A cent’anni dalla prima guerra mondiale

Le posizioni fondamentali del comunismo rivoluzionario non sono cambiate, semmai sono ancor più intransigenti nella lotta contro la democrazia borghese, contro il nazionalismo e contro ogni forma di opportunismo, vera intossicazione letale del proletariato (4)

(«il comunista»; N° 147;  Febbraio 2017)

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Riprendiamo, come promesso nel nr. 145, gli argomenti trattati nel lavoro di partito sull’Antimilitarismo rivoluzionario. Nella puntata precedente terminavamo con il contenuto del Progetto di risoluzione proposto da Lenin alla Conferenza di Zimmerwald in cui veniva affermato a piene lettere che «la guerra imperialistica apre l’éra della rivoluzione sociale. Tutte le condizioni oggettive dell’epoca contemporanea mettono all’ordine del giorno la lotta rivoluzionaria di massa del proletariato» e, rivolta l’attenzione ai compiti dei comunisti rivoluzionari (all’epoca chiamati ancora “socialisti”), Lenin li indicava sinteticamente come urgenti e vitali: «sviluppare la coscienza rivoluzionaria degli operai, unirli nella lotta rivoluzionaria internazionale, appoggiare e portare avanti ogni azione rivoluzionaria, tendere a trasformare la guerra imperialistica fra i popoli in guerra civile delle classi oppresse contro i loro oppressori, in guerra per l’espropriazione della classe dei capitalisti, per la conquista del potere politico da parte del proletariato, per la realizzazione del socialismo».

 

SULLA QUESTIONE DEL DISARMO

 

Nell’epoca in cui le masse proletarie, in Germania, in Francia, in Italia, nella stessa Russia, avevano dimostrato una grande combattività e un generale atteggiamento di classe nelle lotte sia sul terreno immediato della difesa economica, sia sul terreno politico, ispirati dalla prospettiva della lotta rivoluzionaria socialista contro il capitalismo e la classe borghese dominante, in quell’epoca tra i compiti principali del partito di classe rivoluzionario non poteva mancare la insistente e, per quanto possibile, capillare propaganda socialista per sviluppare la coscienza rivoluzionaria nelle file proletarie; una coscienza che solo il partito di classe rivoluzionario, coerentemente e intransigentemente marxista, possiede e può e deve importare nelle masse proletarie. Queste masse, proprio sulla base della loro esperienza diretta nella lotta di classe, si dimostravano predisposte ad accogliere le indicazioni del partito di classe rivoluzionario, a seguirne gli orientamenti e la guida, a sviluppare durante la lotta di classe e attraverso di essa quella coscienza rivoluzionaria che le metteva in grado di capire che la strada imboccata sotto la direzione diretta del partito di classe –  appunto, ampliare la lotta rivoluzionaria a livello internazionale e tendere a trasformare la guerra imperialistica in guerra civile di classe contro gli oppressori, per conquistare il potere politico e instaurare la dittatura del proletariato – era l’unica strada per porre fine allo sfruttamento capitalistico, porre fine al massacro di guerra, e avviare l’emancipazione di tutte le classi sfruttate del mondo da ogni forma di oppressione e di sfruttamento.

