la storia stava dando oggettivamente l’occasione per mettere a frutto le lezioni marxiste tirate dalla Comune di Parigi, opponendosi allo scatenamento della guerra borghese di rapina con la lotta rivoluzionaria seguendo il motto lanciato dai marxisti di sinistra: o guerra o rivoluzione! Ma il rovesciamento delle posizioni rivoluzionarie rappresentato dal voto ai crediti di guerra di quasi tutti i partiti socialisti/socialdemocratici dell’epoca (meno, a dire il vero, il Partito socialista italiano, i bolscevichi e il partito serbo) presenti nei parlamenti – cosa che decretò il fallimento della Seconda Internazionale – tradì su tutti i fronti la causa del proletariato. Soltanto le frazioni di sinistra dei partiti socialisti mantennero e difesero le posizioni marxiste (ricordiamo il magnifico esempio in Germania di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg) contro entrambi i fronti bellici, posizioni ben definite dal noto «disfattismo rivoluzionario» di Lenin, sulla cui linea si trovò anche la giovane corrente di sinistra del PSI – che si svilupperà successivamente, nel 1918, in Frazione comunista per poi dare origine al Partito comunista d’Italia nel 1921 – pur non avendo contatti diretti e conoscenza diretta del partito bolscevico di Lenin.

I giovani proletari di oggi, intossicati fin dalla nascita dalla propaganda borghese che mette l’ambizione individuale sopra ogni cosa, facendo leva sull’appropriazione privata delle merci e dei capitali che distinguono la società capitalistica, e mettendo uno contro l’altro ogni individuo spinto a sopraffare l’altro per emergere socialmente, non hanno memoria di classe. Questa memoria di classe è stata spezzata, frantumata, annullata, mistificata, sepolta in decenni di attività opportunistica da parte di gruppi, associazioni e partiti sedicentemente socialisti, comunisti o rivoluzionari. Lo scopo di questa attività opportunistica, che non si è mai fermata, è sempre stato chiarissimo ai comunisti rivoluzionari di ogni tempo. Si trattava e si tratta di annebbiare le menti proletarie, mentre i loro corpi continuavano e continuano ad essere sfruttati nelle fabbriche e nei campi e dilaniati nelle guerre borghesi e imperialiste, facendo loro credere alle superstizioni più trite, rammodernate e rivestite alla moda del tempo: vuoi per «difendere la patria» dall’aggressione straniera, vuoi per «combattere contro il fascismo per ripristinare la democrazia», vuoi per «difendere la democrazia da ogni autoritarismo e da ogni terrorismo», vuoi per «portare la civiltà e la democrazia nei paesi in cui queste ancora non esistono»!

La guerra, come aveva affermato il generale prussiano Karl von Clausewitz nel suo famoso saggio «Della guerra», non è che la continuazione della politica, ma con altri mezzi, coi mezzi militari per l’appunto. Come non tutte le «politiche» sono equiparabili – la politica di un potere borghese imperialista è del tutto diversa dalla politica di un potere proletario rivoluzionario – così non tutte le «guerre» sono uguali, e perciò ogni singola guerra deve essere esaminata dal punto di vista delle sue particolarità storiche utilizzando il materialismo dialettico marxista.

«Il nostro atteggiamento di fronte alla guerra – scrive Lenin nel 1915 (3) – è fondamentalmente diverso da quello dei pacifisti borghesi (fautori e predicatori della pace) e degli anarchici. Dai primi ci distinguiamo in quanto comprendiamo l’inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell’interno di ogni paese, comprendiamo l’impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo, come pure in quanto riconosciamo pienamente la legittimità, il carattere progressivo e la necessità delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro gli schiavisti, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia. E dai pacifisti e dagli anarchici noi, i marxisti, ci distinguiamo in quanto riconosciamo la necessità dell’esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx) di ogni singola guerra. Nella storia sono più volte avvenute delle guerre che, nonostante tutti gli orrori, le brutalità, le miserie ed i tormenti inevitabilmente connessi con ogni guerra, sono state progressive; che cioè sono state utili all’evoluzione dell’umanità, contribuendo a distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l’autocrazia o la servitù della gleba), i più barbari dispotismi dell’Europa (quello turco e quello russo). Perciò bisogna prendere in esame le particolarità storiche proprie di questa guerra».

Le particolarità storiche della guerra mondiale scoppiata nel 1914, dunque, rispetto alle guerre precedenti, quale era e quale doveva essere l’atteggiamento del movimento socialista internazionale? Bisognava definire i tipi storici delle guerre nell’epoca moderna, nell’epoca del capitalismo, ed è quello che immediatamente Lenin fa, in questo scritto.

Dalla grande Rivoluzione francese alla Comune di Parigi (periodo 1789-1871), le guerre in Europa sono state «a carattere borghese progressivo, di liberazione nazionale. In altre parole, il principale contenuto ed il significato storico di queste guerre è stato l’abbattimento e la distruzione dell’assolutismo e del feudalesimo, l’abbattimento dell’oppressione straniera. Esse sono state perciò guerre progressive e tutti gli onesti democratici rivoluzionari, nonché tutti i socialisti, durante tali guerre, simpatizzarono sempre per il successo di quel paese (cioè di quella borghesia) che contribuiva ad abbattere o a minare i pilastri più pericolosi del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione di popoli stranieri». E qui c’è un inciso molto interessante di Lenin, il quale non si fa scappare l’occasione di sottolineare che in quello stesso periodo storico in cui le guerre borghesi sono da considerarsi «progressiste» o addirittura «rivoluzionarie» e i socialisti, quindi, avevano tutto l’interesse a simpatizzare per il loro successo, non si doveva dimenticare che quelle stesse guerre contenevano una caratteristica permanente delle guerre borghesi, e cioè l’elemento di rapina e di conquista di terre straniere. Lenin infatti afferma subito dopo: «Per esempio, nelle guerre rivoluzionarie della Francia c’era anche un elemento di rapina e di conquista di terre straniere da parte dei francesi, ma ciò non  cambia affatto il significato storico fondamentale di quelle guerre, le quali distruggevano e scuotevano il feudalesimo e l’assolutismo in tutta la vecchia Europa feudale. Nella guerra franco-prussiana (4), la Germania depredò la Francia; ma ciò non cambia il significato storico fondamentale di quella guerra, che ha liberato il popolo tedesco, cioè un popolo di decine di milioni di uomini, dal frazionamento feudale e dall’oppressione di due despoti: lo zar russo e Napoleone III».