Resta il fatto che la lotta contro ogni deviazione opportunista, di fronte alla guerra imperialista, si faceva necessariamente più dura. Le correnti del marxismo rivoluzionario, rappresentate all’epoca da Lenin e Zinoviev, dalla sinistra internazionalista tedesca con a capo la Luxemburg e Liebknecht, e dalla corrente di sinistra del Partito Socialista Italiano, da cui deriverà la sinistra comunista che fonderà il Partito Comunista d’Italia, dovettero infatti ingaggiare un’estrema battaglia contro le correnti opportuniste non solo bernsteiniane e socialdemocratiche, ma anche kautskiane e pacifiste. Lo scoppio della guerra imperialista e il suo sviluppo, a fronte del quale il proletariato europeo e internazionale si trovò di colpo senza la guida sicura di una Internazionale che solo pochi mesi prima dello scoppio del conflitto mondiale aveva giurato sulle posizioni dell’antimilitarismo rivoluzionario chiamando il proletariato di ogni paese alla lotta rivoluzionaria contro il potere borghese, scossero profondamente non solo le masse proletarie ma gli stessi partiti socialisti. Si fecero così strada non solo le posizioni di collaborazione con la borghesia del proprio paese in difesa della “patria aggredita” dallo straniero, ma anche le posizioni pacifiste che inneggiavano al disarmo. E anche contro il disarmo non poteva non effettuarsi una lotta senza quartiere da parte delle correnti marxiste intransigenti. E’ da qui che riprendiamo le citazioni dal lavoro di partito sull’Antimilitarismo rivoluzionario (1).

«Il prolungarsi dello spaventoso massacro spingeva non pochi socialisti su posizioni sempre più pacifiste. La stessa Jugend-Internationale – l’organizzazione internazionale della gioventù – che sotto la guida di Liebknecht aveva tenuto un atteggiamento veramente socialista non solo prima ma anche durante la guerra, arrivò nel 1916 a parlare sempre più spesso del disarmo come l’unico mezzo per fermare la guerra e impedirne altre in futuro. Già nell’opuscolo Il socialismo e la guerra, Lenin aveva dimostrato come i socialisti non possono essere contro la guerra in assoluto. Una cosa è lottare contro la guerra di rapina imperialista, ben altra è sostenere sempre e comunque il pacifismo parolaio e piccoloborghese. Sostenere che con misure come il disarmo si possano abolire le guerre all’interno del modo di produzione capitalistico, significa dimenticare l’essenza del capitalismo stesso; ma, soprattutto, dimenticare che sarà proprio il proletariato guidato dal suo partito che dovrà condurre la guerra più importante della storia, la guerra contro la borghesia per abbatterne il dominio politico e aprirsi la strada verso il comunismo. “I socialisti, a meno che cessino di essere socialisti [il termine “socialisti” oggi lo tradurremmo in comunisti rivoluzionari, NdR], non possono essere contro qualsiasi guerra. Non bisogna farsi accecare dall’attuale guerra imperialistica. Nell’epoca dell’imperialismo sono appunto tipiche le guerre fra le ‘grandi’ potenze, ma non sono affatto impossibili le guerre democratiche e le insurrezioni dei popoli, per esempio, che lottano per emanciparsi dai loro oppressori. Le guerre civili del proletariato contro la borghesia e per il socialismo sono inevitabili. Sono altresì possibili le guerre del socialismo vittorioso in un solo paese contro gli altri paesi borghesi o reazionari [illuminante, Lenin prevedeva quel che sarebbe accaduto, da lì a pochi mesi, nella Russia dall’ottobre 1917 in poi!, NdR]. Il disarmo è l’ideale del socialismo. Nella società socialista non vi saranno più guerre, quindi in essa si realizzerà il disarmo. Ma non è socialista chi spera di realizzare il socialismo facendo a meno della rivoluzione sociale e della dittatura del proletariato. La dittatura è un potere statale che poggia direttamente sulla violenza.. La violenza, nel ventesimo secolo, come del resto in generale nell’epoca della civiltà, non è il pugno o il randello, ma l’esercito. Inserire nel programma il ‘disarmo’ significa pertanto dichiararsi contrari all’impiego delle armi... in questo non c’è nemmeno l’ombra del marxismo; è come se dicessimo che siamo contrari all’impiego della violenza!” (2).

«Lenin sottolinea che proprio la borghesia è stata dialetticamente costretta ad armare il proletariato – come è costretta a fare del proletariato il proprio becchino – e che è compito del partito rivoluzionario agire per la costruzione della milizia proletaria, ribadendo così il concetto fondamentale dell’insurrezione come arte: “E’ affare della borghesia sviluppare i trusts, cacciare le donne e i ragazzi nelle fabbriche, martirizzarli, corromperli, condannarli all’estrema miseria. Noi non ‘rivendichiamo’ un simile sviluppo, non lo ‘sosteniamo’, lo combattiamo. Ma in che modo? Sappiamo bene che i trusts e il lavoro delle donne nelle fabbriche rappresentano un progresso. Non vogliamo tornare indietro, all’artigianato, al capitalismo premonopolistico, al lavoro delle donne a domicilio. Avanti, per mezzo dei trusts ecc., e più oltre, verso il socialismo! Questo ragionamento, che tiene conto del corso oggettivo dello sviluppo sociale, è valido con le debite modifiche, anche per l’attuale militarizzazione del popolo. Oggi la borghesia imperialista militarizza non solo tutto il popolo, ma anche i giovani. Domani, forse, si accingerà a militarizzare le donne. Tanto meglio! – dobbiamo dire a questo proposito. Si affretti a farlo! Perché, quanto prima essa lo farà, tanto più sarà vicina l’insurrezione armata contro il capitalismo” (3). Ma non basta. Lenin va oltre: il proletariato, anche dopo aver vinto in un paese capitalistico (e i rivoluzionari non hanno mai sostenuto la simultaneità della rivoluzione proletaria in tutti i paesi), ha il dovere non solo di non disarmare, ma di condurre la guerra contro i paesi ancora borghesi». Un concetto, questo, molto presente negli scritti di Lenin dell’epoca, come ad esempio nella Lettera di commiato agli operai svizzeri (4), contemporanea alle più famose Lettere da lontano del marzo/aprile 1917, in cui, ipotizzando la presa del potere in Russia da parte della rivoluzione proletaria e considerando le sue primissime misure politiche riguardo la guerra, sostenne: «1) proporremmo immediatamente la pace a tutti i popoli belligeranti; 2) pubblicheremmo le nostre condizioni di pace consistenti nell’emancipazione immediata di tutte le colonie e di tutti i popoli oppressi o lesi nei loro diritti; 3) inizieremmo immediatamente e condurremmo a termine l’emancipazione completa dei popoli oppressi dai grandi-russi; 4) non ci inganneremmo neppure un istante sul fatto che queste condizioni sarebbero inaccettabili non soltanto per la borghesia monarchica, ma anche per la borghesia repubblicana della Germania, e non soltanto per la Germania, ma anche per i governi capitalistici dell’Inghilterra e della Francia», e Lenin continua nella sua vibrante rivendicazione di un atteggiamento coerentemente rivoluzionario: «Potrebbe accaderci di dover condurre una guerra rivoluzionaria contro la borghesia tedesca, e non soltanto contro la borghesia tedesca. Noi la condurremmo. Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialistica per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell’interesse del socialismo».

E, riprendendo il lavoro di partito da cui abbiamo iniziato, continuiamo a citare dallo scritto sul disarmo di Lenin:

«”La vittoria del socialismo in un solo paese non esclude affatto, e di colpo, tutte le guerre. Al contrario, le presuppone. Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremanete ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercatile. Di qui l’inevitabile conclusione: il comunismo non può vincere simultaneamente in tutti i paesi. Esso vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri resteranno, per un certo periodo, paesi borghesi o preborghesi. Questo fatto provocherà non solo attriti, ma anche l’aperta tendenza della borghesia degli altri paesi a schiacciare il proletariato vittorioso dello stato socialista. In tali casi la guerra da parte nostra sarebbe legittima e giusta. Sarebbe una guerra per il socialismo, per l’emancipazione degli altri popoli dall’oppressione della borghesia... Solo dopo che avremo rovesciato, definitivamente vinto ed espropriato la borghesia di tutto il mondo, e non soltanto in un paese, le guerre diventeranno impossibili” (5). Poderoso ceffone non solo ai rinnegati di allora, ma anche ai successivi sostenitori della “coesistenza pacifica” e della “emulazione”».