Lenin ha sempre ritenuto fondamentale, per l’atteggiamento del partito di classe, l’analisi della situazione storica e, quindi, dei fattori materialisticamente decisivi per determinare la giusta posizione politica, e la giusta azione pratica, del partito di classe e del movimento proletario di classe. Definire un periodo storico, relativamente ad un’area geostorica come ad esempio l’Europa – culla del capitalismo e dell’imperialismo mondiale – in cui le guerre potevano essere o meno considerate «giuste», «progressive», «rivoluzionarie», non in sé, ma dal punto di vista di classe, è sempre stato un punto cruciale per la prospettiva politica della lotta di classe e rivoluzionaria. La borghesia ha sempre utilizzato l’argomento della patria, della difesa della patria, della guerra difensiva. E Lenin ricorda che per i socialisti, «fino all’abolizione del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione straniera, non si poteva nemmeno parlare di uno sviluppo della lotta proletaria per il socialismo»; finché si trattava di abbattere il feudalesimo, l’assolutismo, finché lo scopo della guerra era «la rivoluzione contro il medioevo e contro la servitù della gleba», la guerra era progressista e la stessa «difesa della patria» era da considerare giusta. Ogni socialista – afferma Lenin – «simpatizzerebbe per la vittoria degli Stati oppressi, soggetti e privi di diritti, contro le grandi potenze schiaviste che opprimono e depredano» e, per non essere equivocato, faceva degli esempi: «se domani il Marocco dichiarasse guerra alla Francia, l’India all’Inghilterra, la Persia o la Cina alla Russia», queste guerre sarebbero «giuste, indipendentemente da chi avesse attaccato per primo»! Nessuna possibilità di equivoco: nel periodo storico in cui le poche potenze capitalistiche mondiali esistenti (vedi l’Inghilterra, la Francia, la stessa Germania, gli Stati Uniti d’America),  affiancate da alcune altre potenze reazionarie ancora esistenti, «pilastri del feudalesimo, dell’assolutismo, dell’oppressione di popoli stranieri» (vedi la Russia, l’Austria, la Turchia, il Giappone dell’epoca), dominavano praticamente l’intero globo terracqueo, le guerre nazionali di «liberazione» volte all’indipendenza politica dalle potenze opprimenti e alla costituzione di Stati nazionali indipendenti assumevano oggettivamente il carattere di guerre progressiste perché combattevano contro le grandi potenze schiaviste, e perché aprivano la possibilità di sviluppo economico nel paese schiavizzato (sviluppo economico significa sviluppo del capitalismo nazionale e, con esso, inevitabile formazione e sviluppo della moderna classe proletaria, la classe rivoluzionaria per eccellenza dell’epoca moderna).

Ben diversa invece la guerra del 1914-18. Le borghesie di ogni paese l’hanno presentata con gli stessi argomenti delle guerre del periodo storico precedente – ossia guerra difensiva dall’aggressione straniera, o guerra di difesa della patria – ma, al contrario, era una guerra imperialista, cioè una guerra in cui un pugno di grandi potenze schiaviste si contendevano il consolidamento e il rafforzamento dell’oppressione della maggior parte dei popoli del mondo. Il vero scopo della guerra era una nuova spartizione del mondo tra le maggiori potenze imperialiste che si rapinavano a vicenda, spinte a conquistare nuovi sbocchi di mercato che la crisi di sovraproduzione rendeva vitali. Lenin dirà: «Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive, che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie». I popoli d’Europa e d’America che, fino al 1871, «lottarono, per lo più, alla testa degli altri per la libertà», si sono «trasformati, dopo il 1876 (5), sul terreno di un capitalismo altamente sviluppato e “ipermaturo”, in oppressori e asservitori della maggioranza della popolazione e delle nazioni di tutto il globo terrestre». Se questo era vero centoquarant’anni fa, oggi, sul terreno di un capitalismo non solo ipermaturo, ma supersviluppato e putrescente, la situazione «della maggioranza della popolazione e delle nazioni di tutto il globo terrestre» è enormemente peggiorata.

Molte colonie si sono rese, nel frattempo, politicamente «indipendenti» attraverso rivoluzioni nazionali, lotte contro le potenze colonialiste, moti anticoloniali di grado diverso, ed alcune – ad esempio l’India, la Cina, la Persia (oggi Iran), il Sudafrica, il Brasile – si sono sviluppate capitalisticamente molto più di altre tanto da concorrere nel mercato mondiale con una certa forza economica e finanziaria; resta però il fatto che, nonostante il loro sviluppo capitalistico nazionale, da non sottovalutare dal punto di vista delle relazioni internazionali, queste ex colonie sono ancor oggi strettamente dipendenti dalle relazioni che intercorrono tra le più vecchie potenze schiavistiche che sono sempre la Gran Bretagna, la Francia, la Russia, gli Stati Uniti d’America, il Giappone, la Germania. Dal 1914 ad oggi, il peso mondiale di ciascuna delle potenze imperialistiche di allora è cambiato, è un fatto. La potenza mondiale per eccellenza di un tempo, l’Inghilterra, a metà del Novecento ha dovuto cedere il passo alla nuova potenza dominante, gli Stati Uniti, così come i due imperialismi vincitori della seconda guerra imperialistica, USA e URSS, hanno dovuto cedere il loro potere condominiale sul mondo ad un consesso di potenze schiavistiche più ampio che include le vecchie potenze e la nuova potenza cinese.