 

SULLA POLEMICA CON LE POSIZIONI SOSTENUTE NELLA “JUNIUS-BROCHURE”

 

Trattando dell’atteggiamento contro la guerra imperialista e delle tendenze opportuniste non si può non affrontare il tema delle posizioni della sinistra internazionalista tedesca per bocca dei suoi maggiori rappresentanti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, che all’interno del partito socialista tedesco – il più importante e influente partito della II Internazionale – conducevano una serrata battaglia contro l’opportunismo, senza dimenticare che Rosa Luxemburg fu la prima ad evidenziare le posizioni opportuniste di Kautsky e a combatterle. Nonostante la lotta senza quartiere contro l’opportunismo, la sinistra tedesca assunse posizioni scorrette e commise errori teorici che, pur non intaccando la sua lotta per l’antimilitarismo rivoluzionario, ne sminuirono di fatto la portata reale. E questo fu dovuto ad un insieme di condizioni oggettive, come ricordiamo nel lavoro di partito che stiamo citando, sottolineando che fu Lenin a mettere in luce quali furono queste condizioni oggettive: «la cancrena opportunista – non solo nella sua forma più apertamente socialsciovinista, ma anche in quella, più pestilenziale, “centrista” e di “sinistra” – circondava da tutte le parti i rivoluzionari che, per lo sviluppo proprio del movimento operaio tedesco, mancavano di una valida “organizzazione illegale, abituata a elaborare fino in fondo le parole d’ordine rivoluzionarie e a educare sistematicamente le masse secondo il loro spirito”»(6). E, andando un po’ più a fondo nella critica della posizione giusta ma insufficiente, e perciò esposta a cadere nell’opportunismo, di Junius, Lenin precisa: «....Junius, proprio in quest’opuscolo, dice, del tutto giustamente, che la rivoluzione non si può “fare”. Nel 1914-1916, la rivoluzione era all’ordine del giorno, annidata nelle viscere della guerra, sorgeva dalla guerra. Bisognava “proclamarlo” in nome della classe rivoluzionaria, di questa bisognava tracciare il programma intrepidamente, fino in fondo: il socialismo, in un periodo di guerra, è impossibile senza la guerra civile contro la borghesia arcireazionaria, criminale, che condanna il popolo a calamità inaudite. Bisognava determinare le azioni sistematiche, conseguenti, pratiche, assolutamente attuabili, qualunque fosse il ritmo dello sviluppo della crisi rivoluzionaria, conformi alla linea della rivoluzione che va maturando. Queste azioni sono elencate nella risoluzione del nostro partito: 1) votare contro i crediti; 2) spezzare la “pace civile”; 3) creare un’organizzazione illegale; 4) realizzare la fraternizzazione dei soldati; 5) appoggiare tutti i movimenti rivoluzionari delle masse. Il successo di tutti questi passi conduce inevitabilmente alla guerra civile» (7). In sintesi, ecco un piccolo saggio di che cosa bisogna fare – e i bolscevichi in Russia l’hanno fatto – per rendere reale la parola d’ordine rivoluzionaria: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile!

Ma continuiamo a riprendere il testo di partito del 1978, a proposito delle posizioni sostenute dalla sinistra internazionalista tedesca nella Junius-Brochure, certamente tra le più ferme e coerenti sulla questione della guerra imperialista.

«La Junius-Brochure è senz’altro il testo più completo della sinistra tedesca sulla guerra. Scritto nell’aprile 1915 dalla Luxemburg (all’epoca nel carcere femminile di Berlino), esso venne pubblicato illegalmente solo nel gennaio 1916. Nella prima parte vi si trova una magistrale analisi della guerra in corso e del suo carattere totalmente imperialistico e vi si dimostra, in base ai rapporti interimperialistici anteriori al 1914, come la guerra sia stata lungamente preparata sia a livello diplomatico sia a livello militare: preparazione non dovuta alla volontà più o meno criminale dei capi di stato, ma determinata dallo sviluppo stesso del capitalismo che inevitabilmente tende ad espandersi creando così al proprio interno insanabili contraddizioni, risolvibili temporaneamente solo con la guerra: essa è dunque costantemente presente all’interno del modo di produzione capitalistico, anche nei periodi di sviluppo “pacifico”.

«Ma questo fatto, afferma la Luxemburg, era stato messo costantemente in evidenza dai partiti socialdemocratici della II Internazionale, che aveva denunciato la politica militarista ed imperialista delle potenze europee quale oggettiva minaccia per la pace. “Quando i battaglioni tedeschi entrarono nel Belgio, quando il Reichstag fu posto davanti al fatto compiuto della guerra e dello stato d’assedio, non si trattava di un fulmine a ciel sereno, di una situazione inaudita, di un avvenimento che nelle sue connessioni politiche potesse costituire una sorpresa per il gruppo parlamentare socialdemocratico. La guerra mondiale, iniziata ufficialmente il 4 agosto, fu la stessa per la quale aveva lavorato instancabilmente da decenni la politica imperialistica germanica e internazionale, la stessa il cui avvicinarsi la socialdemocrazia tedesca aveva con altrettanta instancabilità profetizzato quasi ogni anno da un decennio, la stessa che i parlamentari, i giornali e gli opuscoli socialdemocratici avevano mille volte bollato a fuoco come un delitto imperialistico commesso alla leggera, che non aveva nulla a che fare con la civiltà o con gli interessi nazionali, anzi era esattamente il contrario di entrambi” (8).

«Tutte le giustificazioni e le argomentazioni “marxiste” dei maggioritari vengono demolite una dopo l’altra: la condanna della Luxemburg nei confronti dei socialsciovinisti patriottardi è, al pari di quella di Lenin, senza appello. Così nei punti 11° e 12° dei principî direttivi sui compiti della socialdemocrazia [ricordiamo che, all’epoca, la denominazione del partito proletario era ancora “socialdemocratico” o “socialista”, NdR] viene ribadito il programma dell’internazionalismo proletario: “11°. La II Internazionale è saltata in aria con la guerra. La sua insufficienza si è dimostrata nell’incapacità di mettere un argine efficace al proprio frazionamento nazionale nel corso della guerra e di realizzare una tattica ad azione comune del proletariato in tutti i paesi. 12°. In considerazione del tradimento, da parte delle rappresentanze ufficiali dei partiti socialisti dei principali paesi, degli scopi e degli interessi della classe operaia, visto che esse hanno deviato dal terreno dell’Internazionale proletaria sul terreno della politica borghese imperialistica, è una necessità vitale per il socialismo costruire una nuova Internazionale dei lavoratori, che guidi e riunisca la lotta di classe rivoluzionaria contro l’imperialismo in tutti i paesi” (9).

«Quando Lenin venne a conoscenza dell’opuscolo, lo salutò con entusiasmo; ma ne rilevò pure l’insufficienza e gli errori. Certo, il tono da lui usato non è quello rivolto ai socialsciovinisti, agli opportunisti, ai controrivoluzionari in genere; è il tono di un comunista che si rivolge a un altro comunista nel tentativo di correggerne le “scivolate”.