Ma il quadro sostanziale dell’oppressione della maggioranza dei popoli e delle nazioni del globo terrestre da parte di un pugno di potenze schiavistiche non è cambiato: esse si sono divise, in modo diverso da un tempo, zone di influenza e territori economici da sfruttare, e non hanno fatto che appesantire la pressione economica e finanziaria su tutti i paesi del mondo, anche verso quelli che un tempo erano parimenti colonialisti ma che, dopo la seconda guerra mondiale, sono diventati in parte, più o meno grande, essi stessi «colonie» dei vincitori della guerra, i quali,  tentando di rafforzare il proprio potere oppressivo, ribadivano gli obiettivi che sono sempre gli stessi, come li aveva precisati Lenin nel 1915. Lenin infatti scriveva: «questa guerra [la guerra mondiale scoppiata nel 1914] è una guerra di schiavisti per il rafforzamento della schiavitù, per tre motivi; questa guerra tende: in primo luogo a rafforzare la schiavitù delle colonie con una più “giusta” ripartizione e con un ulteriore e più “concorde” sfruttamento di esse [basti pensare, oggi stesso, a gran parte dei paesi dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Asia centrale]; in secondo luogo, a consolidare l’oppressione sulle nazionalità allogene nelle “grandi” potenze stesse, perché sia l’Austria, sia la Russia (la Russia molto più e molto peggio dell’Austria) si reggono soltanto con tale oppressione e la rafforzano con la guerra [basti pensare, oggi, ai numerosi popoli delle zone “cuscinetto” dell’Europa dell’Est un tempo satelliti dell’URSS, del Caucaso, dell’Asia centrale e dell’America Latina]; in terzo luogo, a consolidare e prolungare la schiavitù salariata, poiché il proletariato è diviso e schiacciato ed i capitalisti ne approfittano, arricchendosi con la guerra, inculcando i pregiudizi nazionali e rafforzando la reazione, la quale ha alzato la testa in tutti i paesi, perfino in quelli più liberi e repubblicani».

E’ in quegli anni che fu coniato il termine di socialsciovinismo: questo termine, sintetizza Lenin, definisce la politica opportunista che sostiene l’idea della «difesa della patria» nella guerra imperialista. E da qui vi sono diverse conseguenze, che Lenin descrive in questo modo: «Da questa idea deriva, inoltre, la rinuncia alla lotta di classe in tempo di guerra, l’approvazione dei crediti di guerra ecc. In realtà, i socialsciovinisti conducono una politica borghese antiproletaria, perché in realtà essi sostengono non la “difesa della patria” nel senso di una lotta contro l’oppressione straniera, ma il “diritto” di determinate “grandi” potenze a depredare colonie e opprimere popoli stranieri. I socialsciovinisti rinnovano ai danni del popolo l’inganno borghese, come se la guerra si facesse per la difesa della libertà e per l’esistenza delle nazioni, e passano così dalla parte della borghesia contro il proletariato». Il lettore provi a pensare, a questo punto, alla seconda guerra imperialista mondiale: i partiti stalinisti non erano che partiti socialsciovinisti, all’ennesima potenza dato che, all’inganno borghese di una guerra per la difesa della libertà, della democrazia e per l’esistenza delle nazioni, si aggiunse, contro Lenin e il marxismo, l’inganno di un socialismo sedicentemente “edificato” in Russia, perciò paese “socialista” da “difendere” dall’aggressione nazifascista.

Di più, Lenin precisa ancor meglio: «Sono da annoverare tra i socialsciovinisti sia coloro che giustificano e mettono in buona luce i governi e la borghesia di uno dei gruppi di potenze belligeranti, sia coloro che, come Kautsky, riconoscono ai socialisti di tutte le potenze belligeranti lo stesso diritto di “difendere la patria”». Come ogni tendenza opportunistica, anche il socialsciovinismo ha basi materiali. Lenin parte da un’affermazione ovvia per ogni marxista coerente, ossia che «l’opportunismo esprime la politica borghese nel movimento operaio, esprime gli interessi della piccola borghesia e l’unione di un’infima parte di operai imborghesiti con la propria borghesia, contro gli interessi della massa dei proletari, della massa degli oppressi». E sottolinea un dato storico importante, che non discende dalla “coscienza” di capi o gregari di partito o da interessi soltanto individuali, ma da fattori materiali generali che coinvolgono le masse: «le condizioni obiettive della fine del secolo XIX hanno particolarmente rafforzato l’opportunismo trasformando l’utilizzazione della legalità borghese in un atteggiamento servile dinanzi ad essa, creando un piccolo strato di burocrazia e di aristocrazia della classe operaia, attirando nelle file dei partiti socialdemocratici molti “compagni di strada” piccoloborghesi. La guerra ha accelerato questo sviluppo, trasformando l’opportunismo in social-sciovinismo, rendendo palese l’unione segreta degli opportunisti con la borghesia (...) La base economica dell’opportunismo e del socialsciovinismo è identica: gli interessi di un gruppo piccolissimo di operai privilegiati e di piccoli borghesi che difendono la propria situazione privilegiata, il proprio “diritto” alle briciole dei profitti ottenuti dalla “loro” borghesia nazionale col depredamento di altre nazioni, con vantaggi della posizione di grande potenza ecc.». Questi i dati materiali ed economici del socialsciovinismo. E il dato politico? Eccolo: «Il contenuto ideologico e politico dell’opportunismo e del socialsciovinismo è identico: la collaborazione delle classi [neretto nostro, NdR] invece della lotta di classe, la rinunzia ai mezzi rivoluzionari di lotta, l’aiuto al “proprio” governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell’interesse della rivoluzione».

Nel corso del suo sviluppo, l’opportunismo, che un tempo era considerato una deviazione, un’ala tendenzialmente conservatrice del movimento operaio e che faceva comunque parte del partito socialista (o socialdemocratico, come si chiamavano molti partiti operai dell’epoca), era “maturato”, come afferma Lenin, ed «ha spinto fino in fondo la sua funzione di emissario della borghesia nel movimento operaio». La collaborazione di classe è diventata non “una” delle politiche dell’opportunismo, ma la sua unica politica e nella seconda guerra imperialistica mondiale sarà ancora più evidente. Se gli opportunisti dell’epoca sentivano ancora il bisogno di riconoscere formalmente il marxismo per rivestire la loro politica collaborazionista in modo da non perdere credibilità presso le masse proletarie, oggi, dopo aver distrutto e avvelenato lo spirito di lotta proletaria ed aver sepolto sotto montagne di menzogne i veri interessi di classe del proletariato di ogni paese e delle masse oppresse di tutti i paesi dominati da un piccolo gruppo di grandi potenze schiaviste, gli opportunisti non sentono nemmeno più il bisogno di fingere di voler giungere un domani alla rivoluzione e di voler combattere il sistema capitalistico per quello che è. Essi, veri figli della collaborazione fra le classi, sono figli della piccola borghesia che si aggrappa ai privilegi che la grande borghesia concede loro perché svolgano il loro sporco lavoro che non consiste soltanto nell’ingannare le masse, ma anche nell’alimentare in ogni frangente la concorrenza fra proletari, nell’indurli a piegarsi alle esigenze dei profitti aziendali come fossero il loro primo interesse, nell’accettare qualsiasi tipo di sfruttamento pur di sopravvivere: gli opportunisti di oggi, come quelli di ieri, mirano a difendere innanzitutto la loro situazione privilegiata, il proprio “diritto” alle briciole dei profitti ottenuti dalla “loro” borghesia nazionale col depredamento di altre nazioni ecc., come affermava Lenin, e a questo scopo sono sempre pronti, in tempo di pace, a vendere alla propria borghesia la pelle dei proletari che organizzano e che influenzano e, in tempo di guerra, a trasformare le masse proletarie in carne da cannone.

Ieri, gli opportunisti (i Bernstein, i Kautsky, gli Stalin) erano giustamente definiti traditori della classe operaia perché dopo aver abbracciato la causa proletaria e il marxismo, averli difesi e propagandati, li hanno rinnegati attraverso una serie più o meno veloce di revisioni, di aggiustamenti e di mistificazioni. Gli opportunisti di oggi, in un certo senso, non possono nemmeno essere chiamati dei “traditori” perché non hanno mai abbracciato la causa proletaria e il marxismo, non li hanno mai difesi, mai propagandati, semmai mistificati, stravolti e seppelliti sotto la causa borghese della democrazia, della patria, della crescita economica: sono nati dalla collaborazione di classe, nella collaborazione di classe, per la collaborazione di classe; sono certamente dei mistificatori tutte le volte che si rivolgono alla “classe operaia” e pretendono di parlare in suo nome e in nome dei suoi interessi, ma sono semplicemente dei collaborazionisti, feccia piccoloborghese di cui i proletari rivoluzionari dovranno sbarazzarsi senza tanti scrupoli.

  

La lotta contro l’opportunismo, e quindi contro il socialsciovinismo, era centrale per tutti i marxisti rivoluzionari degni di questo nome, riconoscendo da un lato il fallimento della Seconda Internazionale i cui partiti avevano ceduto alle lusinghe delle rispettive borghesie nazionali, combattendo perciò contro ogni opportunismo sia teoricamente che politicamente e organizzativamente, e dall’altro la necessità urgente di ricostituire una rete tra le correnti rivoluzionarie esistenti nei diversi paesi nella prospettiva di ricostituire una Internazionale proletaria rivoluzionaria in grado di ridare al proletariato mondiale una guida sicura per la rivoluzione proletaria in tutti i paesi. Che questa prospettiva fosse difficile da perseguire era ben chiaro a tutti i marxisti rivoluzionari, ma non è mai stato un problema di scadenze. Il corso storico dello sviluppo del capitalismo porta con sé inevitabilmente lo sviluppo del proletariato anche nei paesi che in precedenza non erano stati investiti dall’industrialismo capitalista; capitale e salario, capitalisti e proletari salariati, sono i due elementi fondamentali del modo di produzione capitalistico e del suo sviluppo e, quindi, della lotta moderna fra le classi; per quanto i borghesi si adoperino per mimetizzare le contraddizioni sociali, queste sono destinate ad acutizzarsi sempre più, in particolare in periodo di guerra, e la lotta di classe prima o poi trova la strada per ripresentarsi con tutta la sua straordinaria potenza, come un fiume in piena che nessun argine riesce a trattenere.