«La prima critica al “compagno tedesco” [Lenin non sa ancora che Junius è Rosa Luxemburg, NdR] riguarda l’affermazione che “nell’era di questo imperialismo scatenato non possono esistere più guerre nazionali. Gli interessi nazionali servono soltanto ad ingannare le masse popolari per asservirle al loro nemico mortale, l’imperialismo” (10). Anche qui, come già anni prima nell’Accumulazione del Capitale, la Luxemburg sottovaluta le spinte antimperialiste delle plebi del mondo coloniale nel tentativo di demolire le elucubrazioni degli opportunisti sulla possibilità di uno sviluppo pacifico delle potenze imperialiste. Lenin critica a fondo questa posizione – che d’altronde non era solo di Junius, ma era sostenuta, oltre che da Radek e da Pannekoek, anche da alcuni bolscevichi come Bucharin e Pjatakov –; egli ricorda come, in linea di principio, non si possono escludere guerre nazionali nemmeno nel cuore del capitalismo, cioè in Europa (una eventualità di questo tipo avrebbe, molto probabilmente, per il movimento proletario un effetto negativo, in quanto comporterebbe un ritardo nel processo storico, anche se non si può escludere a priori un effetto positivo nel senso di una accelerazione del disgregamento delle stesse potenze imperialiste) e, soprattutto, sottolinea l’inevitabilità delle guerre nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali, mettendo in risalto come sia dovere del partito rivoluzionario appoggiarle in quanto fattori progressivi, e legarle direttamente alla lotta rivoluzionaria del proletariato delle metropoli nell’ottica della strategia planetaria del partito unico mondiale tendente all’abbattimento del capitalismo.

«“Ci siamo fermati in  particolare sulla tesi sbagliata che ‘non ci possono più essere guerre nazionali’, non solo perché è teoricamente sbagliata... ma anche perché, da un punto di vista politico e pratico, questo errore si rivela pericolosissimo. Da qui ha preso origine la propaganda insensata a favore del ‘disarmo’, col pretesto che non sono più possibili che guerre reazionarie; di qui deriva inoltre l’indifferenza verso i movimenti nazionali, che è ancora più insensata e direttamente reazionaria. Questa indifferenza diventa sciovinismo quando i membri delle ‘grandi’ nazioni europee – cioè delle nazioni che opprimono una quantità di popoli piccoli e di popolo coloniali – dichiarano, con aria pseudoscientifica, che ‘non ci possono più essere guerre nazionali’! Guerre nazionali contro le potenze imperialistiche sono non soltanto possibili e probabili, ma anche inevitabili. Esse sono progressive e rivoluzionarie anche se il loro successo dipende o dagli sforzi di un grandissimo numero di abitanti dei paesi oppressi (centinaia di milioni, nell’esempio che abbiamo ricordato dell’India e della Cina), o da una concorrenza particolarmente favorevole di condizioni internazionali (per esempio, se l’intervento da parte delle potenze imperialiste venisse a trovarsi paralizzato a causa della loro debolezza, delle loro guerre, dei loro antagonismi ecc.), o dall’insurrezione simultanea del proletariato di una delle grandi potenze contro la borghesia (questa possibilità, che abbiamo elencata per ultima, va messa al primo posto se si parte dal punto di vista della sua desiderabilità e dei vantaggi che può offrire per la vittoria del proletariato)” (11).