La risposta classista di fronte alla guerra imperialista era ed è:

 

-nessuna tregua nella lotta di classe,

-nessuna solidarietà con la borghesia nazionale,

-nessuna “union sacrée”,

-nessuna collaborazione di classe,

-lotta intransigente contro ogni mobilitazione di guerra in ogni paese belligerante all’insegna del disfattismo rivoluzionario,

-trasformazione della guerra imperialista in guerra civile.

 

Il disfattismo rivoluzionario non consiste nella declamazione pacifista di opposizione morale alla guerra, ma nella mobilitazione proletaria in tutti i paesi sul terreno di classe e su tutti i piani, dalla lotta immediata in difesa del salario agli scioperi per impedire la partenza dei soldati al fronte, alle manifestazioni politiche contro la guerra imperialista e contro le attività repressive che il potere borghese mette in atto in ogni paese per impedire al proletariato di organizzare la propria lotta di classe e rivoluzionaria:

- contro la “difesa della patria”,

- per la difesa della lotta proletaria di classe e la sua organizzazione sul piano sociale e politico, lotta che non deve essere sospesa nemmeno a guerra iniziata.

Gli esempi si trovano nell’attività del partito bolscevico tra le masse e all’interno dell’esercito zarista, prima e durante la guerra, attività che si fondava d’altronde su di una situazione sociale che già vedeva le masse proletarie in opposizione alla guerra e in grado di influenzare vasti strati del contadiname, masse che provenivano dalle esperienze materiali della rivoluzione del 1905 sulla base delle quali si erano organizzate nei soviet, nei quali, i partiti operai, e fra questi il partito bolscevico, avevano il ruolo di formazione politica e di direzione.

La prospettiva di Lenin e del partito bolscevico era di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, ossia in guerra di classe; esattamente questo intendeva il grido: guerra o rivoluzione. E sulla stessa linea, come dimostreremo con i capitoli della Storia della Sinistra comunista, si trovava anche la corrente di sinistra del Partito socialista italiano. In un brevissimo e meno noto articolo polemico del 1916 (6) Lenin, riprendendo la critica che l’opportunista tedesco Kolb fece alla tattica dei sostenitori di Liebknecht, e che aveva già trattato nell’articolo del gennaio 1916 intitolato L’opportunismo e il fallimento della II Internazionale Questa tattica – scrive Kolb – avrebbe portato al punto di ebollizione la lotta intestina nella nazione tedesca e, con ciò stesso, al suo indebolimento politico»... a vantaggo e per le vittorie « dell’imperialismo della Triplice intesa»), sottolinea che «La “lotta intestina portata al punto di ebollizione” è per l’appunto la guerra civile. Kolb ha ragione di dire che la tattica della sinistra porta a ciò; ha ragione di dire che essa significa l’indebolimento militare della Germania, cioè il desiderio di contribuire alla sua disfatta, che essa significa disfattismo. Kolb ha torto soltanto – soltanto! – quando non vuol vedere il carattere internazionale di questa tattica della sinistra. In tutti i paesi belligeranti è possibile “portare la lotta intestina al punto di ebollizione”, “indebolire la potenza militare” della borghesia imperialistica e trasformare (per questo, in connessione con questo, attraverso questo) la guerra imperialista in guerra civile. In ciò sta il perno della questione».

Ma andiamo per ordine cronologico, ripercorrendo, attraverso la nostra Storia della Sinistra comunista, il periodo che va dalla guerra che si annuncia alla guerra guerreggiata, senza tralasciare di rifarsi a quello che dette al Partito Socialista Italiano «un violento scossone», cioè «un fatto storico d’importanza non solo locale e italiana ma collegato al corso dell’imperialismo mondiale», scossone che produrrà effetti «favorevoli alla posizione che il partito italiano potrà prendere nel 1914». Dunque leggiamo quanto contenuto nel capitoletto 11 della citata «Storia» (7):

«Giolitti, tornato al potere, il 29 settembre 1911 dichiarava guerra alla Turchia e la flotta italiana occupava Tripoli. Non è fuori luogo notare che il pretesto fu la vittoria dei Giovani Turchi, accusati di “nazionalismo”. Non si dimentichi che quella rivoluzione, popolare e non proletaria, contro il regime feudale turco, fu altamente apprezzata da Lenin. Il movimento proletario si era fieramente levato contro l’impresa nazionalista di Tripoli, secondo le sue non recenti tradizioni anticoloniali. Lo sciopero generale non ebbe esito completo, ma vivissime furono le dimostrazioni contro la partenza delle truppe. Il gruppo socialista votò un ordine del giorno Turati contro la guerra, ma ne dissentirono i destri de Felice, Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca. E’ da notare che non pochi “sindacalisti rivoluzionari” si dichiararono fautori dell’impresa libica, in prima linea Arturo Labriola (8), Orano ed Olivetti.