«Questa indifferenza per la questione coloniale porta inevitabilmente a conclusioni paradossali: alla guerra imperialista i rivoluzionari tedeschi devono, secondo Junius, contrapporre un “vero programma nazionale” che rivendichi non solo l’armamento popolare, ma anche l’organizzazione democratica della difesa della patria. Il programma nazionale, negato per i paesi coloniali dove ha un effettivo valore rivoluzionario, viene al contrario rivendicato per la vecchia Europa capitalista, dove non può avere che un significato controrivoluzionario. “Un altro ragionamento sbagliato di Junius concerne la questione della difesa della patria. E’ questa la questione politica capitale durante la guerra imperialista. E Junius ha rafforzato la nostra convinzione che il nostro partito ha posto questo problema nel solo modo giusto: in questa guerra imperialista, in considerazione del suo carattere reazionario, di asservimento, di rapina; in considerazione della possibilità e della necessità di contrapporle la guerra civile per il socialismo e di adoperarsi per trasformarla nella guerra civile per il socialismo, il proletariato è contro la difesa della patria. Junius stesso, da un lato, vede benissimo che la guerra in corso, a differenza delle guerre nazionali, ha un carattere imperialista; ma, dall’altro lato, cade in un errore quanto mai strano, sforzandosi di adottare il programma nazionale a questa guerra, che non è una guerra nazionale! (...) Alla guerra borghese imperialista, alla guerra del capitalismo altamente sviluppato, obiettivamente si può soltanto contrapporre, dal punto di vista progressivo, dal punto di vista della classe d’avanguardia, la guerra contro la borghesia, vale a dire, innanzi tutto, la guerra civile del proletariato contro la borghesia per il potere, la guerra senza la quale non è possibile un serio movimento progressivo, e poi – solo in determinate circostanze particolari – una eventuale guerra in difesa dello Stato socialista contro gli Stati borghesi” (12).

«L’ultimo errore dell’opuscolo di Junius – che Lenin analizza per primo – più strettamente connesso alla questione che qui stiamo trattando, riguarda l’azione politica contro i traditori, i socialsciovinisti, i pacifisti, gli opportunisti in genere, per la ricostruzione dell’Internazionale. “Il difetto principale dell’opuscolo di Junius (...) è il silenzio sui legami esistenti tra il socialsciovinismo (l’autore non adopera né questo termine né l’altro, meno preciso, di socialpatriottismo) e l’opportunismo. (...) Ciò è teoricamente sbagliato, giacché non si può spiegare il ‘tradimento’ senza collegarlo all’opportunismo, come tendenza che ha una lunga storia, la storia di tutta la II Internazionale. E’ sbagliato dal punto di vista pratico e politico, giacché non si può comprendere né superare la “crisi della socialdemocrazia” senza chiarire il significato e la funzione delle due tendenze: la tendenza apertamente opportunista (Legien, David ecc.) e la tendenza opportunista mascherata (Kautsky e soci). (...) Il maggior difetto di tutto il marxismo rivoluzionario in Germania è la mancanza di una salda organizzazione illegale che propugni la sua linea in modo sistematico ed educhi le masse in conformità dei nuovi compiti: un’organizzazione di questo genere dovrebbe avere una posizione netta sia rispetto all’opportunismo che rispetto al kautskismo” (13).

«L’errore della Luxemburg – non solo suo ma di “tutto il marxismo rivoluzionario in Germania” – come afferma Lenin – trova le sue radici nella particolare concezione del partito che la grande rivoluzionaria polacca aveva difeso fin dal 1903. Nel suo discorso al II Congresso del POSDR, pur sostenendo i bolscevichi contro i menscevichi nel rivendicare il ruolo dirigente del proletariato e quindi del suo partito nella rivoluzione democratico-borghese, essa si era schierata tuttavia contro di loro sulla questione del partito. Infatti, mentre i bolscevichi rivendicavano per il proletariato non solo la preparazione politica all’insurrezione armata, ma anche la sua preparazione “tecnica”, la Luxemburg sostenne che il lato tecnico non rientrava nei compiti del partito, ma sarebbe stato affrontato e risolto dalle stesse masse nel momento della rivoluzione: ogni preparazione “tecnica” dell’insurrezione da parte del partito avrebbe comportato la trasformazione dell’organizzazione di classe in un movimento puramente blanquista.