«Il congresso straordinario si riunì il 15 ottobre 1911 a Modena sotto l’influenza di questa situazione generale. Bussi, per Treves e per i riformisti di sinistra, deprecò la guerra e sostenne il passaggio alla decisa opposizione a Giolitti, non per questo rinunziando in linea teorica all’antico possibilismo. Lerda ancora una volta (e qui meglio che altrove) ribattè felicemente che, quanto alla prima, non si trattava di una qualunque congiuntura politica, ma dell’origine del fatto bellico dalla essenza del capitalismo e che, quanto al secondo, non ci si poteva fermare ad esso, ma urgeva constatare il fallimento della colpevole illusione di attendersi vantaggi per il proletariato e per il socialismo dallo Stato borghese, e condannare la tendenza a subordinare le finalità ultime del movimento agli interessi immediati della classe operaia espressi nelle sue organizzazioni economiche: “Se vogliamo adattare l’ideale o quella che potrebbe dirsi la dottrina del socialismo, gli atteggiamenti del Partito e quello degli uomini del Partito, alle contingenze della vita degli altri Partiti e all’opportunismo che è necessariamente nella pratica quotidiana, nella lotta per la vita, certo avremo distrutto in noi ogni ragione teorica del socialismo, e certo ha ragione l’on. Bissolati, ed ha anche ragione Armando Bussi, quando considerano l’evoluzione come forza sufficiente per se stessa a regolare l’avvenire sociale”. (Come sempre, Lerda e in genere i rivoluzionari intransigenti dell’epoca, acuti nel rilevare e combattere il divorzio fra azione economica e azione politica, fra rivendicazioni minime e programma massimo, peccano poi di insufficienza teorica nel definire la natura di quest’ultimo: esso è “l’ideale, il pensiero, l’anima socialista”, alla quale bisogna “educare” le masse proteggendole contro il pericolo cooperativistico; il riflesso pratico di questa insufficienza teorica apparirà in piena luce durante la guerra, quando si “salverà l’anima” del socialismo, ma non si brandirà il programma come strumento di attacco alla società capitalistica e alla sua manifestazione estrema: l’imperialismo).

«Per i rivoluzionari anche Francesco Ciccotti sostenne che l’opposizione alla guerra di Libia doveva basarsi non su motivi contingenti come le spese deviate dall’opera di riforme, ma sui principi internazionalisti. Turati parlò pure abilmente contro Tripoli. Lazzari con ragione disse che non era contento neppure dell’ordine del giorno (Lerda) della sua frazione. Questo, molto breve, diceva che dall’azione parlamentare possono conseguire certi vantaggi, ma essi mantengono tra gli sfruttati l’illusione che si possano rinnovare gli istituti sociali per via parlamentare. Chiudeva però col solito debole accenno alla sola opera di “educazione ed elevazione” proletaria affidata al partito».

Il 23 febbraio dell’anno seguente, 1912, «tutto il Gruppo socialista, ma con ben diversa intonazione nei discorsi di Turati e Bissolati, vota contro l’annessione della Libia al Regno d’Italia. (...) Ma il 14 maggio vi fu un altro evento, sia pure non di peso storico. Il muratore Antonio d’Alba sparò contro il Re. Tutti andarono al Quirinale su proposta del repubblicano Pantano, e dei socialisti ruppero la disciplina del gruppo Bonomi, Bissolati e Cabrini. Scoppiò l’indignazione nel partito.  Mussolini, che al tempo di Modena era in carcere per le azioni antibelliche, sulla “Lotta di Classe” di Forlì, che insieme al settimanale nazionale “La Soffitta” ed altri giornali locali era coi rivoluzionari, a gran voce chiese l’espulsione dei tre al congresso previsto per il 7-10 luglio 1912 a Reggio Emilia.

«In questo congresso ebbero importanza le riunioni della frazione intransigente rivoluzionaria, in cui gli elementi più giovani presero posizioni d’avanguardia che hanno relazione con gli sviluppi ulteriori di un’effettiva sinistra. Questa volta fu subito imposta la discussione sugli errori della Direzione e del Gruppo parlamentare. Infatti il processo di elaborazione programmatica non è che una conseguenza ritardata della battaglia contro le degenerazioni dell’opportunismo e della condanna risoluta delle tattiche disfattiste. La sinistra del partito italiano elaborò in questo campo una ben felice e particolare esperienza nel vivo di tali lotte, e qui ne vogliamo lumeggiare le tappe tra il 1912 e il 1919. Lazzari fu molto deciso nel chiedere la condanna degli organi centrali del partito, che Modigliani debolmente difese, attaccandone la destra. Serrati deprecò che le agitazioni contro la guerra fossero state subite piuttosto che dirette e guidate dal Partito (...).

«Vi fu poi il famoso discorso Mussolini, ben sostenuto dalle energiche richieste venute fuori nelle lunghe sedute notturne di frazione, che fecero tacere molti degli esitanti. Finalmente fu condannata in tutte lettere ogni autonomia del gruppo parlamentare del partito. Mussolini svolse una vivace critica del parlamentarismo e della sopravalutazione del suffragio universale offerto da Giolitti in contropartita all’impresa libica (“il sacco di ossigeno che prolunga la vita dell’agonizzante”); proclamò che l’uso di quest’ultimo deve soltanto “dimostrare al proletariato che neanche quella è l’arma che gli basta per conquistare la sua emancipazione totale”, e disse senza ambagi ch’era tempo di “celebrare solennemente con un atto di sincerità quella scissione che si è ormai compiuta nelle cose e negli uomini”. Ma il suo forte non furono mai le costruzioni teoriche bensì le posizioni di battaglia. Si scagliò contro la visita al Quirinale: noi non siamo per l’attentato personale, ma gli infortuni dei re sono gli attentati, come le cadute dai ponti quelli dei muratori (d’Alba era muratore). Lesse infine tra applausi frenetici la mozione che espelleva dal partito Bissolati, Bonomi e Cabrini, ma nella fretta scordò una parte delle decisioni di frazione della notte: fu necessario gridargli: e Podrecca? E allora afferrò il lapis e scrisse sul foglietto che tendeva al presidente: “la stessa misura colpisce il deputato Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai”, sollevando tra lo sbigottimento dei destri e dei centristi alte acclamazioni.

«Un’altra frase famosa fu quella, che ben si attagliò al Mussolini futuro: “il partito non è una vetrina per gli uomini illustri!”. Morale, diremmo: le verità non sono tali per virtù di chi le afferma, ma per virtù propria... ».