«Così, nell’articolo Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, si legge: “Del tutto diverse sono le condizioni dell’azione socialdemocratica. Questa sorge storicamente dalla lotta di classe elementare. Si muove in questa contraddizione dialettica che da un lato l’esercito proletario si recluta solo nel corso stesso della lotta e dall’altro che è ancora soltanto nella lotta che ne chiarisce a se stesso gli scopi. Organizzazione, chiarificazione e lotta non sono qui momenti divisi, meccanicamente e anche temporalmente separati, come in un movimento blanquista, ma sono soltanto facce diverse di uno stesso processo. Da un lato – a prescindere dai principî generali della lotta – non esiste bell’e pronta nessuna tattica dettagliata e fissata in anticipo, in cui i membri della socialdemocrazia possono essere istruiti da un comitato centrale. Dall’altro lato, il corso della lotta, che crea l’organizzazione, determina una fluttuazione continua della sfera d’influenza della socialdemocrazia” (14). Ed è proprio in base a questa concezione idealistica che diventa comprensibile l’atteggiamento della sinistra tedesca durante la guerra: nell’attesa che fossero le “masse” a rompere con l’opportunismo e a rigenerare il partito rivoluzionario, gli spartachisti non presero l’iniziativa di rompere anche organizzativamente con i socialsciovinisti, ma aspettarono che questi li buttassero fuori dal SPD; del pari non si rifiutarono di confluire nell’USPD, di intonazione kautskysta, e che li accolse solo per avere fra le “masse” una “copertura” a sinistra. E quando diedero vita al partito comunista, era troppo tardi: il ritardo del fattore soggettivo nei confronti del moto istintivo – meraviglioso ma inevitabilmente caotico – del proletariato tedesco era ormai incolmabile (15).

«Questa concezione del partito non come fattore soggettivo dell’insurrezione e della rivoluzione proletaria, ma come processo, come partito che segue le masse, e che attende dalla classe nel suo insieme la spinta per ogni sua iniziativa, sminuì inevitabilmente, come abbiamo già detto, anche la portata reale della gigantesca e costante lotta per l’antimilitarismo rivoluzionario, condotta dalla sinistra internazionalista tedesca con la Luxemburg e Liebknecht in prima fila ».

Il tema continuerà trattando delle posizioni della nostra corrente di Sinistra di fronte alla guerra.

 

(4 - continua)

 


 

(1) Vedi “il programma comunista”, n. 7 del 1978.

(2) Cfr. Lenin, Sulla parola d’ordine del “disarmo”, in Opere, vol. 23, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 93.

(3) Cfr. Lenin, op. cit. p. 95.

(4) Cfr. Lenin, Lettera di commiato agli operai svizzeri, 26 marzo (8 aprile) 1917, in Opere, vol. 23, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 367.

(5) Cfr. Lenin, Il programma militare della rivoluzione, in Opere, vol. 23, cit., p. 77. Per una approfondita analisi della teoria staliniana del “socialismo in un solo paese”, rimandiamo alla nostra Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista 1976. Vedi anche alcuni articoli pubblicati ne “il comunista” nn. 134, 139, 142.

(6) Cfr. Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, in Opere, vol. 22, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 317-318.

(7) Ibidem, p. 316.

(8) Cfr. Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, in “Scritti politici”, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 491.

(9) Cfr. Rosa Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, cit., Appendice. Principi direttivi sui compiti della socialdemocrazia internazionale, pp. 449-450.

(10) Ibidem, punto 5°, p. 548.

(11) Cfr. Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, cit., pp. 310-311.

(12) Ibidem, p. 312, e p. 315.

(13) Ibidem, pp. 305-306.

(14) Cfr. Rosa Luxemburg, Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, in “Scritti politici”, cit., p. 222. La risposta di Lenin a questo articolo della Luxemburg la si trova nel suo scritto Un passo avanti e due indietro, Opere, vol. 7, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 460-471. Va rilevato che la risposta di Lenin fu inviata a Kautsky perché venisse pubblicata nell’organo della socialdemocrazia tedesca Die Neue Zeit, dove in precedenza era stato pubblicato l’articolo della Luxemburg, ma Kautsky si rifiutò di pubblicarla.

(15) Su questo complesso argomento vedi la nostra Storia della Sinistra, vol. II, in particolare ai capitoli dal 10 al 13, pp. 454- 509.

 

 

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