Cabrini, Bonomi Podrecca tentarono di parlare a difesa delle proprie posizioni. A Cabrini il congresso gli cantò la Marcia Reale; «Podrecca si difese bene invocando Antonio Labriola che molti avevano la debolezza di presentare come teorico del marxismo in Italia: Antonio (e non Arturo), che in nome di una diffusione mondiale del capitalismo avanzato, base del socialismo, aveva difeso le conquiste coloniali»; Bonomi, a sua volta, intervenne: «Noi, disse, non vogliamo più rovesciare lo Stato, anzi ci siamo riconciliati con esso in quanto ormai “permeabile alle forze del proletariato”. Il nostro socialismo riformistico è un fatto concreto: poggia sul movimento dei lavoratori. E’ poi un movimento nazionale, perché i bisogni del proletariato vanno intesi “d’accordo con i bisogni più ampi della nazione”. E’ infine una “concezione libera ed eclettica del processo politico economico ed etico attraverso il quale si attua il socialismo”, e quindi non assegna “alcun binario prestabilito al movimento proletario” (una chiara eco bernsteiniana nell’aggiunta: “dal moto, solo dal moto, esso deve trarre le norme per l’avvenire”). L’oratore profetizzò che, anche senza le loro persone, il riformismo sarebbe risorto nel partito: essi non facevano che svolgere le conclusioni dalle premesse turatiane; se quindi espulsione doveva esserci, fosse la definitiva “separazione di due metodi, di due modi di intendere il divenire socialista, talché d’ora innanzi non ci sarà più un solo socialismo italiano, ma un socialismo rivoluzionario e un socialismo riformista”. Non aveva affatto torto! Concreto, popolare, nazionale, forza delle classi lavoratrici nello Stato, nessun binario prestabilito: non pare un discorso di Togliatti in una domenica, elettorale o no, del corrente 1963?».

E mentre altre questioni tattiche ritenute dai rivoluzionari decisive – intransigenza non solo nelle elezioni politiche e nella attitvità parlamentare, ma in tutte le elezioni amministrative e nei ballottaggi, espulsione dei massoni che sostenevano i blocchi elettorali – venivano dal congresso rimandate al congresso successivo, si poteva concludere che la lunga lotta contro i riformisti si chiudeva con successo.

«Scrivendo sulla “Pravda” il 28 luglio, Lenin, che seguiva da tempo con vivissimo interesse le vicende interne del partito italiano, annotava: “Una scissione è cosa grave e dolorosa, Ma qualche volta è necessaria e, in questi casi, ogni debolezza, ogni sentimentalismo... è un delitto. Se per la difesa dell’errore si forma un gruppo che calpesta tutte le decisioni del partito, tutta la disciplina dell’esercito proletario, la scissione è indispensabile. Il Partito Socialista Italiano, allontanando da sé i sindacalisti e i riformisti di destra, ha preso la strada giusta”».

 

(1 - continua)

 


 

(1) Abbiamo scritto nostra Storia della Sinistra comunista, non perché sia stata fisicamente scritta da qualcuno di noi, ma perché appartiene ad un lavoro che è sempre stato di partito,  e considerato in questo modo a cominciare da Amadeo Bordiga che in grandissima parte è stato l’autore del contenuto del I volume, pubblicato nel 1964, e dal quale riprendiamo i capitoli che riguardano il Psi e le posizioni della Sinistra di fronte alla prima guerra mondiale.

(2) Scrive Lenin: «Il manifesto sulla guerra, accettato all’unanimità a Basilea nel 1912 [congresso straordinario della Seconda Internazionale, NdR], si riferisce proprio alla guerra fra l’Inghilterra e la Germania ed i loro rispettivi alleati attuali, che scoppiò poi nell’anno 1914. Il manifesto dichiara apertamente che nessun interesse del popolo può giustificare una simile guerra, condotta “per i profitti capitalisti ed a vantaggio delle dinastie”, sul terreno della politica imperialista di rapina delle grandi potenze. Il manifesto dichiara apertamente che la guerra è pericolosa “per i governi” (tutti, senza eccezione), rileva il loro timore di una “rivoluzione proletaria”, cita con la massima precisione l’esempio della Comune del 1871 e dell’ottobre-dicembre del 1905, cioè l’esempio della rivoluzione e della guerra civile. In tal modo il manifesto di Basilea fissa, proprio per questa guerra, la tattica della lotta rivoluzionaria degli operai su scala internazionale contro i propri governi, la tattica della rivoluzione proletaria. Il manifesto di Basilea ripete le parole della risoluzione di Stoccarda [congresso dell’agosto 1907 della Seconda Internazionale, NdR], e cioè che, in caso di guerra, i socialisti devono sfruttare la “crisi economica e politica” che ne deriva, per “affrettare l’eliminazione del dominio di classe capitalistico”, cioè sfruttare le difficoltà che la guerra crea ai governi e l’indignazione delle masse, ai fini della rivoluzione socialista». Da Lenin, Il socialismo e la guerra, luglio-agosto 1915, Opere complete, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 281.

(3) Cfr. Lenin, Il socialismo e la guerra, cit., pp. 269-310. Tutte le citazioni successive sono riprese da questo scritto di Lenin, salvo diversa indicazione.

(4) La guerra franco-prussiana richiamata da Lenin è la guerra che la Francia di Napoleone III fece al Regno di Prussia (dal 19 luglio 1870 al 10 maggio 1871) che, nell’occasione, fu sostenuto dalla Confederazione tedesca del Nord e alleato con i regni tedeschi del sud di Baden, Baviera e Württemberg. Questa guerra determinò, inaspettatamente per i francesi, l’unificazione della Germania, fatto assai progressivo rispetto allo spezzettamento della Germania in tanti regni autonomi e in lotta fra di loro. Non si può non ricordare che durante questa guerra vi fu la sollevazione della Parigi operaia contro entrambi gli eserciti e che si formò la gloriosa Comune di Parigi, primo esempio di dittatura proletaria, così appassionatamente sostenuta, descritta e analizzata da Marx, Comune che si trovò contro sia l’esercito prussiano che l’esercito francese i quali, nell’occasione, pur nemici, si allearono contro la dittatura proletaria.

(5) Molti storici hanno stabilito come data simbolo dell’avvio dell’imperialismo moderno, il 1876; nel 1876 la Gran Bretagna entra nell’amministrazione del Canale di Suez attraverso l’acquisto delle azioni della società di gestione e nello stesso anno la regina Vittoria si fa proclamare “Imperatrice di tutte le Indie”. In effetti dopo la crisi economica del 1873, che seguì alla fine della guerra franco-prussiana, le grandi potenze europee, e  gli Stati Uniti, grazie alla loro supremazia economica e militare si lanciarono alla conquista delle aree del mondo in una frenetica espansione coloniale, in particolare in Africa e in Asia. Dal 1876 in poi, di fatto, succede esattamente quel che afferma Lenin: i popoli che guidarono la lotta per la libertà, per l’indipendenza politica e per l’uscita dall’assolutismo medioevale si trasformarono in oppressori di tutti gli altri popoli del mondo. In trent’anni, sulla base di un intenso sviluppo industriale nei grandi paesi capitalisti, tutto il mondo fu sottomesso all’oppressione imperialistica di un pugno di grandi potenze che se lo spartivano non più soltanto in “zone di influenza” ma in territori economici occupati economicamente e militarmente. Se da un lato le merci e i capitali prodotti trovavano nuovi sbocchi, non per questo le crisi di sovraproduzione scomparvero; tutt’altro, si presentarono con più virulenza aumentando i contrasti fra le potenze imperialistiche, nonostante la serie interminabile di accordi e trattati, contrasti che sfociarono nello scoppio della prima guerra imperialista mondiale nel 1914.

(6)   Cfr. Lenin, Wilhelm Kolb e Gheorghi Plekhanov, pubblicato nel Sotsial-Demokrat il 29 febbraio 1916, in Opere complete, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 146. L’articolo L’opportunismo e il fallimento della II Internazionale, pubblicato nel Vorbote, gennaio 1916, è nello stesso vol. 22 delle Opere complete, pp. 113-124.

(7) Vedi Storia della Sinistra comunista, vol. I, edizioni il programma comunista, Milano 1964, cap. 11. Gli intransigenti prevalgono, pp. 51-57.

(8) Arturo Labriola, nelle file del socialismo italiano dal 1895, dopo aver conosciuto in Francia George Sorel, sostiene il sindacalismo rivoluzionario; da quest'ultimo allo sciovinismo il passo è breve: nel 1911 appoggia l’intervento dell’Italia in Libia, nel 1913 abbandona il sindacalismo rivoluzionario, nel 1915 appoggia l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale; nel 1917, dopo la rivoluzione di febbraio, va in Russia incitandola a proseguire la guerra. Da socialimperialista e massone entra nell’ultimo governo Giolitti come ministro del lavoro (1920-21); va in esilio in Francia a causa del fascismo, ma in occasione della guerra italiana in Etiopia (1935), la sostiene avvicinandosi al fascismo con posizioni da socialismo nazionale.

Nel 1946 fa parte dell’Assemblea costituente (come membro dell’Alleanza Democratica della Libertà, gruppo liberal-progressista), poi eletto senatore (1948).

A proposito di Arturo Labriola, Lenin, nel 1915, scrive: «Lo sciovinista Arturo Labriola, che si distingue dal suo avversario G. Plekhanov solo perché ha rivelato un po’ prima il suo socialsciovinismo e perché è giunto a questo social-sciovinismo attraverso il semianarchismo piccolo-borghese e non attraverso l’opportunismo piccolo-borghese, questo Arturo Labriola scriveva nel suo libro sulla guerra di Tripoli (1912): “...E’ chiaro che noi non lottiamo soltanto contro i turchi... ma anche contro gli intrighi, le minacce, il denaro e gli eserciti dell’Europa plutocratica, la quale non può tollerare che le piccole nazioni osino fare anche un solo atto o dire una parola che comprometta la sua ferrea ‘egemonia’ (p. 22). E il capo dei nazionalisti italiani, Corradini, dichiarava: “Come il socialismo fu il metodo di redenzione del proletariato dalle classi borghesi, così il nazionalismo sarà per noi italiani il metodo di redenzione dai francesi, dai tedeschi, dagli inglesi, dagli amercani del Nord e del Sud che sono i nostri borghesi”».

E commenta immediatamente dopo: «Ogni paese che ha più colonie, più capitali, più soldati di “noi”, “ci” priva di alcuni privilegi, di un certo profitto o sopraprofitto. Come tra i singoli capitalisti, chi ha macchine migliori della media, o ha una qualche posizione di monopolio ottiene un sopraprofitto, così anche tra i diversi paesi ottiene un sopraprofitto quello che è economicamente meglio situato degli altri. E’ affare della borghesia lottare per i privilegi e i vantaggi del suo capitale nazionale e trarre in inganno il popolo o il basso popolo (con l’aiuto dei Labriola e dei Plekhanov) facendo apparire la lotta imperialista per il “diritto” di depredare gli altri come una guerra di liberazione nazionale».

(Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, Kommunist, n. 1-2, 1915, in Opere, vol. 21, pp. 328-329, Ed. Riuniti, Roma 1966). 

 

 

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